“Le forme della sinagoga di Pisa parlano il linguaggio ottocentesco dell’assimilazione, un altro tra i molti idiomi di questo giudaismo inquieto.” Scrive Giulio Busi in Lontano da Gerusalemme. La sinagoga di Pisa è tornata a splendere, dopo un lungo restauro durato otto anni. Tra le mura di questo tempio israelitico si sono raccolti in preghiera personalità uniche dell’ebraismo, come l’indimenticabile rabbino Elio Toaff e lo shadarim Rav Yossef David detto il Chidà. Le finestre dell’edificio in via Palestro, in una domenica di sole, sono aperte e lasciano entrare la luce e il calore dell’estate. Il teatro Verdi è ben visibile, solo qualche tetto a dividere i due luoghi, il sacro e il profano. Gli antichi lampadari che scendono dal soffitto sono accesi, la sinagoga è luminosa come nella festa delle luci, nei giorni della Chanukkat, l’inaugurazione. E quella di domenica è stata una vera e propria rinaugurazione di un tempio tornato ad essere luogo di culto e, come vuole la tradizione, d’insegnamento. La sinagoga è affollata come non succedeva da tempo alla piccola comunità ebraica pisana. Entrando le donne prendono posto a sinistra e gli uomini a destra, nel ballatoio nascosto dagli archetti il matroneo con un folto numeri di fotografi e giornalisti. Al centro la tribuna dell’officiante, Tevà in ebraico, è un palchetto di legno avvolto da una balaustra di marmo dove le autorità, i rappresentanti delle istituzioni e della comunità si alternano negli interventi della cerimonia ufficiale. Significativa la presenza, ricordata con parole di gratitudine dal rabbino della comunità Luciano Caro, dell’imam di Pisa Mohamed Khalil. Viene ricordato che la città della Torre fu amministrata agli inizi del ‘900 da Alessandro D’Ancona, illustre membro della Comunità, direttore della Scuola Normale Superiore e del quotidiano La Nazione. Poi è la volta delle rimembranze dolorose: il rabbino Augusto Hasda e la moglie Bettina Segre che vennero avviati ai campi di sterminio; lo storico Michele Luzzati recentemente scomparso. Il più citato è Giuseppe Pardo Roques, il presidente della comunità ebraica pisana durante la II guerra mondiale, trucidato insieme ad altre undici persone dai soldati tedeschi nel 1944 in via Sant’Andrea 22, a pochi passi dalla sinagoga. La strage nazista resta una delle pagine più drammatiche per la città che lega, tra le altre cose, la località di San Rossore all’emanazione delle leggi razziali nel 1938 e che fa dire al Sindaco Marco Filippeschi come “la memoria ci deve sempre accompagnare nella nostra vita perché non accada mai che qualcuno possa essere discriminato”. Eppure il legame tra l’ebraismo e Pisa è lontano nel tempo, risale al Medioevo. Ben prima dell’espulsione dalla Spagna degli ebrei e della diaspora sefardita avvenuta nel 1492. Molti di quei profughi, in fuga per sopravvivere, si insediarono lungo le coste toscane dando vita ad una delle principali comunità ebraiche in Italia. Pisa e Livorno un secolo dopo, nel 1591, avrebbero “chiuso” i ghetti e consentito, con l’emanazione delle “Leggi Livornine”, agli ebrei libertà di culto e di abitare “in ogni quartiere della città, negli stessi edifici dei cristiani purché si servissero di scale diverse.” Le due città toscane con lungimiranza, che non ebbe altri casi simili per molti anni, rinunciavano a negare un’imposizione, razzista e discriminante, agli ebrei: lasciando loro facoltà di poter essere liberi cittadini. La fine del ghetto implica per la sinagoga una maggiore centralità nella vita della comunità. La Beit Knesset ovvero la “casa dell’assemblea” assume nuova bellezza architettonica, è oggetto di maggiore cura nelle decorazioni. Il culmine artistico per la sinagoga di Pisa è con il restauro ad opera del geniale architetto piemontese Marco Treves a metà dell’ottocento, lo stesso che realizzo la sinagoga di Firenze e che come ricorda David Cassuto, figlio di Nathan rabbino capo di Firenze nel 1943 che morirà nel 1945 nel campo di concentramento di Gross Rosen: ” ha realizzato anche chiese e forse avrebbe costruito anche moschee se fosse vissuto oggi”. Meno di due secoli dopo la sinagoga di via Palestro torna ad essere “l’istituzione pulsante del nucleo ebraico”, la “casa” e il “rifugio”. È visibile la soddisfazione, in particolare del presidente della comunità Guido Cava e del segretario Giacomo Schinasi, per il successo del restauro: nella sinagoga è un giorno di festa. Piero Nissim commuove quando ricorda la figura del padre Giorgio, eroico antifascista che riuscì a mettere in salvo più di 800 ebrei. Per poi appassionare e coinvolgere i presenti con il canto d’inizio dello shabbat, quello della festa di Chanukkha e le allegre canzoni della tradizione Yiddish. Doverosi i ringraziamenti a quanti hanno contribuito per riportare tra noi nella sua completa bellezza questo luogo. E che hanno fatto in modo che le porte dell’ Haaron Hakodesh dove sono custoditi i rotoli tornassero ad aprirsi di nuovo alla città, a tutti quelli che vorranno visitate questo luogo così emozionante.
Archivi del mese: giugno 2015
PRICE TAG?
Nord di Israele. Galilea. Regione di Kinneret. Pochi chilometri dall’antica cittadina di Cafarnao. Violato il santuario cristiano dove secondo la tradizione Gesù compì il miracolo, moltiplicando i pani e i pesci. La piccola chiesa di Tagbha, santuario benedettino, che sorge a pochi metri dalle acque del Mar di Tiberiade in fiamme nella notte tra mercoledì e giovedì. Incendio doloso, molto probabilmente. A far propendere per la pista a sfondo religioso una scritta in ebraico che inneggia alla cacciata dei falsi idoli comparsa sul muro del complesso. Un gruppo di seminaristi religiosi provenienti da insediamenti coloniali in West Bank è stato inizialmente fermato. I giovani ebrei ultraortodossi sono stati arrestati e poi rilasciati per mancanza di prove. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di “atto atroce”, dichiarando che: “Lo scioccante incendio della chiesa è un attacco a tutti noi.” Netanyahu ha voluto sottolineare come la libertà religiosa è tra i valori fondanti di Israele e per questo “è ancorata alla legge”. Il capo del governo di Gerusalemme ha chiesto ai servizi segreti dello Shin Bet di accelerare le investigazioni: “Nella nostra società non c’è spazio per l’odio e l’intolleranza.” Il numero di vandalismi e violenze anti cristiane ha avuto un aumento esponenziale lo scorso anno in tutta la Terra Santa. Secondo l’agenzia di stampa Infopal ci sono stati “86 attacchi israeliani contro luoghi sacri islamici e cristiani nel 2014” a Gerusalemme e nella Cisgiordania. Il ripetersi di crimini vandalici da parte di estremisti ebrei fa pensare ad azioni premeditate, i cosiddetti “price tag”: attacchi terroristici perpetrati da gruppi di giovani degli insediamenti, il “prezzo” da far pagare ai palestinesi o all’esercito israeliano per ogni torto ricevuto dai coloni. Mentre veniva resa pubblica l’enciclica papale “Laudato si”, un manifesto ambientalista con forti critiche al potere e che aprirà un ampio dibattito, a Gerusalemme il presidente Reuven Rivlin condannava l’incendio di Tagbha. Durante la lunga conversazione con padre Gregorio Collins, abate dell’ordine benedettino in Israele, Rivlin ha sostenuto che “questa terribile profanazione di un antico e sacro luogo di preghiera è un attacco alla fabbrica della vita del nostro paese, dove persone di differente fede cercano di vivere insieme in armonia, tolleranza e rispetto.” L’escalation della violenza e dell’odio religioso in Terra Santa preoccupano a Gerusalemme come a Roma. Lo stop ai pellegrinaggi cattolici in Terra Santa è una prospettiva palesata. I “price tag” sono una realtà inquietante.
LA TOSCANA IN FAVORE DELL’UNHCR
Un concerto a Firenze Sabato 20 giugno 2015 per sostenere l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e i rifugiati. Un grande evento per sostenere i diritti umani di milioni di persone nel mondo. Lo richiede, da anni, la storia quotidiana. In Siria si calcola che ogni giorno ci siano 9.500 rifugiati in più. Sono uomini, donne, bambini e anziani costretti ad abbandonare la propria casa. In questo caso il dramma siriano è riconducibile ad una guerra civile, con ricadute sul Medioriente e fuori dai confini regionali. Al mondo, attualmente, ci sono 50 milioni di persone costrette a fuggire a causa di cataclismi, violenze e violazioni dei diritti umani. Eppure, quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati nasce, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, le previsioni sono ottimistiche per i rifugiati europei. Il 14 dicembre 1950 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituisce l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) con un mandato di tre anni per portare a termine il proprio compito e destinato successivamente a sciogliersi. Ebbene, come tutti sappiamo da allora non è stato mai chiuso e chiunque può, rendersi conto di quanto sia un “ufficio” indispensabile. Dal 1951 viene adottata la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, base giuridica dell’assistenza ai rifugiati e statuto guida dell’attività dell’UNHCR. Al capitolo IV del documento che l’Italia ratifica nel 1954 si affronta il tema del Benessere sociale del rifugiato. Ovvero quella parte dello statuto, entrato in vigore dal 1955 nel nostro paese, dove si indicano le condizioni da offrire al rifugiato in termini di cibo, alloggio, salute e sicurezza sociale. Quattro articoli che spesso, troppo, negli ultimi mesi vengono, in Europa e in Italia in particolar modo, politicamente strumentalizzati o peggio ancora dimenticati. Articoli che non possono essere stracciati. In questo senso occorre promuovere una corretta informazione, evitando il rischio di dare adito a fraintendimenti. A riguardo l’Italia nel 2008 ha adottato un codice deontologico, la Carta di Roma, allo scopo di fornire ai giornalisti delle linee guida che facilitino un’informazione equilibrata ed esaustiva su richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti. In questi anni l’UNHCR ha formato vari team con una vasta gamma di competenze chiave, pronti ad essere dispiegati e immediatamente operativi in tutto il mondo. L’UNHCR ha la capacità “di mobilitare in risposta ad una situazione critica più di 300 operatori qualificati per soccorrere 600.000 persone entro 72 ore, in ogni angolo del mondo”. L’organizzazione internazionale ha inoltre sviluppato meccanismi di mobilitazione immediata di risorse finanziarie per fare si che la risposta all’emergenza arrivi tempestivamente. Publiacqua e Water Right Foundation, con il sostegno della Regione Toscana e di Unicoop Firenze hanno risposto a questo appello aderendo al World Refugee Day Live, organizzando un grande evento per sensibilizzare l’opinione pubblica della regione. Ecco, allora, il grande evento: sabato 20 giugno 2015 all’Ippodromo del Visarno a Firenze si svolgerà il concerto, con la presenza di famosi artisti italiani, per la raccolta fondi. Il biglietto d’ingresso, sarà di 10 euro con i quali l’UNHCR, garantirà un mese di acqua potabile a un rifugiato che vive in condizioni di emergenza umanitaria e l’incasso sarà totalmente devoluto a UNHCR. Gli esempi concreti dell’operato di questa agenzia sono nei dati. In Nepal a causa del recente sisma gli aiuti d’emergenza dell’UNHCR hanno consentito nelle prime ore di dare “aiuti a 40 mila sopravvissuti”. Un altro esempio dell’impegno dell’UNHCR è in Siria dove soltanto negli ultimi dodici mesi sono stati distribuiti kit a quasi tre milioni di siriani. I kit comprendono: “3 materassi, 5 coperte normali o termiche nei mesi invernali, 3 materassini, 1 set comprendente gli utensili per cucinare, 1 bidone per l’acqua, 1 lampada solare, un telo di plastica e un ventilatore per i mesi estivi. In aggiunta ad oggetti fondamentali per l’igiene della famiglia, tra cui pannolini, assorbenti igienici.” Piccoli aiuti necessari a chi ha perso la casa e a cui resta solo la speranza.
VIAGGIO A HOLOT
Milano, Roma nelle principali stazioni di transito italiane qualche centinaia di immigrati in cerca di una destinazione. Poche persone confrontate con il flusso di viaggiatori, pendolari e turisti in transito ma sufficienti a mostrare un problema, una situazione emergenziale che nasce non in Italia ma sulle sponde sud del Mediterraneo, in Medioriente, nell’Africa subsahariana. Guerre, carestie e disastri, arrivano da queste terre molti dei 50 milioni di rifugiati nel mondo secondo l’agenzia delle Nazione Unite, i dati sono dell’ufficio UNHCR. Rifugiati, “protetti” da convenzioni internazionali, in fuga e a rischio della vita, arrivano lungo le nostre coste, sono richiedenti asilo, vittime della tratta e migranti. Come gestirne il flusso? Alcuni stati introducono nuovi approcci e aprono la discussione, politica e morale. Sono risposte sufficienti? Oppure semplici palliativi? Nel Medioriente dei conflitti in Israele si sta discutendo su come affrontare il destino dei 50mila immigrati clandestini entrati nel paese, prima che nel 2013 venisse “srotolato” lungo il confine con l’Egitto la barriera che oggi impedisce l’ingresso. Lo scorso anno 7mila sono stati rimpatriati, mentre solo 1.500 hanno deciso volontariamente di lasciare Israele per un paese terzo. Trasferire in massa gli immigrati in un paese africano, diverso da quello di provenienza, è la misura in discussione in questo momento a Gerusalemme. Secondo quanto riportato dai media il precedente governo era pronto a finalizzare un accordo multimilionario con alcuni paesi africani, Rwanda e Uganda, dove espellere gli immigrati che avessero volontariamente deciso di lasciare Israele. Questioni politiche, umanitarie, morali ed economiche in questi giorni si intrecciano. Nel frattempo, a Holot nel centro di detenzione più importante di Israele vivono circa 1500 immigrati in attesa di conoscere il proprio futuro. Per arrivare ad Holot da Gerusalemme ci vogliono quasi tre ore di viaggio. Passando le verdi colline dei vigneti di Latrun. Lasciando in lontananza le città di Ashdod, Gaza ed infine Beer Sheva si attraversa il deserto del Neghev con le dune di sabbia rossastra. Lungo la strada n. 40 il paesaggio è movimentato dai villaggi beduini, dai verdi kibbutzim e dalle tende da campo dei soldati in addestramento. Imboccata la numero 211 i carri armati in manovra sulle dune alzano nuvole di sabbia. Il lungo reticolato perimetrale di Holot è a pochi metri da quello della prigione di Saharonim. Al suo interno ben visibili blocchi numerati, edifici ad un solo piano, la biancheria al sole. L’ingresso all’interno del centro è vietato alla stampa. Intervistiamo Nicole Englander, portavoce del governo, ci dice che “ogni modulo abitativo con aria condizionata può ospitare fino ad un massimo di 10 persone, nel centro ci sono negozi e cliniche mediche, biblioteca e caffetteria”. Ma Holot visto da fuori non è un villaggio turistico, tutt’altro: è una “prigione aperta” per soli uomini. L’ingresso principale è una grande volta sopra un cancello, a lato un piccolo edificio con due porte, tra queste un distributore di bevande, in alto la bandiera d’Israele. I tornelli ruotano in continuazione, al passaggio degli immigrati. Alla vicina fermata del bus la pensilina con il cartello indica solo tre destinazioni, la più vicina è il villaggio di Nizzan, la più lontana la città di Beer Sheva. Il personale che ha terminato il turno di servizio è in coda per salire sul bus numero 44. Alla vista della macchina fotografica alcuni immigrati preferiscono non farsi riprendere, altri non vogliono parlare. Sono di provenienza eritrea o sudanese. Come Adam e Faisal, vengono dal Darfur, 39 anni il primo e 32 il secondo, salutano in ebraico per poi parlare in perfetto inglese, sono arrivati nel centro a marzo del 2013. Raccontano la loro storia, il tentativo di giungere in Italia dalla Libia, dove hanno soggiornato a lungo, fermati dalla paura del mare e dalle tariffe elevate degli scafisti. Allora, hanno intrapreso la via delle carovane della morte, pagando mille dollari per raggiungere la Terra Santa. Sono sfiduciati, nel campo si annoiano e l’unico svago è praticare sport, nei loro volti rassegnati c’è dignità. Nel piazzale antistante l’ingresso rottami, auto dismesse, bottiglie accatastate sono sparse ovunque. Tende e ombrelloni colorano l’ambiente. Alcuni giovani africani preparano i narghilè mentre altri sbucciano frutta o tagliano verdure. E’ il convivio dei migranti, un suk polveroso e scarno. “A Holot ciascun immigrato riceve un sussidio giornaliero di 16 shekels, meno di 4 €, servono per le spese personali” come tiene a precisare Nicole. Mohamed non vuole essere fotografato, racconta che a Tripoli non ha avuto il coraggio d’imbarcarsi, cosa che invece ha fatto il suo amico fraterno ora in Italia. Oggi è pentito, però non è disposto ad accettare, in cambio di denaro e visto, la destinazione per un paese africano. Scuote la testa e aggiunge: “Io resterò, altrimenti tornerò a casa, se proprio devo morire voglio farlo nella mia terra”. Israele nella sua storia ha dato asilo a gente proveniente da tanti paesi, persino dal Vietnam e più recentemente dal Nepal. Oggi si chiede cosa fare dei migranti africani: se regolarizzarli diventando così forza lavoro e chiudendo luoghi come Holot, oppure procedere con le espulsioni. L’Italia come l’Europa deve avere il coraggio di porsi la stessa domanda sapendo che i flussi migratori non si fermano. Con questo fenomeno dobbiamo convivere.
FRANCESCO NELLA GERUSALEMME DELL’EST
Appunti di un viaggio in modalità Bergoglio. Papa Francesco nei Balcani. In Bosnia ed Erzegovina, nella Gerusalemme dell’Est. Un viaggio veloce, tecnicamente, solcando un cielo vicino. Nei primi anni novanta troppo vicino per comprendere cosa sia successo per quattro lunghi anni, senza che nessuno si alzasse davvero e urlasse al tradimento di tante verità. Pagate col sangue, da gente spesso innocente. Sarajevo apparirà bellissima a Francesco, come è sempre stata. Multietnica e multireligiosa. Ricca e segreta. Ricostruita e ora al lavoro per riaffermarsi. Il prezzo pagato da tutti merita un adeguato ritorno alla completa dignità. Per tutte le genti che abitano queste terre. Un viaggio comunque importante quello di Bergoglio perchè a pensarci con onestà intellettuale, l’Inferno di Sarajevo pare lontano nel tempo. Eppure sono passati solo venti anni dalle fine dell’ultimo conflitto che ha avuto luogo in Europa, in queste terre di confine. Dove identità e diversità sono condizioni culturali e non geografica. E la convivenza tra cristianesimo e islam è storia di un modello di coesistenza “armonico” spesso calpestato. In questo suolo, ora estremo oriente, ora cuore dell’occidente e ora al “centro del nulla” ha avuto luogo un esempio di inciviltà e assurda barbarie. Cristiani contro musulmani. Cattolici contro ortodossi. Ebrei in fuga. La federazione slava implosa nel sangue. Nel nome della vendetta, della razza, dell’etnia e della religione venivano compiuti immani carneficine, mattanze. Anziani e bambini uccisi, donne stuprate. Il simbolo della drammatica guerra che spazzerà via dalle cartine geografiche la Jugoslavia è l’assedio di Sarajevo. Quattro anni di terrore assoluto per i suoi cittadini. È il più lungo assedio della storia contemporanea. 12 mila morti. Decine di migliaia di feriti e invalidi di guerra. Vittime ignorate per troppo tempo dal resto del mondo. Sarajevo ha rischiato di scomparire sotto i bombardamenti. Ostaggio dei cecchini e dei criminali di guerra. In quei tragici giorni il terrorismo dei singoli e degli stati, l’ideologia nazionalista e la post ideologia comunista, costruiva, tra le montagne e nella conca di questa capitale europea, il nido dell’integralismo moderno. La fine era ad un passo. Ma poi Sarajevo si è salvata, è tornata a vivere con la speranza di vedere, finalmente, una Europa multiculturale, cosmopolita. Al di là di ogni differenza, tutti in una sola cosa. Il significato del viaggio apostolico di Papa Francesco è nelle parole inviate con un video messaggio alla comunità cattolica di Bosnia, circa mezzo milione di fedeli: “Vengo tra di voi per sostenere il dialogo ecumenico e interreligioso. Per incoraggiare la convivenza pacifica.” Unità degli esseri umani, contro la divisione, per realizzare la pax universale nel segno della dottrina internazionale di Papa Francesco. Il Pontefice della mediazione, colui che vuole edificare i pilastri di un ponte duraturo tra Oriente e Occidente. Aggirando i protocolli diplomatici e sbalordendo l’opinione pubblica con gesti inusuali alla sua carica, Francesco avvicina le diversità. Evita il paradigma dell’incomunicabilità con la pratica comune a tutte le religioni, la preghiera: così come avveniva un anno fa nei giardini del Vaticano durante lo storico incontro tra il leader palestinese Abu Mazen e quello israeliano Shimon Peres. Concludendo con successo il percorso iniziato giorni prima con il pellegrinaggio in Terra Santa. I segreti della strategia di Francesco sono la semplicità del messaggio e il valore dell’amicizia. Il raccoglimento congiunto e appello a Dio. Nel rispetto dell’altro e delle sue tradizioni. Per sciogliere il nodo gordiano della contrapposizione, della diffidenza e dell’incomprensione eterna. “Operate per una società che cammini verso la pace, nella convivialità e nella collaborazione reciproca” l’invito di Francesco prima di partire per questo delicato viaggio. In una terra dove sventolano le bandiere nere dello stato islamico e dove la jihad trova terreno fertile per reclutare le sue milizie del terrore.