L’offensiva turca in Siria, dopo un primo cedimento delle forze curde, sembra essere entrata nel vivo di una guerra che potrebbe ben presto trasformarsi in un conflitto di logoramento. L’operazione “Ramoscello di Ulivo” lanciata da Erdogan contro l’enclave curda di Efrin incomincia ad incontrare le prime resistenze.
Ed è destinata, prima o poi, ad allargare il fronte ad altre aree, dentro e fuori la Siria. Gruppi di curdi iracheni si appresterebbero ad attraversare il confine per correre in aiuto dei fratelli di Efrin, come fatto a Kobane. La partita militare e geopolitica è appena iniziata. Usa, GB, Germania e Francia hanno fortemente criticato l’invasione turca. Altre volte le truppe di Ankara erano entrate in suolo siriano per punire la minaccia “terroristica”, senza innescare la reazione internazionale.
E tantomeno, le incursioni avevano provocato il malcontento di Assad, che in cambio di accordi economici vantaggiosi con i vicini cugini aveva tollerato ripetuti sconfinamenti. Nel nome di una amicizia, rafforzata dagli ottimi rapporti intercorsi per anni, tra il dittatore di Damasco e il Sultano di Istanbul: incrinata solo dall’espandersi della guerra civile e dall’implosione del regime.
Oggi, dopo la certificata sconfitta del Califfato, Assad controlla circa la metà del Paese, nella restante parte l’influenza curda è sicuramente quella più significativa. Spalleggiata, organizzata e aiutata, dagli americani. Ufficialmente la linea di Trump, espressa in queste ore da Tillerson, è che dopo l’Isis il vero nemico da fermare nella regione sia l’Iran. Il segretario di stato statunitense, in una recente dichiarazione rilasciata alla Stanford University, ha tratteggiato il disegno politico e strategico a stelle e strisce nell’area: mantenere una presenza militare sul campo e non destabilizzare le conquiste fatte dai curdi.
Si tratterebbe quindi di un approccio morbido nei confronti di tutti gli attori in campo, in particolare un credito alla Russia in termini di maggiore flessibilità sui tempi della riunificazione, o spartizione, della Siria. L’obiettivo finale dichiarato da Washington resta comunque la destituzione definitiva di Assad e la sua sostituzione con democratiche elezioni. Continuando in questa fase di transizione a supportare le forze curde stanziate ad Efrin, che appartengono alle Unità di protezione del popolo (Ypg), il braccio armato delle Forze democratiche siriane (Sdf).
Il Pentagono sarebbe impegnato ad allestire un esercito curdo di 30mila uomini. Una coltellata alla schiena per Erdogan, che è passato all’azione. Dopo essersi segretamente consultato con Russia e Iran, siglando un tacito accordo che avrebbe messo in secondo piano anche la politica di de-escalation militare di Mosca in Medioriente. Putin informato delle intenzioni di Erdogan avrebbe dato il semaforo verde all’operazione, ritirando prima dell’attacco i suoi osservatori schierati nella provincia di Efrin.
Inoltre, i comandi militari turchi, in queste ore, opererebbero in stretto contatto con i colleghi dell’ex armata sovietica, per evitare il ripetersi della crisi innescata nel novembre 2015 in seguito all’abbattimento di un caccia russo. Evento che portò il gelo tra i Palazzi di Ankara e quelli della Piazza Rossa, rallentando drasticamente i lavori di costruzione del Turkish Stream (il gasdotto che dal Mar Nero arriverà in Europa meridionale). Lo scenario rispetto ad allora è molto mutato, Erdogan e Putin hanno seppellito l’ascia di guerra ed i benefici del sodalizio sono andati proprio a Gazprom. Al momento, il colosso energetico russo valuterebbe la possibilità di cambiare l’approdo finale della tubatura, preferendo alla Grecia la Bulgaria. Decisione che chiamerebbe in causa sia l’Ue che, ovviamente, la Turchia.
Ed è da molti analisti ritenuto plausibile che sul tavolo del nulla osta all’operazione “Ramoscello di Ulivo” possa esserci finita anche questa nuova scelta geografica ed economica. La pace del gas tra lo Zar e il Sultano è pagata con il silenzio della questione curda.
Archivi categoria: Blog
L’OROLOGIO DELLA RIVOLTA TUNISINA
La Tunisia è a rischio di deragliare. La collera dei giovani per il carovita da giorni infiamma le piazze delle periferie, sprigionando violenza e saccheggi. E lo stato risponde con l’esercito per reprimere, e contenere, la protesta. La scintilla che ha fatto esplodere la rivolta è stata l’introduzione di una finanziaria di sangue e dolore: imposte alzate per i beni di prima necessità, dalla benzina ai generi alimentari. Austerità che colpisce anche telefoni e internet. E c’è chi pensa che l’unica alternativa è imbarcarsi per l’Italia.
Da quando è stata “romanticamente” rovesciata la dittatura sette anni fa, la Tunisia ha attraversato un periodo travagliato e drammatico con l’acutizzarsi del terrorismo. I progressi compiuti sul piano dei diritti, introdotti sull’onda del “successo” della Rivoluzione dei Gelsomini, si sono arenati, la fase di transizione non ha scardinato il nepotismo, il sistema di corruzione e l’apparato burocratico del vecchio regime ha mantenuto saldamente il controllo del potere. Mentre, il persistere della crisi economica che attanaglia le famiglie ha minato la fiducia nell’esecutivo di Youssef Chahed, la cui popolarità è ai minimi.
Disoccupazione intorno al 15%. Un terzo dei giovani non ha sbocchi di lavoro. Per coloro che hanno un posto il problema è il basso livello del salario, la media è 150€ al mese. Il quadro macroeconomico è altrettanto debole. Inflazione che supera il 5%. Il dinaro la valuta locale in picchiata. Crescita deludente, con il deficit commerciale che sfiora i 6 miliardi di dollari. L’industria del turismo, una volta il pilastro dell’economia del Paese, a causa degli attentati è a terra e non riesce a sollevarsi.
Usa, Francia, Italia insieme a molti altri stati europei e non hanno nel corso di questi anni messo a disposizione del governo di Tunisi piani d’assistenza considerevoli, con centinaia di milioni di dollari in crediti, vendita di armi, condivisione dell’intelligence e programmi di cooperazione in vari settori chiave. Azioni insufficienti a curare una situazione endemica.
Un anno dopo la fine della dittatura di Ben Ali i sondaggi indicavano che il 70% della popolazione avrebbe preferito una democrazia ancora instabile e imperfetta piuttosto che un governo autoritario. Gli ultimi rilevamenti ribaltano completamente l’opinione della gente, la maggioranza assoluta è oggi convinta che la democrazia è un lusso che non vale la candela: più pane meno libertà, lo slogan demoralizzante che accompagna il dissenso.
Un secolo prima dell’anno zero, il grande impero di Cartagine nel Maghreb era alla vigilia della sua caduta e distruzione per mano di Roma. Un crollo che minaccia di ripetersi dopo duemila anni, con l’attuale governo assediato non dalle legioni dei centurioni romani ma da: tassi di prestiti internazionali, terrorismo, crisi economica e disfunzione politica. Se la Tunisia, in collaborazione con la Comunità Internazionale, non riuscisse a trovare una soluzione – a frammentazione e disuguaglianze sociali – il primo effetto che ci dobbiamo aspettare è una ondata di rifugiati e migranti. La destabilizzazione della Tunisia provocherebbe di riflesso un vuoto anche nell’ideologia araba. Segnando la fine della credibilità del sogno di un possibile modello di democrazia esportabile nel Medioriente, dilaniato da interminabili conflitti e orrende guerre civili. Altro caos nelle sollecitate regioni della sponda meridionale del mar Mediterraneo andrebbe inoltre, ad alimentare il diffondersi della metastasi jihadista nelle aree più povere, dove cellule terroristiche trovano terreno fertile, protezione e base organizzativa.
Le elezioni legislative e presidenziali previste per l’anno prossimo sono cruciali per verificare l’assetto democratico. Arrivare a quella data fatale senza riforme salariali e sviluppo occupazionale, con l’esercito a presidiare le strade, non è il modo migliore per mostrare che nel mondo arabo la “primavera” può ancora fiorire.
TRUMP PROVA A COMPRARE I PALESTINESI
Trump e una nuova ossessione, i palestinesi. Ad infastidire il chiomato presidente della prima potenza mondiale sono pochi milioni di palestinesi, la maggior parte dei quali vive sotto occupazione israeliana o in campi profughi sparsi per il Medioriente. L’inquilino della Casa Bianca non ha digerito il rifiuto ad accettare la sua proposta per Gerusalemme capitale di Israele ed è passato alle minacce via tweet. Dimostrando di essere un capo di stato tutt’altro che banale e innocuo. È un prepotente che aspira a edificare un ordine geopolitico irrazionale perchè centrato su contrapposizione ed esclusione. Trump nel tentativo di convincere la riluttanza, e resistenza, palestinese a sottomettersi al suo programma, ha giocato la carta bieca del ricatto dei dollari. Scoprendo che la Palestina non è in vendita e non si piega servilmente a diktat.
Un recente studio della Banca Mondiale “profetizza” un boom record per l’economia palestinese nei prossimi dieci anni, con un tasso di crescita del 6%, stimando 50mila nuovi posti di lavoro nella Cisgiordania e 60mila a Gaza. A fronte di un’attuale percentuale di disoccupazione che oscilla intorno al 30, e raggiunge punte superiori al 40% in alcune aree della Striscia di Gaza. Nel rapporto della Banca Mondiale è evidenziato come il potenziale sviluppo economico andrebbe a colmare le odierne lacune: scarsi investimenti nella formazione professionale, assenza di un catasto, carenza di riforme fiscali, incapacità di uniformare la riscossione delle imposte, insufficiente qualità dei servizi al cittadino e un maestoso esercito di statali da razionalizzare. A medio termine il quadro della Palestina presenterebbe promettenti possibilità per una crescita sostenibile, naturalmente siamo nell’ambito delle ipotesi, lontani dalla realtà. Due fattori condizionano e determinano il futuro dei palestinesi: il conflitto israelopalestinese e gli aiuti internazionali. Secondo l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), negli ultimi 25 anni sono stati investiti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza oltre 35 miliardi di dollari in aiuti. Per una media di 560 dollari pro capite all’anno. Cifra che pone il popolo palestinese tra i primi beneficiari di fondi non militari al mondo. Washington nel 2016 avrebbe erogato 616 milioni dollari a Ramallah, circa la metà convogliati nel programma dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso ai rifugiati palestinesi (UNRWA). I principali stati mondiali impegnati nelle donazioni (ufficiali) ai palestinesi sono: USA, Unione Europea, Arabia Saudita, Norvegia, Germania e Gran Bretagna. È quindi evidente come l’eventuale blocco dei contributi americani avrà una pesante ricaduta, che induce a riflettere sul funzionamento del sistema di donazioni frutto dell’impalcatura degli accordi di Oslo del 1993 e giunto sino ai giorni nostri, un metodo fatto di enormi flussi di denaro che non è riuscito ad impedire lo sgretolamento del quadro politico che l’aveva generato. I miliardi riversati nelle casse dell’Autorità Nazionale Palestinese, e nei conti privati di Arafat, non hanno accelerato la nascita di uno stato indipendente e sovrano, al contrario hanno parallelamente finito per convivere con il paradigma dell’occupazione e dell’espansione delle colonie illegali israeliane. Producendo una distorsione nel progresso dei diritti dei palestinesi. Inducendo una sorta di dipendenza da donazioni internazionali, aiuti che non sono stati in grado di portare positivi cambiamenti al livello di vita palestinese, in taluni casi hanno persino aggravato la situazione di settori chiave: sanità pubblica, agricoltura ed export. In Palestina la solidarietà internazionale ha raggiunto dimensioni industriali, senza perseguire gli obiettivi strategici fissati. Un fallimento che però non può assolutamente giustificare l’approccio dell’amministrazione Trump, dove si teorizza il riconoscimento “giuridico” all’occupazione e la negazione di un popolo.
IL CORO NATALIZIO DEL PALAZZO DI VETRO LE CANTA A TRUMP
L’ONU bacchetta sonoramente la politica estera di Donald Trump. La Comunità internazionale, o almeno la sua quasi totalità, ribadisce che lo status di Gerusalemme è immodificabile e materia di negoziati tra palestinesi ed israeliani, qualsiasi atto unilaterale è illegale e nullo. Nonostante le minacce dell’ambasciatrice statunitense all’ONU Nikki Haley, a chi avesse tentato di condannare la decisione di Trump su Gerusalemme capitale di Israele, l’Assemblea del Palazzo di Vetro ha passato in modo schiacciante una risoluzione contro lo strappo del presidente americano. Parole, quelle di Trump, che avevano immediatamente scatenato tensioni tra esercito israeliano e giovani palestinesi, varcando i confini della Terra Santa ed espandendo la protesta nel mondo islamico. L’esito al Palazzo di Vetro arriva dopo che il più grande blocco di stati musulmani riunitisi a Istanbul, pochi giorni fa, aveva dichiarato in risposta al presidente americano, la parte di Gerusalemme est come capitale di un futuro stato palestinese. In quella sede il sultano Recep Tayyip Erdogan aveva tuonato contro Israele con toni durissimi, segnando una linea rossa. Erdogan sventolando la bandiera palestinese ha unito, almeno formalmente, tutto il mondo arabo. Il presidente turco ha dato vita ad una “alleanza” trasversale e destinata a non durare, tuttavia, è riuscito in un’impresa impossibile sul piano del contesto geopolitico mediorientale. Per la prima volta la Turchia si è posta come alternativa alle decisioni, e alle strategie, degli USA nella regione. La bomba di Trump ha generato, e non poteva non essere così, una reazione a catena che solo l’ONU poteva disinnescare, ma a questo punto contenerne gli effetti pare complicato. L’Europa si smarca dalla Casa Bianca in modo chiaro, rompendo un asse storico. Trump ha provocato le ire persino di papa Francesco, toccando un nodo, quello di Gerusalemme, molto delicato per il Vaticano. Mentre la Russia si avvantaggia allargando le influenze nell’area più “calda” al mondo. Mosca è interessata a mantenere il dominio sulla Siria, in modo da verificare sul terreno la validità della cooperazione con la Turchia. L’obiettivo principale della strategia russa è registrare il consenso internazionale per mantenere l’unità territoriale siriana, e salvare il regime di Assad. Un’approccio che porterà in secondo piano la causa del popolo curdo, rafforzando però l’asse tra Ankara e Damasco. La Russia è stata storicamente un forte alleato delle milizie curde in Iraq e Siria, e da sempre il Cremlino è stato favorevole all’indipendenza curda. Nel soqquadro creato da Trump i curdi perdono pezzi importanti di sostegno, non solo militare. Putin inoltre, si è dimostrato un credibile mediatore degli interessi dell’Iran e allo stesso tempo ha lavorato per raggiungere un equilibrio con Israele, ovvero le due principali potenze militari della regione assieme alla Turchia. Grazie alle pressioni dell’intelligence ex sovietica i miliziani sciiti, addestrati e armati da Teheran, presenti in Siria non sarebbero stati collocati nelle zone del Golan, evitando il rischio di contatto e scontri con l’esercito israeliano. Il Medioriente è in mano a nuovi player, palestinesi ed israeliani dovranno scegliere bene con chi schierarsi, gli “amici” talvolta possono dimostrarsi dannosi.
La contesa della città del Muro del Pianto, della Spianata e del Santo Sepolcro è strettamente connessa con il futuro della Palestina e del suo popolo. Sulla questione della criticità e delle sofferenze della comunità cristiana palestinese sotto occupazione israeliana già nel 2009 i Patriarchi e i massimi esponenti delle Chiese di Gerusalemme si erano espressi con un documento congiunto, il Kairos Palestina: “La nostra connessione a questa terra è un diritto naturale. Non è solo una questione ideologica o teologica. E’ una questione di vita o di morte”. Negare lo stato di Israele non è meno pericoloso di negare ai palestinesi uno stato, ed una capitale, condivisa pacificamente.
BETLEMME IL NATALE DELLA PALESTINA
L’oasi di Betlemme in Palestina, per secoli, si è caratterizzata per tolleranza e integrazione. La culla della cristianità da giorni è attraversata da violenti scontri nelle strade della periferia settentrionale, a ridosso del muro di separazione e del campo profughi di Aida. Nei pressi del punto dove papa Francesco si fermò in preghiera il 25 maggio 2014, durante il suo storico viaggio apostolico in Terra Santa, compiendo un gesto dal profondo significato. A scatenare le recenti tensioni la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. In questo fazzoletto di terra è l’ostentazione dell’inconciliabilità che ha il naturale sopravvento, e il disprezzo per l’altro diventa normalità del quotidiano. Alla vigilia della ricorrenza della nascita di Cristo e del suo messaggio universale di pace abbiamo incontrato Sami Awad, fondatore e direttore dell’Ong Holy Land Trust, che promuove la non violenza e il dialogo tra israeliani e palestinesi: “Sono tornato dagli USA nel 1996 con una laurea in tasca e l’entusiasmo per il processo di pace, mi sentivo parte di un momento storico globale, il crollo del muro di Berlino, la fine dell’apartheid in Sudafrica, la pacificazione in Irlanda del Nord. E invece la delusione per il fallimento delle trattative è stata tanta. Tre criticità avevano deteriorato i negoziati israelopalestinesi: l’espansione degli insediamenti, l’aver siglato un accordo politico ignorando la voce della gente e alzato nuove barriere, anche culturali, tra israeliani e palestinesi, inasprendo la segregazione”. Allora, l’illusione della Palestina libera aveva inebriato molti: “Avevamo la visione naif di riuscire a costruire uno stato democratico, libero dall’oppressione e pluralistico, che fosse un modello esportabile in Medioriente, una nazione progressista, un faro contro le teocrazie e le dittature”. Sami, palestinese e cristiano, è profondamente critico sull’impalcatura del processo di pace. “La cornice di Oslo, costata milioni di dollari e che ha coinvolto decine di diplomatici, ha finito per diventare autoreferenziale e strumentale alla propaganda politica, senza avere delle fondamenta solide su cui poggiare. E la classe politica pur di difendere i propri privilegi ha rigettato la possibilità di sviluppare soluzioni alternative: dal basso, radicate e non violente”. La sede dell’organizzazione creata da Sami è in un vecchio palazzo completamente restaurato, siamo nel centro storico di Betlemme. Le finestre a volta dell’ufficio guardano oltre il reticolato del muro, dove gli israeliani continuano ad ampliare l’insediamento di Har Homa. “Tanto i coloni israeliani quanto Hamas non possono essere esclusi dalle trattative, altrimenti rischiamo un altra disconnessione con la realtà. In questo periodo c’è una interessante campagna promossa da gruppi di israeliani e palestinesi per la creazione di due stati in una terra (Two States One Homeland), due nazioni che insieme condividono le sfide”. Una ripida scala porta all’ultimo piano dell’edificio, un’ampia terrazza trasformata in un bar gestito da un gruppo di giovani che aderiscono all’associazione. “I ragazzi palestinesi sono globalizzati, guardano con più interesse alla soluzione di uno stato unico con Israele, invece di due. La nuova generazione di leader, che è alle porte, si muove in una società tribale, corrotta dal sistema, se seguiranno modelli sbagliati cadranno nell’errore”. Gli allestimenti natalizi decorano la piazza della Mangiatoia, l’albero è stato istallato a ridosso del complesso della Natività, uno stuolo di pellegrini russi e africani è in coda per entrare nella Grotta. La moschea che si affaccia sulla piazza è invece frequentata da betlemmiti. Voce del muezzin e rintocchi delle campane convivono. “In 100 anni di storia siamo passati dal vivere insieme cristiani, musulmani ed ebrei al conflitto, oggi Betlemme è un ghetto che imprigiona migliaia di persone. Abbiamo l’obbligo di guardare avanti, io non mi oppongo a nessuna iniziativa di pace, a meno che non contenga la pessima idea della completa divisione. Comunque, continuo a chiedermi dov’è il Mandela palestinese? E il de Klerk israeliano?”. Il Natale 2017 di Betlemme è all’insegna di una festa un po’ sotto tono, non mancano luci e canti, processioni e sante messe nella chiesa di Santa Caterina, ma l’aria che si respira è di una diffusa rassegnazione. Anche la protesta non ha raggiunto il livello dell’Intifada popolare che qualcuno auspicava. Intanto, tra i manifestanti palestinesi alcuni indossano il vestito da Santa Claus e coprono il volto con la keffiah, emblematica “ironia” di un conflitto volutamente inestricabile, che non si ferma nemmeno a Natale.
L’AMARO REGALO DI NATALE
Alla fine Trump quelle parole le ha pronunciate: “Riconosco l’ovvio, Gerusalemme è la capitale d’Israele”. Una mossa anticipata da giorni che le pressioni diplomatiche non hanno frenato. Il successore di Obama ha dato il via libera ad un anno di preparativi per trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Invitando a non modificare lo status quo del Monte Sacro. La giurisdizione di Gerusalemme è un elemento delicatissimo della geopolitica, un punto centrale del conflitto israelo-palestinese, dove entrambe le parti sostengono in modo categorico il possesso irrinunciabile della città Santa e la reclamano come loro capitale. L’ONU continua a riconoscere la linea verde che, dal ’48 al ’67, separava la zona orientale della città Santa da quella occidentale, il confine naturale tra i due popoli, e prevede che ogni eventuale cambiamento dello status deve essere affrontato nelle trattative di pace.
Qualsiasi tentativo di annessione unilaterale è ritenuto illegale dal diritto internazionale, che distingue tra occupati e occupanti, palestinesi e israeliani. Sul piano diplomatico tutte le ambasciate straniere, che riconoscono Israele, hanno la loro sede a Tel Aviv e una rappresentanza consolare a Gerusalemme. Per oltre un ventennio i vari inquilini della Casa Bianca hanno rinunciato a spostare la rappresentanza nella città Santa, seppure una legge del Congresso avesse posto le condizioni, e l’obbligo, al trasferimento del corpo diplomatico. La ragionevolezza aveva prevalso a Washington, trasformandosi in prassi consuetudinaria, che lo stesso Trump rinnoverà per altri sei mesi, solamente per motivi logistici.
La sensibilità internazionale è presente anche nella formalità dei protocolli diplomatici con il lato israeliano, a Gerusalemme: è nella residenza del presidente in Beit HaNassi che sono accolti i capi di stato in visita; è nella casa del primo ministro, a pochi passi da Balfour street, che si svolgono le cene di gala; è alla Knesset che le delegazioni di parlamentari stranieri sono ricevute e ospitate. Mentre sul fronte palestinese gli incontri istituzionali hanno luogo a Ramallah o nella seconda capitale palestinese e culla del cristianesimo Betlemme, alle Muqate presidenziali, nella parvenza di uno stato sovrano. La doppia visita ufficiale, da un lato e dall’altro del muro, era ed è un sistema di bilanciamento rispettoso, forse imperfetto ma stabilizzante. Al contrario le alterazioni dei fragili rapporti innescano ricadute imprevedibili. Nel 2000 la passeggiata elettorale di Sharon sulla spianata delle Moschee scatenò la seconda Intifada palestinese. E più recentemente questa estate tensioni esplosero in feroci scontri per la decisione della sicurezza israeliana di posizionare dei metal detector all’ingresso del luogo santo islamico, alterando lo status quo. Il braccio di ferro tra Netanyahu e i giovani palestinesi andò avanti per giorni. Ad incitare, e infuocare, gli animi del mondo arabo, il Gran Mufti di Al Quds. La rimozione dei controlli riportò la calma.
La storia ci insegna che la questione di Gerusalemme è una polveriera. Una città contesa, casa per casa, metro per metro, pietra per pietra. E allora perchè Trump ha scelto di entrare come un elefante in una cristalleria, senza prevederne le conseguenze? Forse, abbiamo assistito increduli, non ad una “trumpata, ma ad un disegno dirompente per il Medioriente, che prevede di avvicinare a tappe forzate Israele all’Arabia Saudita aprendo in tempi rapidi il fronte anti Iran e lasciando intendere di voler continuare i negoziati con i palestinesi. Inoltre Trump, scaltramente, ha voluto delimitare fuori dal perimetro politico la vecchia Europa, e ha lanciato un messaggio di forza alla Turchia e alla Russia. In ogni caso è clamorosamente imbarazzante la visione generica del presidente a stelle strisce, disposto a calpestare la dignità di un popolo che non trova giustizia. Trump rischia seriamente di compromettere la possibilità di una pace. È il triste regalo di Natale alla Terra Santa.
TRUMP E IL NODO GERUSALEMME
Donald Trump è pronto a dichiarare Gerusalemme “capitale indivisibile ed eterna dello stato di Israele”. Una mossa non inaspettata, già slogan nella campagna elettorale, chiodo fisso della stretta cerchia dell’inquilino della Casa Bianca. Una decisione che susciterà un terremoto dagli effetti imprevedibili, forse distruttivi, come commentano fonti palestinesi. Sicuramente destinata a produrre una reazione a catena. Ma Trump non avrebbe ancora deciso se riconoscere come capitale di Israele l’intera Gerusalemme o solo la parte Ovest. Il “dettaglio” non è da poco. Da un lato c’è una forzatura delle relazioni internazionali, dall’altro un’opzione più bilanciata, che manterrebbe in vita la flebile possibilità, auspicata dallo stesso Trump durante la sua visita in Medioriente, di arrivare ad un “accordo definitivo” tra palestinesi ed israeliani. Sotto l’egida dell’Arabia Saudita e del blocco anti-sciita, che gradirebbero il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale di un prossimo Stato di Palestina.
Le richieste sioniste divennero questione ascoltata dalla Casa Bianca con l’insediamento di Truman, coinvolto emotivamente dalle condizioni umanitarie dei reduci dai campi di sterminio. Il suo predecessore Roosevelt aveva instaurato con il mondo arabo un patto di non ingerenza. Nel 1945 gli USA invertono l’approccio e delineano un nuovo corso per il Medioriente. Senza avere un progetto preciso da perseguire per la Terra Santa, optano per la strada delle trattative. In meno di due anni di fallimentari negoziati e con l’inasprirsi delle violenze nella regione, gli americani, insieme ai britannici, gettano la spugna e chiamano in aiuto le Nazioni Unite. I lavori della commissione d’inchiesta Unscop (United Special Committee on Palestine) producono una carta geografica che suddivide il territorio in due stati, uno arabo e l’altro ebraico. Per Gerusalemme si suggerisce l’internazionalizzazione. Il documento è votato dall’Assemblea generale il 29 novembre 1947. Approvato con 33 voti a favore. Il rifiuto arabo è immediato. Il clima è incandescente, siamo al preludio alla prima guerra araboisraeliana. Nasce Israele e dopo 11 minuti il neonato stato è “battezzato” da Washington. La Cisgiordania è invasa, e annessa, dal regno hascemita. Sino al 1967, quando il 7 giugno le truppe del generale Dayan conquistano la città Vecchia con i suoi simboli. E’ la Guerra dei Sei giorni che si concluderà il 10 giugno con una vittoria schiacciante di Israele, guastata dall’attacco alla nave americana Liberty, un errore militare che segnò i rapporti con la presidenza Johnson. A fine giugno alla Knesset passano una serie di leggi per estendere il diritto e l’amministrazione della parte Est di Gerusalemme. Il 4 luglio l’ONU condanna l’azione giuridica israeliana. La fredda vendetta di Johnson arriva a novembre, il Palazzo di Vetro partorisce la risoluzione che diventerà il fondamento di tutti i successivi processi per un accordo di pace, la 242: terra in cambio di pace, ritiro dai territori occupati, riconoscimento per Israele e soluzione al tema dei profughi palestinesi. Da allora è un pantano diplomatico, di veti incrociati e risoluzioni inapplicate, gettate al vento.
Nell’ottobre del 1995 al Congresso passa il provvedimento per spostare l’ambasciata a stelle e strisce a Gerusalemme. Clinton non pone il veto, la legge entra in vigore a novembre. E prevede che a partire dal giugno 1999 la sede diplomatica accreditata avrebbe dovuto trasferirsi da Tel Aviv a Gerusalemme. Tuttavia, la normativa lasciava un margine di movimento al presidente, che per ragioni di sicurezza nazionale, avrebbe avuto facoltà di posticipare di sei mesi in sei mesi il “trasloco”, prassi utilizzata da tutti i suoi successori ma che l’avvento dell’imprevedibile Trump, amico fraterno di Netanyahu, vuole terminare.
Il paradosso del Medioriente è il gioco geopolitico che alimenta la frammentazione. Per portare pace e stabilità in un’area lacerata dai conflitti occorrono compromessi, piccoli e grandi. Sensibilità e ascolto. Doti che Trump ignora.
La May alla prova della Brexit
Sono giornate intense per Theresa May impegnata in parlamento a definire, facendo chiarezza in una palude di indecisione, le modalità da seguire nella Brexit. Nelle aule di Westminster è battaglia, tra le diverse visioni, per autorizzare il cambiamento della legislazione vigente in materia di subalternità alla normativa europea. Le prossime quattro settimane saranno decisive e segneranno il passo verso il distacco definitivo. Giorni infuocati resi ancora più incandescenti dalla ridda di accuse – rivolte dalla stessa May verso i servizi segreti del Cremlino – e smentite, relative alla presunta interferenza della Russia nel referendum che ha sancito il divorzio britannico dall’Unione Europea lo scorso anno. In questo contesto, il fronte anti hard Brexit sta crescendo in modo trasversale e pare sempre di più in grado di smontare l’indirizzo del governo, o comunque di ridimensionare molto l’impatto. In ogni caso la premier britannica è consapevole che nei prossimi giorni sarà definito il percorso politico del suo governo e la definitiva rottura interna al partito, dove 40 dei suoi deputati preparano la sfiducia. Una spaccatura difficilmente ricomponibile tra anime e correnti in aperta antitesi. Che l’esecutivo traballi è apparso evidente a tutti dopo che, in appena una settimana, due ministri sono stati costretti alle dimissioni. Il malessere del governo della May è cronico. Ad acutizzare il caos regnante anche scandali finanziari e accuse di molestie sessuali. C’è stato persino qualche inciampo di diplomazia internazionale, dopo la visita ufficiale della ministra allo sviluppo ad una base militare israeliana nel Golan, zona che la Comunità internazionale considera occupata illegalmente. Consigliata, in molti ritengono che in realtà sia “segretamente” obbligata, dal collega Boris Johnson ad intraprendere un’uscita netta, la premier ha annunciato, con un certo clamore, il momento esatto del fatidico distacco dall’Europa: il 29 marzo 2018, quando le lancette del Big Ben scoccheranno le 23. Una mossa puramente propagandistica, visto che al momento tra UK e Ue non c’è convergenza su nulla, nemmeno sulle fasi del processo di transizione. La notizia è stata commentata da Michel Barnier, il capo negoziatore per l’Unione, con l’ennesimo ultimatum a Londra: “Due settimane per trovare soluzioni. Altrimenti il rendez-vous verrà posticipato se non ci saranno progressi”. Quello che si profila è un possibile crollo dei negoziati. Intanto nel regno dei Windsor prende forma e forza la richiesta di un secondo passaggio referendario, legato in questo caso alla scelta di tipologia da attuare per la Brexit. Ad indicare questa via è stato l’ex primo ministro laburista Tony Blair, ormai emarginato dal partito di cui è stato una figura storica, che in questi giorni è tornato ad attaccare pesantemente la strategia dei seguaci della Brexit invocando una nuova consultazione nel momento in cui saranno resi noti i termini del divorzio: “Con una tornata elettorale oppure con un secondo referendum”. La regia di Blair è finalizzata a dimostrare che “tecnicamente” la Brexit è ancora revocabile, opinione condivisa anche dal Leader liberaldemocratico Sir Vince Cable, che chiede: “un referendum sui fatti”. Nella trincea pro Ue oltre ai laburisti di Corbyn, che ha ripudiato le idee euroscettiche, anche un gruppo di Tories ribelli. La proposta di Blair infatti ha trovato un seguito tra le fila dei conservatori, in particolare coloro che hanno il proprio seggio nelle contee della Scozia. A questo punto l’ago della bilancia sono i nord-irlandesi del DUP che appoggiano il governo. Secondo un recente sondaggio il 76% dei britannici crede che le trattative con l’Europa hanno preso una cattiva piega, un risicato 12% è invece convinto che il processo di negoziazione stia procedendo bene, o molto bene. Una sottile linea separa l’accordo con Bruxelles da nessuna intesa. Pare chiaro che un eventuale “ripensamento” del Regno Unito potrebbe avvenire solo dopo il trasloco della May da Downing street.
LE TOMBE DI ZARZIS
Le spiagge della Tunisia sono diventate un magnete per migranti e trafficanti. Nelle acque di Zarzis i cadaveri di sventurati clandestini galleggiano alla deriva da giorni, come drammaticamente ha svelato un reportage del quotidiano britannico the Guardian. Rifugiati e migranti che ha ammonito papa Francesco durante l’udienza con la federazione internazionale delle Università Cattoliche: “hanno il diritto a non essere costrette ad emigrare”. In questi mesi gli sforzi internazionali, italiani in primis, in Libia hanno prodotto lo spostamento a sud di Tunisi della rotta principale del traffico di esseri umani. Mentre lo sguardo era rivolto al Sahel libico, poco distante, la tratta trovava un nuovo punto d’imbarco. Il flusso per l’Italia dalla Libia, interrotto durante l’estate, è ripreso con intensità dalla Tunisia. Il “tappo libico” è stato un risultato attribuibile a vari fattori: i rapporti di cooperazione con alcune municipalità della Tripolitania, il maggiore impegno della guardia costiera libica che avrebbe fermato il 60% dei gommoni, una parziale intesa con il generale Haftar, un accordo indiretto con la milizia filogovernativa che controlla il porto e il contrabbando a Sabratha. In un contesto dove spadroneggiano gruppi criminali che hanno potere assoluto di vita e morte, agendo nella più totale impunità. Proprio il ruolo del clan Dabbashi a Sabratha è stato al centro di critiche, sopite dal fatto che il suo esercito privato è stato, in passato, un prezioso alleato di al-Serraj e del suo esecutivo, unico governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Gli uomini di Dabbashi hanno attivamente partecipato alla caduta di Gheddafi, instaurando nella regione una potente e combattiva milizia. Per mantenere ed espandere la propria posizione di forza i Dabbashi hanno dovuto scontrarsi con i rivali di al-Wabi, che costituiscono la cellula più importante dell’Isis nella zona. Storie di ordinaria guerra tra famiglie mafiose all’ombra del terrorismo islamico. Lotte intestine destinate a mettere in campo nuovi soggetti e allargare la violenza nel Paese. Peggiorando la situazione di migliaia di migranti a rischio di morte e schiavitù, che da settimane si ammassano lungo il confine tra i due stati del Maghreb, intrappolati in condizioni disumane. Complessa e caotica è anche la situazione nella ex colonia francese, dove la tensione è tornata ad essere palpabile: bassi salari, forti disuguaglianze e corruzione. In Tunisia un terzo dei giovani laureati è disoccupato. L’industria turistica stenta a decollare. Nelle zone montane più isolate è particolarmente diffusa la povertà e la presenza di terroristi. Interi villaggi sono senza protezione della polizia: rifugi sicuri per il transito di gruppi jihadisti. Non meno complicata la situazione politica. Il Presidente della Repubblica ha firmato la legge che accorda l’amnistia a tutti i funzionari che hanno avuto un coinvolgimento nel sistema di corruzione del regime. Facendo insorgere l’opposizione e le organizzazioni non governative per i diritti civili. Una serie di episodi che danno il senso del revanscismo in corso, la fine del cambiamento da molti auspicato. E l’inizio per molti di un nuovo sogno, all’estero. La presenza massiccia di maghrebini nei barconi diretti in Sicilia e Sardegna lo dimostra. Giovani algerini, tunisini e libici sono una presenza costante nei viaggi. Molti di loro non arriveranno a destinazione. Come testimoniano i volontari della Mezzaluna Rossa che operano a Zarzis, dove giornalmente seppelliscono i corpi di migranti restituiti dal mare. Un ultimo gesto di pietà, dare una tomba a chi non ha nemmeno un nome. In un piccolo appezzamento di terreno fuori dalla città, ai bordi di un’oliveto avviene la sepoltura, in modo informale. Una fossa nel terreno. Il cimitero di Zarzis è composto da tanti cumuli di sabbia. Impedire che altre buche vengano scavate ancora è un’emergenza che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve affrontare, per il mese di novembre la presidenza è all’Italia.
TRUMP ACCUSA LA LOTTERIA
La reazione di Donald Trump all’attacco terroristico a New York ha diviso l’opinione pubblica americana. A poche ore dalla tragedia di Manhattan il vulcanico presidente apre sull’immigrazione una nuova polemica politica. Destinata a durare, probabilmente per l’intero mandato. Nelle scorse settimane impietosi sondaggi avevano dato la popolarità dell’attuale capo di stato in caduta libera, ad un anno dalla sua, per molti versi inaspettata, vittoria elettorale la stella del tycoon chiomato ha perso splendore. La strategia comunicativa dell’istrionico presidente di scegliere un bersaglio e martellarlo di tweet violenti ha perso mordente. La fiducia nella gestione di Trump è scemata nel tiepido consenso. Dopo un’estate trascorsa a punzecchiare, ricambiato, il dittatore Nord coreano Kim Jong-un e a lanciare accuse alle politiche multilaterali del suo predecessore Obama, Trump in queste delicatissime ore è tornato a mettere al centro del dibattito la questione migranti. Lo spunto di partenza delle invettive presidenziali è il terrorista uzbeco Sayfullo Saipov, l’uomo che ha compiuto la strage nelle strade della Grande Mela e che Trump vorrebbe “giustiziare come un animale”. La retorica trumpiana ha puntato il dito prima contro il sistema di giustizia penale statunitense, “una barzelletta”, e poi contro quello dei permessi di soggiorno. Critiche feroci che l’inquilino della Casa Bianca ha rivolto alle modalità di immigrazione in USA. Nello specifico vittima della campagna di Trump è il permesso di soggiorno ottenuto grazie alla lotteria, la “Green Card Lottery”, lo stesso che possedeva Saipov. Lo scorso anno i biglietti vincenti per il sogno americano sono stati 55mila, distribuiti in modo “casuale”. La lotteria dei visti è stata introdotta nel 1990 con la ratifica del repubblicano George Bush senior. Alla base del programma l’idea di garantire la diversità dei cittadini stranieri presenti sul suolo americano. La legge, e il computer che estrae, esclude automaticamente i candidati di stati che hanno superato il tetto prefissato di presenze. I fortunati sorteggiati per ottenere la Green Card devono quindi passare alcune fasi che possono richiedere anche anni, incluse attente interviste. Se si pensa che nel 2016 sono stati approvati circa un milione di permessi tramite le normali procedure è evidente come la lotteria incida in maniera irrisoria. Un falso problema. Il teorema di Trump è ridisegnare l’approccio dei visti d’ingresso in USA, abolendo l’attuale che poggia sul ricongiungimento familiare, introducendo il criterio del punteggio e del merito. La linea dura di Trump ha riguardato persino l’ipotesi estrema di vietare l’immigrazione musulmana sul suolo statunitense. Poi c’è stata una più contenuta lista di cittadini provenienti da determinati regioni, al bando Iraq, Iran, Yemen, Libia, Somalia e Siria. Mentre mancavano Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Libano, da cui arrivarono i terroristi dell’11 settembre 2001. Ed era assente persino l’Uzbekistan, paese d’origine di Saipov. In questi mesi l’amministrazione Trump ha avanzato alcune proposte che sono state rimbalzate dalle aule dei tribunali federali, altre invece sono impantanate al Congresso, dove il presidente non è in grado di amalgamare una maggioranza che lo segua devotamente. La sicurezza nazionale è un argomento “nuovo” per il pubblico americano anche se la percezione è cambiata dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Un evento drammatico che ha lasciato una ferita profonda. Per punire i mandanti, i soldati a stelle e strisce scesero in terreno afgano con l’obiettivo di portare e impiantare la democrazia tra quelle montagne. Una guerra che continua. In questi anni il terrorismo islamico di stampo qaedista è stato soverchiato prepotentemente dall’ideologia dell’Isis. Il nuovo cartello del terrore opera su scala globale. La radicalizzazione non ha confini e tantomeno può essere contenuta con la chiusura di una lotteria.