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10 ANNI DALLA SCOMPARSA DI PICCIRILLO, FRATE ARCHEOLOGO

“È evidente come il richiamo per la Terra Santa rivesta una cornice storica e culturale molto particolare per la cristianità: questa terra è il filo conduttore della storia, in questi luoghi Antico e Nuovo Testamento prendono corpo ed intersecandosi narrano la storia della salvezza dell’uomo. La continuità cristiana in Terra Santa sin dal IV secolo è stata di indubbio aiuto nel rafforzare la veridicità della localizzazione dei luoghi sacri ed offrire un contributo pratico alla discussione, implementata in epoca contemporanea dagli studi archeologici”. Sono le parole che padre Michele Piccirillo – frate, archeologo, professore e amico – ci rilasciò in una lunga intervista. Moriva 10 anni fa a Livorno. Era nato a Carinola, in provincia di Caserta, e presi i voti catapultato in Medioriente, mentre rami della sua famiglia diventavano labronici. Il nostro primo incontro risale al 2003, a Betlemme abbiamo avuto l’onore di conoscerlo. In quel periodo padre Piccirillo trascorreva lunghi periodi al Monte Nebo, laboratorio di una vita e poi sua eterna dimora. Era diventata per noi consuetudine passare da lui per un caffè, nel suo ufficio nella via Dolorosa all’interno della struttura dello Studio Biblicum Franciscanum. Tra pile di libri, mappe antiche, oggetti d’epoca romana, risplendeva un fornellino e la macchinetta della moca: praticamente un vulcano in perenne eruzione. Altre volte invece ci vedevamo a cena da comuni amici, nella terrazza che affacciava sulle mura della Città Vecchia, lì ascoltavamo estasiati i racconti della sua lunga permanenza in quei luoghi santi e incantati, ma troppo spesso scenario di guerra e violenza barbara che padre Michele aveva attraversato incolume. Era un signore dei venti, burrascoso come le tempeste del deserto e placido come la leggera brezza del mare. Capace di tuonare in quasi tutte le lingue del Mediterraneo, mantenendo il forte accento della sua terra natia.

La sua grande passione è stata la storia. Sapiente insegnante. Lavorava, instancabile, nell’assidua ricerca di tradizioni, eventi, luoghi della fede. Scavando. Scoprendo tesori andati perduti. Facendo rinascere mosaici bellissimi. L’archeologo col saio francescano, in verità nei cantieri portava jeans e guidava gli operai in arabo. Per tutti dai monti giordani al Kinneret israeliano, dalla Siria alla Palestina era abuna Michele, padre Michele. Rispettato ovunque, in una regione dove odio e incomunicabilità sono spessi muri invalicabili.

Riponeva la speranza nelle nuove generazioni, più che nelle vecchie. In piena seconda Intifada, partecipò ad un programma di dialogo e pace tra giovani palestinesi e israeliani che si svolse in un kibbutz della Galilea, su quelle colline che ricordano la Toscana, nei pressi del sito di Beit Shearim, ragazzi di due popoli in conflitto fianco a fianco apprendevano le sue lezioni.

Per capire quanto padre Michele fosse un punto di riferimento scientifico imprenscindibile in Palestina basta raccontare un aneddoto: nella calda estate del 2008, non lontano da Nablus un muratore palestinese, nel centro del villaggio di Sebastya luogo della presunta tomba di Giovanni Battista, abbattendo una parete della cantina di una casa, portava alla luce l’abside di una chiesa di epoca crociata. Nella calca di curiosi sopraggiunti per vedere la scoperta ben presto serpeggiò una certezza: “Chiamiamo padre Piccirillo!”. Raggiunto telefonicamente a Gerusalemme impartì l’ordine di ricevere subito il materiale fotografico. Poche ore dopo i filmati erano nelle sue mani, guardò le riprese e gli occhi si accesero, nella sua testa immaginò l’edificio animato, le dimensioni, forma architettonica e probabile datazione. Quel giorno padre Michele stava preparando le valigie, qualche ora dopo avrebbe dovuto imbarcarsi per Roma dove lo attendevano delle visite mediche, le analisi ad Amman avevano riscontrato una brutta ulcera, purtroppo era molto peggio. Era dimagrito e non riusciva nemmeno a godersi il suo amato caffè. Per l’uomo che parlava alle pietre quella sarebbe stata la sua ultima scoperta in Terra Santa.

TRISTE CANTO BRASILEIRO

In Brasile è il momento della verità. Aperti i seggi di una campagna elettorale giocata tra piazze e profili social. In testa ai sondaggi, con il 36%, per la carica di presidente della repubblica è Jair Bolsonaro: politico di destra, nazionalista, ex militare e con tendenze marcatamente razziste. Favorito sul candidato della sinistra, orfana di Lula, Fernando Haddad. Questa tornata elettorale rappresenta, per molti aspetti, uno scollamento con il periodo di transizione che il Paese ha affrontato dalla fine della dittatura. E dall’introduzione del suffragio elettorale nel 1988. In questi trent’anni il Brasile è riuscito a compiere un salto sul piano della democrazia e del livello economico, che tuttavia non ha dato benefici a tutti. Oggi il gigante sudamericano è sull’orlo del dissesto, in piena recessione e polarizzato, la disoccupazione è tornata a crescere e la violenza è un problema comune. La corruzione sistemica, ereditata dal precedente regime, è un male radicato. In queste tre decadi politici di quasi ogni schieramento sono stati coinvolti in scandali, tra tangenti e appalti truccati. Il senso del successo, improvviso, di Bolsonaro è quello di un contesto sociale non più disposto a sottostare alle amorali regole di una casta di privilegiati. Al centro del messaggio politico di Bolsonaro non c’è un programma di sviluppo e riforme, ma slogan di propaganda contro la corruzione nell’apparato statale e sulla sicurezza. La macchina mediatica di Bolsonaro si è accesa sin dai primi scricchiolii del mandato di Dilma Rousseff. Dipinto come il condottiero della crociata antisistema ha raggranellato consensi su consensi. È salito sul carro delle manifestazioni che chiedevano, e poi portarono, all’impeachment dell’allora presidentessa, cavalcando l’onda del malcontento. Può contare sull’appoggio di militari, grande industria e chiese evangeliche. Non nasconde di essere omofobo e un convinto revisionista nostalgico della dittatura. È, recentemente, sopravvissuto ad un grave attentato. Il suo scoglio per insediarsi all’Alvorada è Haddad: poco carisma per l’ex ministro dei precedenti governi di sinistra, origini libanesi e ultima carta del carcerato Lula. Il risultato finale della consultazione è incerto. In questo primo turno il centrosinistra è sparpagliato in diverse liste, il fronte comune per arginare la deriva della destra radicale dovrebbe nascere domani, ma potrebbe non bastare. Nella partita brasiliana il populista sfida l’intellettuale, vince chi raccoglie più consensi tra le classi popolari.

L’AUTUNNO POLITICO AL TEMPO DELLA BREXIT

Nel Regno Unito si fanno sempre più consistenti le voci di elezioni anticipate. Intanto, si consuma l’attesa per la nascita, già più volte annunciata in questi mesi, di una nuova forza politica: un partito ideologicamente moderato e geneticamente anti-Brexit, trasversale che vada ad attrarre coloro che manifestano malessere per governo e opposizione, stimati al 48%. Una “casa” per liberali convinti, conservatori e laburisti delusi. Il recente sondaggio dell’agenzia BMG pubblicato da alcuni quotidiani vede la maggioranza dei britannici favorevole a votare per un movimento centrista. Un progetto più volte invocato dall’ex premier Tony Blair, “sfrattato” dal Labour e regista occulto di quella che potrebbe portare ad una drammatica scissione all’interno della sinistra: la componente blairiana è minoritaria rispetto all’attuale indirizzo “socialista” di Corbyn. In un quadro politico dove le uniche vere novità sono il ritorno dei populisti dell’Ukip e la buona crescita dei Liberali. Calo di celebrità invece per Jeremy Corbyn, dopo un’estate turbolenta tra accuse di antisemitismo e scuse pubbliche. In evidente difficoltà a conciliare le due anime laburiste: quella pro e quella contro a restare nell’Ue. I laburisti, nei rilevamenti, sono stabilmente al primo posto con il 38%, un punto in più del centrodestra dei Tories. Trend negativo per l’inquilina di Downing street, l’indice di gradimento della May è intorno al 25%. La premier è sfiancata dai logoranti negoziati con Bruxelles, che hanno imboccato un percorso tortuoso in fondo al quale c’è l’incubo di un mancato accordo. Indecisa su quale soluzione abbracciare la May regge un esecutivo che cambia ministri in forsennata continuazione. Situazione che la indebolisce notevolmente, rendendola vulnerabile all’attacco, martellante, del suo ex ministro degli esteri Boris Johnson, intenzionato a spodestarla e far prevalere la separazione dura dall’Europa. Nel caso il “trumpiano” Johnson prendesse in mano la guida dei Tories è concretizzabile una cospicua fuga di parlamentari. Ma sul politico, già sindaco di Londra, incombono gossip che rimbalzano sulle pagine dei tabloid, frenandone la corsa. Sia Corbyn che la May, su sponde opposte, condividono le pressioni del dibattito interno e il problema di evitare la dispersione di voti, in un contesto fluido dove oggi il 49% degli elettori non vuole la Brexit e il 41% invece sì. Per limitare i danni del prezzo del divorzio del secolo si prospetta una tornata lampo.

LIBIA, TRATTA E UN CONTINENTE DI SFOLLATI

In Libia è in atto una mutazione demografica di intere città. Nella zona costiera di Zawiya, sono passati da una popolazione di circa 200mila abitanti, sotto il regime di Gheddafi, a superare il milione. Il colonnello libico prima di essere spodestato e giustiziato aveva il controllo del “rubinetto” del flusso dei migranti in rotta verso l’Italia, grazie ad accordi con i clan che gestiscono il contrabbando nella regione. Il “patto” con il dittatore consentiva a bande di Tuareg di smerciare “liberamente” con Niger, Ciad e Algeria, rinunciando in contropartita alla tratta umana. In cambio dei servigi Gheddafi ripagava la lealtà offrendo a basso costo benzina e farina, che poi venivano rimessi nel mercato nero a prezzi maggiorati.
Il vuoto di potere lasciato da Gheddafi non è stato riempito da nessuno e il caos scaturito dalla caduta del rais ha di fatto lasciato campo libero alle organizzazioni criminali, che indisturbate hanno ripreso il lucroso e disumano traffico di uomini e donne. Un ingente giro di affari dedito a sfruttare il fiume di profughi che inesorabile scorre lungo l’Africa. Persone in fuga da dittatura, povertà, terrorismo e calamità atmosferiche, che ciclicamente si redistribuiscono in altri luoghi: solo il 2% di questa moltitudine raggiunge l’Europa. Scappano dalla Nigeria, il gigante economico che non decolla, dove statistiche rilevano che durante lo scorso anno nel Paese africano ci sono stati circa 280mila nuovi sfollati a causa di guerre e oltre 100mila invece per disastri naturali. In Etiopia nel Corno d’Africa, che in questi giorni ha finalmente imboccato uno storico percorso di pace con l’Eritrea, nel 2017 sono stati oltre 700mila a lasciare tutto impauriti dalla violenza dei conflitti. Per la stessa ragione, nel Sudan del Sud (il 40% della popolazione è malnutrita) oltre 800mila e in Somalia 400mila hanno abbandonato le rispettive case. A completare la striscia di terra che taglia orizzontalmente l’Africa centrale anche i numeri della Rep. Centro Africana e del Camerun: 539mila e 162mila profughi. Il triste primato del continente spetta alla Repubblica Democratica del Congo con due milioni di sfollati.
Disuguaglianze economiche, elevato tasso di corruzione e alta criminalità, gruppi armati che spadroneggiano, saccheggi, stupri ed esecuzioni sommarie, “convincono” chi è in grado di coprire parte delle spese di viaggio a tentare un futuro diverso, migliore. Dalla foce del Niger provengono la maggior parte dei migranti che giungono sulle coste italiane. Coloro che si “imbarcano” nelle carovane dirette all’oasi di Sebha sono ignari di cosa li aspetta una volta giunti in Libia. Lo stato del Sahel è ricaduto ad una situazione pre 1969: con il ritorno alla Sharia e alle pratiche della schiavitù. Tra torture ed abusi migliaia di persone sono tenute in ostaggio dalle tribù libiche che mantengono la totale autonomia e impunità d’azione. Frantumando un Paese ormai irreparabilmente andato in pezzi.

IL SUMMIT DI BARI

Bari ha accolto l’Oriente cristiano nel nome della pace. Il luogo scelto da papa Bergoglio per riunificare la cristianità, divisa da secoli di odi atavici, scismi e infinite incomprensioni, è il reliquiario di San Nicola tra le mura della Basilica. Francesco riceve i patriarchi delle chiese cattoliche e ortodosse sostanzialmente per definire una strategia comune in difesa delle popolazioni del martoriato Medioriente. In una regione con 258milioni di abitanti, condizionata da violenza e instabilità, i cristiani rappresentano, secondo le ultime statistiche, una minoranza anche se con profonde radici: sono oltre 14,5 milioni. Netto calo rispetto allo scorso secolo, fa eccezione solo la Turchia di Erdogan che registra un leggero incremento della popolazione seguace della croce di Cristo. Numeri più che dimezzati invece in Siria, Iraq ed Egitto. In quest’ultimo Paese tuttavia è presente la più grande comunità dell’area con quasi 10milioni di fedeli (10%).
In Giordania sono 350mila e 30mila sono giunti dal vicino Iraq in questi anni. Mentre nel Libano dei cedri, un tempo dei maroniti e oggi dei minareti di Hezbollah, sono scesi al 40%. Percentuali poco sopra al 2% in Israele (nel 1948 erano il 20%) e Palestina. A Gaza, nel regno del fondamentalismo di Hamas, sono oramai uno sparuto gruppo che “resiste” con tenacia alle avversità: 1300 su 2milioni di abitanti.
Nella Città Santa di Gerusalemme contano circa 16mila residenti su un totale tra le due parti, Est e Ovest, di circa 870mila cittadini. Contesti complicati da intrigate guerre per l’ultimo baluardo di una tradizione secolare del variegato mondo arabo, dove la loro presenza, nella culla del cristianesimo, potrà essere garantita con la convergenza delle “famiglie” che la compongono. Garantire un futuro a questa minoranza di fedeli è l’assioma del pensiero del Pontefice.
Il cammino del Vescovo di Roma per arrivare a ricostruire un’unità è iniziato nel 2014, un anno dopo la sua elezione al soglio pontificio. Quando a Gerusalemme assieme al Patriarca di Costantinopoli ha varcato la porta del sancta sanctorum della cristianità. Arrivarono all’ingresso del Santo Sepolcro da due porte diverse, poi l’abbraccio tra Bartolomeo e il successore di Pietro, il cammino, sorreggendosi a vicenda, segnava con gesti fraterni un rapporto irreversibile tra le due chiese. Ad attendere i venerabili Padri a pochi passi dall’Edicola, cuore del complesso religioso conteso, il patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III.
Nel 2016 nell’antico monastero di Khor Virap per il papa venuto dall’Argentina c’è la stretta di mano con il patriarca armeno Karekin II. Lo stesso anno a Cuba nell’aeroporto dell’Avana incontra il Patriarca di Mosca Kirill, sotto gli occhi del comunista Raul Castro e con gli auspici dello zar Putin. Nel 2017, al Cairo, il Vescovo di Roma e il “Vescovo” di Alessandria, il Patriarca copto ortodosso Tawadros II, sono uno difronte all’altro e gli sguardi dei due “Papi buoni” segnano l’ennesimo evento storico. In un momento particolarmente difficile per la comunità cristiana oggetto di una terribile ondata terroristica di matrice jihadista.
Papa Francesco ha indirizzato il suo apostolato su due piani: la tradizione spirituale della morale francescana e la liturgia della preghiera come spazio di azione “politico e diplomatico”. Optando per un approccio pastorale incentrato sull’umiltà e la simpatia. È l’artefice di comportamenti e uno stile semplice che ha scosso la chiesa. A Bari non ha messo in atto la chiamata ad una nuova crociata in Terra Santa ma l’estremo tentativo di salvare un Medioriente di nuovi martiri.
Un segnale d’incoraggiamento ai cristiani della regione e allo stesso tempo una richiesta di appoggio incondizionato e repentino alla Comunità internazionale. Non è un caso che il Pontefice più amato, vox populi, abbia scelto come “consigliere” l’amministratore apostolico del patriarcato Latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa, frate e biblista già Custode di Terra Santa che ha lavorato per mesi all’incontro in Puglia ricucendo e tessendo le fila della visione bergogliana.

IL CALCIO MONDIALE IN SALDO, COMPRATO DALLA CINA

Il Mondiale in Russia segna un cambiamento epocale per il mondo degli sponsor e del marketing planetario, nuovi equilibri geografici e fuori due continenti: Africa e Sudamerica. Escono di scena anche marchi storici che avevano legato, in questi anni, il proprio logo al massimo evento calcistico. Decisione presa in conseguenza dello scandalo di corruzione che investì la Fifa, compromettendone l’immagine, all’epoca del timoniere Blatter. Per la Federazione calcistica presieduta da Infantino l’ingresso di nuovi partners, in gran parte gruppi cinesi, ha portato un minore incasso (-200milioni di dollari di introiti). Putin in persona si sarebbe speso per cercare sponsorizzazioni alternative a colmare il gap. Alla fine la partecipazione record è venuta dal gigante asiatico: il 39% della pubblicità del Mondiale proviene dal made in China. Anche se la nazionale, allenata da Marcello Lippi, è esclusa dai giochi, le multinazionali di Pechino hanno investito massicciamente per aggiudicarsi il connubio con lo spettacolo sportivo più atteso. In Russia campeggiano cartelloni di cellulari, televisori, frigoriferi e scooter elettrici di fabbricazione asiatica. Il generoso sponsor ufficiale, uno dei magnifici 7, è una catena globale di sale cinematografiche dell’Impero maoista. Un’altra “stranezza” è la comparsa di uno sponsor della Mongolia, un colosso del settore alimentare – latte e yogurt – che si prende ben 420 secondi di proiezione di spot prima del calcio d’inizio di ogni partita, trasmessi negli stadi e sui maxischermi nelle piazze. Indimenticabile, e attuale, la stilettata di Gianni Agnelli a Tanzi, allora patron del Parma, per il trasferimento del centrocampista Dino Baggio al Parma: “Oggi il latte tira più dell’auto”. Nel 2000 l’Avvocato ebbe un incontro a Milano con lo zar, colloquiarono di affari per circa mezz’ora nella suite dell’hotel Principe di Savoia. L’ex funzionario del Kgb era un astro nascente della politica, muoveva le sue prime mosse internazionali in un contesto di incertezza sul suo futuro e su quello del Paese. Poco meno di 20 anni dopo lo zar di San Pietroburgo è sul tetto del mondo, ha rimesso ordine nelle strutture centrali del governo, quando erano drammaticamente implose, e mantiene largo consenso con la propaganda della minaccia del ritorno al caos. Qualche difficoltà è dovuta alle sanzioni economiche, ma l’isolamento non è impeccabile, nel complesso però i titoli azionari sono stabili e l’inflazione in netta discesa. La storia insegna che la vetrina dei Mondiali talvolta si rivolge contro gli organizzatori, non solo calcisticamente. Putin è il deus machina dell’evento, lui un monolite di ghiaccio, freddo e composto persino nell’esultanza. Un professionista nell’arte del mimetizzarsi, statista camaleontico che può impersonare qualsiasi personaggio, calandosi perfettamente nella parte: sportivo, re della finanza, organizzatore di eventi, dittatore, domatore di tigri. E persino “rappresentante” di una ditta di latticini mongoli.

IL SULTANO IN TOUR

La striscia di sangue a Gaza e l’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme hanno inasprito le relazioni tra Turchia e Israele. Lo scambio di accuse, il teatrino dell’espulsione dei diplomatici, umiliati ed esposti alla gogna mediatica, lo stallo dell’ONU e la recente riunione d’emergenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica danno il senso dell’agonismo geopolitico in campo. Recep Tayyip Erdogan punta a diventare la sintesi delle diverse anime dell’islam, e fare della Turchia la più grande potenza, non araba, nella regione. Per raggiungere il suo obiettivo sventola la bandiera di Al-Quds, la Gerusalemme araba, ergendosi a difensore dei fratelli sunniti palestinesi con l’obiettivo di isolare Israele. L’ambiziosa strategia del leader turco è tuttavia frenata da Egitto e Arabia Saudita, riguardevoli alle apprensioni, pressanti, della Casa Bianca. Erdogan è convinto di uscire vittorioso dalle prossime elezioni, anticipate a giugno, e a quel punto monopolizzare il potere, presentandosi quale leader supremo del Medioriente, con o senza l’esplicito appoggio di Washington.
Erdogan è un personaggio complesso, repentino nel cambiare gli amici in nemici giurati, come accadde con l’imam Fethullah Gulen e il presidente siriano Bashar al-Assad. Spietato persino con gli alleati, il delfino Davutoglu ha pagato la troppa notorietà ed è finito esautorato. È uno dei leader mediorientali più importanti e controversi, sfrontato nel caso della crisi tra i Paesi del Golfo: mentre offriva le credenziali di mediatore al di sopra delle parti ordinava l’invio di militari in difesa del Qatar. Diffida apertamente della Merkel, ricambiato, e dei paletti dell’Unione europea, posizionati un po’ alla rinfusa e ai quali risponde con la costante minaccia di riversare milioni di profughi alle frontiere. Ambiguo, volutamente, con l’Iran. Fedele, per ora, al matrimonio con Mosca, in un asse saldato da cooperazione energetica e militare. Mai amico dei curdi, impegnato in una pulizia etnica senza confini che dalla Siria potrebbe spostarsi fino all’enclave irachena.
Sul piano interno Erdogan ha prima dato benessere e sviluppo al Paese, quando è stato sul punto di traslocare nel condominio europeo ha buttato all’aria i risultati ottenuti esercitando il suo mandato in modo autoritario e illiberale, dimostrandosi un dittatore democratico e populista. Oggi però l’economia del Bosforo, nonostante i dati rassicuranti sulla crescita del Pil dei primi mesi del 2018, non è più quella del passato. Gli analisti prevedono un trend negativo, dovuto a vari fattori concomitanti: svalutazione della lira turca, inflazione e crescita dei tassi d’interesse, aumento dei costi delle materie prime ed esposizione del sistema bancario ad una fuga degli investitori. In piena campagna elettorale è stato accolto nella Londra della Brexit con il tappeto rosso dalla Lady May, ma bocciato dalla City per l’intenzione di mettere sotto controllo la Banca Centrale. Il Sultano di Istanbul ha sfidato l’Europa anche da dentro, appellandosi ai milioni di turchi che vi vivono. Germania, Belgio, Olanda e Austria hanno bandito i suoi comizi. E lui per rafforzare il tour elettorale ha scelto i Balcani e la piazza di Sarajevo, il cuore esplosivo di tanti conflitti disastrosi, dove unire idealmente i musulmani bosniaci e turchi nella conquista non delle mura di Vienna ma dei palazzi di Bruxelles. L’offensiva balcanica di Erdogan è da tempo in atto, miliardi di investimenti hanno riguardato Albania e Macedonia. Ha fatto costruire moschee e aprire scuole coraniche, seguendo un modello (quello dei centri culturali imam hatip dove si è formato lui stesso) che vorrebbe esportare dall’Italia alla Norvegia.
Cresciuto a Kasimpasa in un quartiere difficile di Istanbul, i residenti della zona sono comunemente associati ad un caratteristico comportamento spavaldo, ha sempre mostrato un atteggiamento arrogante: prima nel disprezzo per la èlite kemalista, laica e benestante, poi nel deridere i richiami dell’Europa ai diritti fondamentali e infine, nell’odio per Israele.

Elia il “profeta” dello sprint nel Medioriente dei conflitti

Il Giro d’Italia 2018 è il più importante evento ciclistico, e forse sportivo, che sia mai stato svolto in Israele. Concentrato morfologico per le tre tappe fuori dai confini dell’Europa: la zona collinare-montuosa della Giudea, la pianura costiera lungo il Mediterraneo e il deserto del Negev nella parte meridionale. Il percorso ha offerto ampia visibilità alla storia di questo stato, fondato nel ’48, e al suo, immenso, potenziale turistico. La partenza dalla città Santa nel nome di Gino Bartali, che eroicamente salvò centinaia di ebrei dalla follia nazifascista. La gara si è snodata nel circuito cittadino, all’ombra di luoghi simbolo di una terra da sempre contesa e ricca di sensazioni eterne. Il Giro ha sfiorato i palazzi delle istituzioni, dalla residenza del presidente alla Knesset, il parlamento. Un tracciato insidioso per i cambi di pendenza, che ha volutamente evitato tanto la parte araba quanto quella dell’enclave degli ebrei ortodossi: molto suscettibili nei confronti di chi non rispetta i precetti della Torah. Alla fine la cronometro individuale l’ha vinta l’olandese Tom Dumoulin, sbaragliando gli avversari. Terminato il prologo la carovana si è frettolosamente trasferita ad Haifa, dove si respira maggiore “tranquillità” tra le diverse comunità religiose presenti, lontano dalle tensioni gerosolimitane. Nella seconda giornata le squadre hanno lambito la cittadella di San Giovanni d’Acri (Akko): difesa dai crociati, conquistata dal Saladino ma non da Napoleone. Il cambio repentino di direzione della corsa ha consentito scorci suggestivi della Galilea, la piccola Toscana, tra le colline con i vigneti che si affacciano sulle acque azzurre di Cesarea. Qui le aggregazioni sioniste giunte sul finire del XIX secolo si insediarono dedicandosi all’agricoltura. Oggi nelle cantine è imbottigliato vino che la rivista Wine Spectator inserisce tra i top 100 al mondo. E che per poter essere certificato come kosher dal rabbino deve attenersi a principi e controlli in ogni singola fase della vinificazione. Nel tratto pianeggiante della periferia di Netanya, attraversato dalla corsa, è sorto il cuore pulsante delle start up high-tech, oltre 8mila aziende in tutto il Paese per un ecosistema dell’innovazione da 5miliardi di investimenti. A Tel Aviv, Elia Viviani ha tagliato il traguardo in un crescendo bagno di folla, calore mancato a Gerusalemme: indifferente, se non infastidita dall’evento. Il velocista italiano replicherà uno sprint vincente anche nella terza tappa, la frazione che partita da Be’er Sheva è giunta ad Eilat, ultimo fazzoletto di suolo israeliano. Paesaggio lunare nella strada numero 40 dalle costanti dune, zona di esercitazioni militari e impianti solari avveniristici. Scenari cartolina, movimentati dal cratere Mitzpe Ramon, dai villaggi beduini e dalle verdi serre dei kibbutzim. Colonie agricole basate inizialmente sulla proprietà comune e sull’esclusione del denaro come mezzo di scambio, che per continuare ad esistere si sono arrese al capitalismo, finendo alcune per essere quotate in borsa. Nei pressi del kibbutz di Sde Boker è sepolto David Den Gurion, padre della patria, che scelse di trascorrere gli ultimi anni di vita in una delle tante comunità a conduzione collettivistica presenti in Israele. Tappone desertico, pietre e sabbia dalle tante sfumature, suggestioni leggendarie con le bibliche Miniere di re Salomone a Timna. Sul Mar Rosso, nel cuneo del golfo di Aqaba, la maglia rosa indossata dall’australiano Rohan Dennis chiude la parentesi estera del 101° Giro. Placato, in parte, il dibattito intorno alla scelta di correre in una terra di profonde contraddizioni. Mentre, proseguono le proteste palestinesi al confine di Gaza e nuovi venti di guerra spingono al conflitto con l’Iran. Giornate tumultuose all’orizzonte, tempi delicati per la politica, con lo sport in bilico tra il messaggio universale di pace del ciclismo e la propaganda di una nazione salda, nel caos del Medioriente.

MORTE NELLA STRISCIA PALESTINESE

La Primavera della protesta palestinese è iniziata con un bagno di sangue. Lungo il confine di Gaza avrebbe dovuto svolgersi una manifestazione dedicata al Giorno della Terra, la prima di una lunga serie, per ricordare i territori confiscati da Israele. La propaganda di Hamas ha prontamente aderito all’evento. Dall’altra parte della frontiera i soldati israeliani ricevevano l’ordine di sparare. Alla fine manifestanti uccisi e feriti. Tutto questo a poco più di un mese dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme e nei giorni che precedono la ricorrenza della tragedia palestinese, la Nakba. Il livello di tensione si alza notevolmente. Con un movimento palestinese destinato a crescere nei prossimi giorni, nelle cui file affluisce un fiume di giovani. E che coagula differenti componenti della politica palestinese, da chi professa l’approccio non violento, alle frange di miliziani fondamentalisti. Gaza in queste ore è una pentola a pressione. Una “prigione” che ospita quasi 2milioni di palestinesi, in un fazzoletto densamente popolato dove comanda il regime di Hamas. A partire dagli anni ’90 Israele ha introdotto la limitazione di movimento ai cittadini della Striscia. Ma solo nel 2007 Egitto e Israele mettono i sigilli alle frontiere. Allo stesso tempo, Ramallah entra in collisione con Gaza, la frattura politica tra Fatah e Hamas si incancrenisce e diventa anche geografica.
A Gaza oggi la situazione di criticità è endemica nei servizi, da quelli idrici alla sanità. Peggiorata da scarse forniture di carburante e dalla ripetuta emergenza elettrica. Israele che dal 2017 aveva tagliato l’elettricità, ha ripreso la fornitura. Le spese sono a carico dell’Autorità Nazionale Palestinese, riluttante a coprire i debiti di Hamas. È collasso anche nella gestione dei rifiuti, decine di migliaia di tonnellate di spazzatura lasciata in strada a marcire. A febbraio 12 ospedali pubblici non erano in grado di fornire la diagnostica. Uno stop aggravato dallo sciopero del personale medico per il mancato pagamento degli stipendi arretrati. Gli aiuti internazionali, pur rilevanti, non bastano a migliorare il contesto. La sforbiciata di Trump ai fondi umanitari delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi ha trovato altri canali di finanziamento. Chiudere la borsa è stato l’ultimo affronto pubblico di Trump ad Abu Mazen. Le relazioni tra USA e Palestina sono ormai compromesse dal riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele, avvenuto lo scorso dicembre. Decisione che ha isolato Washington sul piano internazionale, provocando una reazione nel mondo arabo, anche fuori i confini del Medioriente. Trump potrebbe decidere di partecipare personalmente all’inaugurazione della nuova sede diplomatica di Gerusalemme, nel qual caso l’erede di Arafat non avrebbe alternative a rispondere con una dichiarazione di pari portata: se non “guerra” quasi.
La scelta della Casa Bianca ha alimentato contrapposizione, lasciando il cielo della Terra Santa a falchi, pronti a gettare benzina sul fuoco. Ismail Haniyeh, leader di Hamas, minaccia che: “non cederemo un pezzo di terra di Palestina, né riconosceremo l’entità israeliana”. Proclama bellico che estende a Trump: “Promettiamo di non rinunciare a Gerusalemme ”. Jason Greenblatt, inviato statunitense per le negoziazioni tra Israele e Palestina, ha lanciato pesanti accuse incolpando a sua volta Hamas di “incoraggiare una marcia ostile” e “istigare alla violenza”. Ormai in secondo piano Abu Mazen, relegato in una posizione marginale, compromessa dall’età e dalla salute. Il suo partito Fatah non è al momento in grado di veicolare o controllare la protesta, tantomeno a Gaza. In questa fase l’escalation garantirebbe quindi ad Hamas un maggiore consenso popolare e una posizione di forza. Che potrebbe sfruttare nella scelta del futuro presidente del popolo palestinese. Sul fronte israeliano, qualsiasi conferma che non esiste una controparte con cui dialogare, porta solo acqua al mulino di Netanyahu.

LA POLTRONA DI ARAFAT

Mentre, la notizia del ritiro dalla politica del presidente palestinese Abu Mazen prende consistenza a Gaza il Primo Ministro Rami Hamdallah scampava, illeso, a un attentato. Hamas che controlla la Striscia ha negato veementemente ogni coinvolgimento nell’episodio. Che potrebbe invece significare l’innalzamento delle lotta interna al campo palestinese, con le frange più radicali del jihadismo intenzionate a compromettere il difficile colloquio di conciliazione tra i due principali partiti palestinesi, Fatah e Hamas. Processo di unità nazionale impantanato in un clima di sospetto reciproco e scambio di pesanti accuse. Infuocata, anche la campagna per la successione alla poltrona che fu di Arafat. Mr Palestina, l’uomo dalle sette vite si spense in Francia l’11 novembre 2004. Da mesi viveva confinato nel palazzo presidenziale della Muqata, nell’ala del complesso che l’esercito israeliano non aveva raso al suolo con i bombardamenti. Invecchiato, ambiguo, megalomane e molto sospettoso, forse a ragione. La parabola di Arafat volgeva al termine, ormai, era internazionalmente isolato e il mito dell’eroe nazionale offuscato, dagli errori politici e dai segreti finanziari. Dopo i funerali il partito di Fatah passò di fatto in mano a Mahmud Abbas, meglio noto con il nome di Abu Mazen, che iniziò la scalata al potere culminata con l’elezione a Presidente nel 2005. Prima di allora aveva ricoperto vari incarichi, da Segretario Generale dell’OLP a capo delegazione durante i colloqui di pace con Israele. Per un breve periodo era stato Primo Ministro, dimettendosi dopo la rottura dei rapporti con lo stesso Arafat. Meno pittoresco e carismatico del suo predecessore è da sempre considerato una figura moderata all’interno del movimento per la liberazione della Palestina. Ha saputo intrecciare ottime e solide relazioni con la Casa Bianca, confermate sino all’avvento di Trump. Abu Mazen ha rappresentato per l’Occidente il referente politico e garante della causa palestinese, fiducia e credito mai venute meno da parte di Bruxelles. Sopratutto dopo l’affermarsi di Hamas nelle urne e l’instaurarsi del regime islamista a Gaza. Attualmente le trattative di riconciliazione nazionale, più volte evaporate, reggono grazie alla delicata mediazione egiziana e al sostegno economico promesso dai sauditi. Se l’accordo dovesse tenere il capo di stato palestinese è disponibile ad indire nuove elezioni legislative per il 2018, sulle quali però non avrebbe modo di incidere. È la vigilia del capitolo finale della sua lunga carriera, il livello di popolarità è assai ridotto rispetto al plebiscito della sua nomina e il sistema di corruzione nel suo partito è dilagante. Oggi alla soglia degli 83 anni e con 13 anni consecutivi di presidenza Abu Mazen è malato, secondo fonti di stampa le condizioni sarebbero peggiorate negli ultimi mesi, al punto che le dimissioni parrebbero imminenti. Aprendo la via ad una nuova era politica, tra mille incognite. Il contesto è critico: gli USA di Trump hanno rotto l’argine del contrappeso diplomatico con la scelta di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e di tagliare i finanziamenti all’Agenzia delle Nazioni Unite UNRWA; gli accordi di Oslo sono morti e i diritti dei palestinesi ancora negati; nei sondaggi Hamas è la prima forza e l’espansione degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania è irrefrenabile; livello di disoccupazione giovanile è ai massimi storici e la situazione umanitaria a Gaza è gravissima. La possibilità di una nuova escalation di violenza tra la Striscia di Gaza e Israele è una spada di Damocle implacabile. In questo quadro, l’uscita di scena di Abbas potrebbe favorire la corsa di un suo nemico giurato Mohammed Dahlan, politico palestinese in esilio e molto considerato a Tel Aviv. Prende forza nelle ultime ore la possibile candidatura del nipote di Arafat, Nasser al Qudwa, già ambasciatore al Palazzo di Vetro. La resa dei conti è alle porte, l’ultima parola però spetta al carcerato Marwan Barghuthi, il più temuto e rispettato in Palestina.