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IL VASSALLO DI PUTIN

L’esito del voto in Ungheria rischia di condizionare le future risposte dell’Unione alla Russia. La riconferma di Viktor Orbán, alla quarta vittoria consecutiva nelle urne, è uno schiaffo a Bruxelles, calpestata dalle politiche, e dalla propaganda, del leader magiaro. Ma è anche, purtroppo, il pericoloso segnale del successo di Putin nel fare breccia nel cuore dell’Europa, nel momento più complesso delle relazioni. Nonostante, alla vigilia i sondaggi avessero previsto una corsa serrata così non è stato, e per il partito del primo ministro Fidesz è stata invece una comoda passeggiata. Cocente l’umiliazione per lo sfidante Peter Marki-Zay, moderato, espressione della larga e variegata coalizione di opposizione, che non è riuscito nemmeno ad imporsi nel suo distretto, dove era stato sindaco. Il clima elettorale è stato dominato dagli echi della vicina guerra in Ucraina. Orbán ha promesso di rimanere fuori dal conflitto, ad ogni costo. A concesso meno del minimo sindacale in materia di sanzioni a Mosca. Non ha rinnegato i legami con il Cremlino e non ha teso la mano della solidarietà all’Ucraina, tantomeno a Zelensky. Indicativo a riguardo il commento rilasciato a caldo: “Abbiamo conquistato il potere contro tutti… perfino contro il presidente ucraino Zelensky”.

L’uomo forte di Budapest (tra le pochissime città ad avergli voltato le spalle in questa tornata), è stato chiamato a quello che tutti hanno giustamente interpretato come un referendum sulla sua persona. E lui ha dato prova di aver plasmato una nazione e di non essere pronto a lasciare il potere agli avversari. Orbán è un personaggio scomodo, non solo perché autoritario e amico personale di Putin. Con cui ha siglato nell’arco degli anni un forte sodalizio, saldato da 12 incontri durante la passata campagna elettorale, se mai ci dovesse essere stato qualche dubbio sulla sua equidistanza nel conflitto ucraino. Infatti, è principalmente sul piano internazionale che la figura di Orbán crea oramai pesante imbarazzo. L’ostentato pacifismo di maniera in realtà nasconde altri interessi. In primis la dipendenza energetica dell’Ungheria da Mosca, che fornisce circa il 90% del gas e il 65% del petrolio. Nel caso di un eventuale taglio di forniture si stimano ricadute potenzialmente devastanti per l’intera economia ungherese. La sfacciata posizione di “neutralità” ha tuttavia un costo, l’isolamento. La prima crepa della rete diplomatica di Orbán è la diffusa freddezza mostrata da storici partner. L’invasione dell’Ucraina ha fatto cambiare approccio alla Polonia e ad altri “soci” del gruppo di Visegrád, patto di cui proprio Orbán è stato architetto e promotore. E che ora rischia di implodere malamente.

In conclusione. Il risultato elettorale è stata indubbiamente una grande dimostrazione di forza interna dell’ideologo della nuova destra europea, nazional-populista e religiosa, confermata dal controllo dei 2/3 del parlamento. Mentre, esternamente ha perso importanti pezzi. Quanto le distanze tra l’Occidente e l’Ungheria siano un reale problema già lo sapevamo.

IL MATRIX DI ZELENSKY

Nella guerra Ucraina si combatte parallelamente la battaglia all’ultimo sangue della comunicazione, tra gli eserciti della propaganda e dell’informazione.“Zelensky ha letteralmente stracciato l’avversario nei media. Ma nei fatti è impotente nel caso in cui l’ego smisurato dello zar spingesse sull’acceleratore”. A parlare è Andrea Fornai, psicologo cognitivo e docente di Master, ha collaborato con CMRE NATO e Unipi. Che si è prestato a rispondere alle nostre domande.
Quanto è pericoloso che la guerra veicoli un messaggio ingannevole?
Le fake news sono sempre degli oggetti pericolosi. E la verità è sempre labile in questi casi. L’invasione non ha scusanti. Sbaglia però chi non considera l’Ucraina un “avamposto” NATO, fuori dalla NATO. Il tema della neutralità è materia, non a caso, dei negoziati in corso. Poi c’è un aspetto “invisibile” che spesso viene sottaciuto, in questo conflitto sono schierati battaglioni di ingegneri informatici che, grazie alla rete, possono “spegnere” una regione di un paese per giorni, una centrale elettrica ed anche una centrifuga di una centrale in Iran. Anche loro, a loro modo, combattono.
Con l’invasione molti temevano che l’accesso al web dell’Ucraina sarebbe stato interrotto, invece il miliardario statunitense Elon Musk ha aperto il suo servizio internet satellitare al paese, cosa rappresenta questo episodio?
La modalità di “ingaggio” di Elon Musk da parte del vice ministro ucraino Mykhailo Fedorov è avvenuta tramite un tweet. E la risposta di Musk è stata recapitata sempre attraverso il social: “Starlink è adesso attivo per l’Ucraina!”. Allora, mi chiedo: il governo di Zelensky per rivolgersi al super miliardario statunitense ha bisogno di un tweet? Io direi che ci troviamo nel mezzo ad una operazione di marketing aziendale dalla ricaduta di visibilità mondiale. Aggiungo che da anni ormai i “boss” del mercato digitale americano siedono al tavolo con le forze armate per pianificare le strategie e le necessità tecnologiche del futuro. Starlink è un’idea geniale del nuovo Ford americano, e a questo punto è anche una formidabile arma testata, in mano al Pentagono.
In mezzo a tutta questa propaganda come realmente facciamo a capire chi vince sul campo?
Partiamo dalla realtà dei dati. La Russia ha schierato un numero inferiore a tre combattenti per ogni soldato ucraino, presunto. Teniamo conto che l’ultima volta gli USA attaccarono l’Iraq erano in nove contro uno. Parafrasando Nicolai Linin: i russi in Ucraina stanno addestrando i loro battaglioni di riservisti, dopo questa guerra la Russia avrà un esercito di reduci operativo e professionalmente preparato. Se ciò che dice Lilin è credibile è perché suona logico. Per capire quanto accade non ci si può davvero fidare completamente del megafono di una delle due parti, o tre se consideriamo l’Occidente. Personalmente, interpreto il piano della Russia come la volontà di assediare intenzionalmente l’Ucraina, in attesa di giocare successivamente le contromosse. Non è una guerra lampo. Altrimenti, Putin avrebbe sbagliato i conti, grossolanamente.
In queste ore ad impressionare è la resistenza di un popolo sotto attacco e la voce del suo leader, ma le due cose vanno veramente in parallelo? Zelensky è più cercato dal web o dagli assassini di Putin? Come spiegheresti il suo successo mediatico sull’avversario?
Senza Zelensky la resistenza non avrebbe i risultati che ha. Ma quale Zelensky? Il vero quarantaquattrenne attore della serie Servitore del Popolo o lo statista nazionalista e populista capace di coalizzare gli ucraini? Per me Zelensky è l’attore prestato alla presidenza ed oggi rappresenta la nuova frontiera dell’uso del web. Sicuramente lo zar Putin (nella migliore tradizione stalinista) ha i migliori sicari del mondo a sua disposizione. Ma dove li deve spedire? Il “matrix” della comunicazione ucraina non ha luogo e non ha tempo. Ecco, il successo ucraino sta tutto qui, nella incredibile capacità di Zelensky di interpretare il servitore (e aggiungerei martire) del popolo. La capacità di chi lo nasconde di farlo essere a Kiev e in nessun posto allo stesso tempo è superba.

IL MEDIORIENTE E LA CRISI UCRAINA

L’escalation drammatica della guerra in Ucraina ha accelerato il posizionamento della diplomazia internazionale, ridefinendo alleanze e schemi, dentro e fuori i confini dell’Europa. Prendiamo ad esempio il caso del Medioriente, una regione da sempre sollecitata dalla geopolitica. E dove i governi sono chiamati a fare una scelta di campo che non prevede neutralità, tantomeno ambivalenze in stile cerchiobottismo. La domanda che in queste ore ha investito le cancellerie della parte meridionale del Mediterraneo è ovviamente con chi schierarsi, stare con o contro Putin? La Siria, per bocca del dittatore Assad appoggia totalmente il suo protettore nella campagna offensiva in Ucraina, notizia che ovviamente ci aspettavamo. L’interdipendenza di Damasco da Mosca è talmente strutturata da non poter essere messa minimamente in discussione.
A tentennare inizialmente è stato, invece, Israele, quasi colto in contropiede dagli eventi. Nonostante, a Kiev sia presente una delle comunità ebraiche più popolose ed antiche. A Gerusalemme, a pesare durante l’attacco è stato senza ombra di dubbio il legame personale di Putin con molti politici israeliani, alcuni di origine russofona, a partire proprio dal ministro delle Finanze Avigdor Lieberman (caparbio, sino alla scorsa settimana, nel profetizzare che non sarebbe accaduto nulla …). Altro dilemma da dirimere era la consapevolezza che una dura condanna avrebbe potuto creare frizioni sul fronte siriano, dove è ancora presente l’armata di Mosca. E con cui vige un patto di coordinamento sulle attività di sicurezza. Alla fine il governo di Naftali Bennett, pesati i costi, ha optato per la piena condanna. Pubblicamente pronunciata dal ministro degli Esteri Yair Lapid: “L’attacco russo all’Ucraina è una grave violazione dell’ordine internazionale”. Messaggio chiaro ed inequivocabile dell’allineamento a Washington. Seguito a poca distanza da quello della Turchia. Erdogan ha preso nettamente le distanze dall’amico-nemico al Cremlino. La chiusura del Bosforo alle navi da guerra di Putin, è un segnale di aperta ostilità. Anche in questo caso sul tavolo strategie militari e commerciali da misurare con accuratezza ed attenzione. A far pesare la bilancia dal lato di Putin, oltre alla larga sintonia, erano il programma di difesa missilistico, quello per le centrali nucleari, il gasdotto, infrastrutture e molto altro ancora. A favore dell’Ucraina troviamo gli accordi con Kiev per la vendita di materiale militare, dai droni Bayraktar all’installazione di fabbriche turche in suolo ucraino. A cui vanno aggiunti i benefici garantiti da Bruxelles e la partecipazione alla NATO. Nel caso di Erdogan non è dato sapere quanto abbia inciso l’incidente della nave turca, che al largo di Odessa è stata colpita da un ordigno. Comunque, il sultano questa volta, questa partita, ha deciso di giocarla con la maglia dell’Occidente.
Infine, Teheran. L’Iran può rivendicare di essere stato il primo stato al mondo a dissociarsi dalle critiche a Putin, e ad aver accusato del conflitto in Ucraina esplicitamente la NATO. I nemici dell’Occidente sono i soliti noti.

L’OROLOGIO DI PAPA’ E ALTRI RICORDI

Devo con tutta sincerità fare due ringraziamenti agli editori di Giuntina. Il primo è stato farmi scoprire Assaf Gavron (insieme a Keret ed Eshkol Nevo diventati tra i miei autori preferiti). Il secondo, leggere “L’orologio di papà e altri ricordi” di Daniel Vogelmann. Scrittore, traduttore e fondatore della nota casa editrice fiorentina.
Il libro di Vogelmann è una raccolta di racconti brevi. Memorie. Ricordi. Intarsi. Riflessioni. Che finiscono per coinvolgere “compassionevolmente” anche il lettore più distratto. Molto del merito è la scrittura dallo stile pulito, lirico. In un volume che condensa umorismo e morte. Scorrendo le pagine troverete i tratti della comicità raffinata di Woody Allen e l’elegia assordante di Elie Wiesel, in una miscela poetica di toscanità ed ebraismo, agnosticismo e l’ineludibile momento del bilancio. Ovvero, quando si cerca sia interiormente che esternamente di “ordinare” (in ebraico è seder) le cose e dare alla storia la giusta sequenza. Predisponendo il lascito testamentario di una “poesia” al posto di un orologio, rubato. Recitando una preghiera, in forma di richiesta ironica, rivolta al lettore “a sostituire a tempo debito” il punto interrogativo a Daniel Vogelmann (1948 – ?): “visto che io non lo potrò fare”. Dimostrando affetto, la premura nei confronti delle nipoti, i consigli post pandemia e infine la doverosa dedica ad un amico sincero.
“L’orologio di papà e altri ricordi” è un testo che scende in profondità, animandosi di quella dolce-tristezza che si prova nello sfogliare un album di fotografie del passato. Ritratti di famiglia, amici e parenti scomparsi. Richiami toccanti di vita che l’autore non vuole vadano perduti, e per questo fissati in una tela astratta colorata di amarezze, qualche pentimento e forse un po’ di nostalgia: “Quanti bersagli abbiamo mancato nella nostra vita! Ciò detto, non è che voglia, come sempre, discolparmi, ma secondo me la vera colpa va data all’arco che ci è stato fornito”.
Scoprirete il rapporto tormentato con la religione e allo stesso tempo rispettoso, piacevolmente delicato con i ministri o dottori del culto: “Ho chiesto al mio amico rabbino se io, che sono piuttosto agnostico, potevo dire se Dio vuole”. Per poi ribaltare le conclusioni con la domanda: “ma Dio lo vuole?”. Tiferete, non potrete farne a meno, schierandovi dalla parte della ragione (qualsiasi sia essa stata) di Schulim Vogelmann (padre di Daniel), che nel mezzo ad una discussione condominiale risponde ad un spocchioso e provocatorio “Io sono il generale Pinchetti!”, con un definitivo urlo “E io sono stato ad Auschwitz!”. Dove, nemmeno Dio è mai entrato.

Enrico Catassi

ADDIO ALLA COSCIENZA DELL’AFRICA

Si è spento all’età di 90 anni l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu. La sua fama internazionale è legata al ruolo che ha rivestito nel movimento per porre fine al brutale sistema di apartheid del Sudafrica. Insieme a Nelson Mandela, con il quale ebbe una forte amicizia, Tutu è stato una delle figure di spicco nella battaglia per abbattere il sistema razzista e fascista dei bianchi, in vigore dal 1948. Ha sempre ripudiato ogni forma di violenza professando uguaglianza e tolleranza. Inconfondibile il sorriso e la piccola statura (“5 piedi e 4 pollici”).

Nato nella tranquilla cittadina agricola di Klerksdorp, nel nord del paese a circa 200 km da Johannesburg. Figlio di un preside e di una domestica, ha completato gli studi di teologia al King’s College di Londra. Sacerdote dal 1960 e vescovo dal 1976. Nel 1986 è il primo arcivescovo nero di Città del Capo. Nel 1994 con Mandela divenuto presidente Tutu è chiamato a supervisionare la Commissione “per la verità e la riconciliazione”, che esamina i crimini commessi durante l’apartheid, da entrambi le parti. Compito difficile che tocca corde sensibili. Se il nomignolo di Mandela era Madiba quello affettuosamente usato per Tutu dalla gente sudafricana è The Arch (L’Arco). Nonostante la malattia diagnosticata ai primi anni ’90 non smette di adoperarsi per i diritti umani, contro la povertà. Insignito del premio Nobel per la pace nel 1984. Nel 1996 si batte perchè la nuova costituzione non includesse normative discriminanti sull’orientamento sessuale. Dieci anni dopo il Sudafrica è il sesto stato al mondo a riconoscere legalmente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Nel 2013 dichiara apertamente che avrebbe “preferito andare all’Inferno piuttosto che in un Paradiso omofobo”. Le sue parole alzano, ovviamente, letteralmente un vespaio. Due anni dopo con un atto di sfida alle regole del sacerdozio ordinario darà la benedizione al matrimonio della figlia Mpho Tutu con un’altra donna. Non ha risparmiato critiche sprezzanti al partito di governo dell’African National Congress, denunciando la deriva di corruzione raggiunto dal sistema politico. L’apice dello scontro con i vertici dell’ANC arriva quando inizialmente non viene invitato ai funerali di Mandela. Nel 2015 lancia una campagna per l’ambiente, esortando i leader mondiali ad utilizzare le energie rinnovabili. Descriverà i cambiamenti climatici come “una delle più grandi sfide morali del nostro tempo”. Sostenitore della morte assistita e della nascita di un stato palestinese. Mandela di lui una volta disse: “A volte stridente, spesso tenero, mai spaventato e raramente senza umorismo, la voce di Desmond Tutu sarà sempre la voce dei senza voce”. Tra i tanti messaggi di cordoglio pubblicati in queste ore oltre a papa Francesco spiccano Barack Obama, che lo definisce: “Una bussola morale”. L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby in sua memoria ha scritto: “profeta e sacerdote, uomo di parole e di azione”. E il Dalai Lama che riconosce in lui: “un vero filantropo”. Per tanti africani ha rappresentato la coscienza di quel continente.

11 SETTEMBRE, UN RACCONTO ATTRAVERSO LE POESIE

Una data, 11 Settembre 2001. Un evento che ha fermato il nostro tempo. Mentre, le immagini dell’attacco alle Torri Gemelle scorrevano sui teleschermi lo shock imponeva di non distogliere lo sguardo, le parole non uscivano. Otto minuti di silenzio prolungato, con il fiato sospeso tra lo schianto dei due aerei. E poi l’incredulità del crollo. Il fuso orario che ci divide da New York pareva in quell’istante non esistere più. Fluttuavamo insieme, così vicini ed uniti che ci trovammo in un limbo di dolore condiviso, pesante.
“Non credo in dio
non riesco nemmeno a dire
e non riesco a smettere di piangere
non riesco a smettere di piangere.”
Le lacrime versate da Alessandro Agostinelli (MATERIALE FRAGILE, edizioni Pequod, 2021) nella Cappella di St. Paul, angolo fra Broadway e Fulton, pochi passi da Ground Zero, dove chi scavava per ore ed ore riceveva un piatto caldo ed un abbraccio consolatorio, che allontanava per qualche istante la disperazione latente.
“Fuori era l’inferno,
a qualche decina di metri l’acciaio
proseguiva a fondere a centinaia di gradi,
dalle macerie si continuavano a
tirare fuori pezzi di corpi umani.
qui dentro non uno sguardo allarmato,
non una faccia tirata,
solo calma e gentilezza.”
Il destino di angeli impolverati, sudati, sfiancati dalla fatica che si intrecciava con le storie di coloro che avevano perso la vita nel tentativo di salvare altri. Il massacro dei pompieri inghiottiti dal disastro. Eroi mutuati dalla storia a cui Giovanni Giudici dedica brevi versi in un inno dai toni risorgimentali.
“A loro nei vostri pensieri
Tenetevi stretti un minuto
Quando giocate ai pompieri
Il vostro gentile saluto”.
La ferita della Grande Mela ha toccato i nostri cuori, non avrebbe potuto essere stato diversamente. Alda Merini scrisse:
“Penso che l’amore sia una grande torre
una torre addormentata nel cuore della notte.
Ma questi giganti che ormai non parlano più
hanno sepolto sotto le loro macerie
anche i nostri sospiri d’amore”.
Attimi sconvolgenti, ripresi e fissati nella memoria da scatti rubati da un Inferno inimmaginabile. L’Apocalisse è difficile da raccontare. Inorriditi dalla tragedia “dell’uomo che cade”, dalla paura di non avere nulla a cui aggrapparci mentre, precipitiamo nel vuoto.
“Saltarono dai piani in fiamme, giù
…uno, due, altri ancora
più in alto, più in basso.
Una fotografia li ha colti mentre erano vivi
e ora li preserva
sopra il suolo, diretti verso il suolo.”
È il frammento del toccante poema del premio Nobel per la Letteratura Wisława Szymborska. A scavare religiosamente nell’intimo è l’invocazione di Mario Luzi, con il suo grido di supplica:
“Risorgete, risorgete,
non più torri, ma steli,
gigli di preghiera.
Avvenga per desiderio
di pace. Di pace vera.”
Invece, fu la vigilia di una nuova guerra. Le cicatrici di una città, di un paese, di una parte del mondo non si rimarginano facilmente. Fiumi di discorsi, passato lo smarrimento iniziale, ha cominciato a scorrere inarrestabile, tra commenti, analisi, testimonianze ed approfondimenti. Scoprimmo chi era Osama bin Laden, e cosa voleva. Allora, la voglia di vendetta ha preso il nome di giustizia contro l’inciviltà. E la storia, che da quel giorno era cambiata per sempre, ha fatto il suo corso.

RIVINCITA TALEBANA

Caduta Kabul, i talebani sono tornati al potere in Afghanistan. Chiuso il capitolo del governo filo-occidentale di Ashraf Ghani, scappato dal Paese. Sconfitta amara per Washington & alleati, impegnati da due decadi in una difficile guerra, combattuta con successo dal cielo ma non altrettanto sul suolo. Il frettoloso rimpatrio degli ultimi stranieri rimasti, il caos della fuga di migliaia di persone, il panico nei volti della gente attestano il fallimento completo della missione di esportare democrazia e libertà in quel remoto angolo del pianeta. Il sogno di Osama bin Laden di cacciare gli “infedeli” a stelle e strisce dalle terre dell’islam aleggia come un fantasma, tanto nelle strade di Kandahar quanto negli sperduti villaggi. Nel 2011 dopo la sua morte al Qaeda venne rapidamente eclissata dall’insorgere della “stella” nera dell’Isis. La strategia del terrorismo nell’ombra profetizzata da bin Laden pareva essere stata offuscata dalla nascita, e dalla propaganda, dello stato islamico del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. La storia dell’Isis si dimostrerà di corto respiro e in uno spazio geografico circoscritto a Siria ed Iraq, dove governano con violenza brutale e inumana. Il vaso è già pieno a Settembre 2014, quando l’amministrazione Obama chiama alla crociata, alla coalizione aderiscono 83 stati, l’obiettivo è cancellare il califfato dalla mappa del Medioriente. Dal 2016 è chiaro a tutti l’esito dello scontro. Il collasso dell’Isis è alle porte. Ad Ottobre 2019 l’evento conclusivo, al-Baghdadi braccato dalle forze speciali statunitensi si toglie la vita, facendosi saltare in aria. L’impero del fondamentalismo nel mondo perde un’area di riferimento, ed un prolifico ufficio di reclutamento. Nel preciso istante in cui veniva assaporato il successo contro un regime pericoloso e distorto “inavvertitamente” è tolto lo sguardo, e l’attenzione, da un altro palcoscenico. Dove tutte le sigle del franchising del terrorismo jihadista hanno presenza fissa e una sicura tana, le montagne dell’Afghanistan. La voglia di disimpegno USA dalla regione è confermata nel 2020. A Doha le prime prove di riavvicinamento. Nel negoziato il segretario di stato Mike Pompeo e la controparte il mullah Baradar raggiungono un accordo bilaterale di pace. La promessa in cambio del ritiro delle truppe alleate è che i vecchi padroni una volta tornati non daranno mai più riparo ai proseliti di bin Laden. In pratica la trattativa ruota intorno ad un doppio tradimento, da una parte viene abbandonato il governo di Ghani, dall’altra è al Qaeda ad essere scaricata. In fondo, come in un suk arabo dopo una estenuante trattativa entrambi sono stati venduti al miglior offerente. È ovvio che sulla bilancia pesa l’11 Settembre e le imminenti elezioni presidenziali americane che Trump perderà. Con Biden però la musica non cambia: si torna a casa. L’incognita ora è se veramente i talebani rispetteranno la parola data prima che le forze statunitensi sloggiassero, lasciando un vuoto che oggi troppi rimpiangono.

I CEDRI APPASSITI

Quella che un tempo, nemmeno troppo lontano, era considerata la Svizzera del Medioriente attraversa oggi una crisi economica e sociale senza precedenti. Continui i black out elettrici, scarseggiano i carburanti, carenza di medicinali. Furti e violenze. E i razzi lanciati verso Israele, che risponde con massicci bombardamenti, sono solo una provocazione.
Quasi l’80% delle famiglie non è in grado di sopperire ai costi alimentari, con la lira libanese che negli ultimi due anni ha visto precipitare il suo valore del 90%. E’ crack finanziario. Introdotto il limite di acquisto di benzina giornaliera, 30 litri, e il prelievo settimanale bancario imposto a 100 $, per non svuotare le riserve di valuta.
L’effetto della pandemia ha contagiato anche il flusso di aiuti economici da parte della diaspora libanese nel mondo (stimata tra i 4 e i 14 milioni di persone), cospicue rimesse di denaro che garantivano sostentamento a molte famiglie sono venute improvvisamente a mancare. Un concatenarsi di eventi negativi che ha frantumato il sogno di prosperità.
La ferita dell’esplosione della scorsa estate nel porto di Beirut, incidente ancora senza verità e responsabili, è l’emblema del buio calato su questo stato. Il Paese dei cedri e della settarietà etnica e religiosa, della politica “regolamentata e bilanciata”: le principali cariche istituzionali (presidente, capo del parlamento e primo ministro) sono spartite tra le tre grandi comunità, rispettivamente cristiani maroniti, musulmani sciiti e sunniti.
Indipendente dal ’43, in guerra civile dagli anni ’70 ai ’90. Già rifugio per i palestinesi, nell’ultima decade qui sono migrati i profughi siriani, fuggiti dall’orrore del conflitto e terminati in un limbo sospeso. Sono circa 1,8 milioni su una popolazione di 4,6 milioni di residenti. Il principale colpevole del disastro odierno è la classe politica, corrotta ed incapace di portare avanti le necessarie riforme. “Tutti criminali” è lo slogan urlato dai manifestanti scesi in piazza per ricordare le 200 vittime dello scorso anno. Movimento di protesta e di rabbia che si scontra con la polizia, destinato a crescere d’intensità e catalizzare il malcontento diffuso. Ma, il grande manovratore dei giochi geopolitici è l’Iran, che agisce di concerto con la sua emanazione Hezbollah.
In uno stato sempre alla ricerca di stabilità politica è tornato in auge Najib Mikati, incaricato dal presidente Aoun di formare un impossibile esecutivo, dopo che da un anno il Paese è guidato da un governo provvisorio con poteri limitati. Le dimissioni di Hassan Diab in seguito all’evento apocalittico di Beirut hanno aperto il valzer delle poltrone. Falliti i tentativi di Moustapha Adib e più recentemente quello di Saad Hariri.
Infine, il ritorno di Mikati, sunnita, politico di lungo corso e miliardario, è considerato figura dell’establishment che ha contribuito alla catastrofe libanese. Improbabile che sia lui il “salvatore”, e la personalità in grado di compiere il miracolo della “risurrezione”, come invocato da papa Francesco.

INTERVISTA AD ANTONIO ALOI

Il viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq è un evento storico senza precedenti, cosa ha voluto dire per una comunità tra le più martoriate?

“Per la minoranza cristiana non solo dell’Iraq ma di tutto il Medio Oriente la visita del Papa è sicuramente un fatto di grande rilevanza. Da anni questo viaggio apostolico era atteso, già si lavorava per questo evento nel 2014 quando ero a Duhok nel Kurdistan occidentale, ma lo “scompiglio” creato dall’ISIS prima e dalla pandemia da COVID19 poi hanno rallentato il processo.

Oserei dire però che la rilevanza è solo per i cristiani, dubito che al di là della cortese ospitalità, qualche cosa muti nella mentalità mussulmana. Noi cristiani, finalmente o per fortuna abbiamo smesso di difendere o propagandare la nostra Dottrina a fil di spada (gli interessi “occidentali” non hanno più bisogno di mascherarsi dietro un crocifisso) dubito sia così per la mentalità mussulmana. Mi spiego: ho vissuto a lungo in Medio Oriente ed ho visitato, per lavoro, tutto il mosaico dei Paesi che lo compongono, e come sempre ed ovunque, la maggioranza delle persone è pacifica ed accogliente, ma le ferite inferte dallo strapotere militare e coloniale prima e dalla mentalità agnostica ed affarista ora, continuano ad alimentare una totale diffidenza verso il nostro mondo. Questa diffidenza è ben sfruttata da chi, per i propri affari, è interessato ad alimentare divisioni e conflitti. Questa situazione crea un blocco, un nodo molto difficile da dipanare! Per cui questo tentativo di “pulizia” etnica e culturale, iniziato anni fa violentemente in Libano, proseguito in Jugoslavia e via via in Medio Oriente temo proprio non sia ancora finito.

Ricordo, tanto per dare un’idea, un episodio che mi raccontò molto tempo fa Sua Eccellenza Fuad allora vescovo a Tunisi e poi Patriarca a Gerusalemme. Lui da piccolo viveva con la sua famiglia in un villaggio della Giordania, cristiani, mussulmani, ebrei condividevano la stessa vita, gli stessi giochi, l’unica evidente differenza di quella popolazione unita e pacifica era il giorno in cui si recava a pregare; fino a quando il Governo giordano dichiarò la religione cristiana una religione protetta. Quel giorno cominciò la discriminazione…

Ritornando, dunque, alla domanda: i patimenti della minoranza cristiana in M.O. volgono al termine? Direi di no! Una cosa è certa però da credente so che alla base c’è un disegno buono della Provvidenza che sa volgere al bene anche il male non voluto. Questa certezza o meglio speranza genera nel popolo cristiano un perfuso senso d’ottimismo che rimane insieme alla Fede la struttura portante della sua resilienza (tanto per usare una parola che va di moda)”.

Anche dal punto di vista della stabilità politica nella regione il dialogo interreligioso promosso dal pontefice rappresenta un aspetto non di poco conto, l’incontro con l’ayatollah al-Sistani può servire a cambiare qualcosa?

“Al di là delle visite un po’ folkloristiche di tutti i Rappresentanti delle religioni del mondo che si sono svolte ad Assisi, direi che fino a quando rappresentanti dell’Islam non contraccambieranno in Vaticano le visite papali, recando effettive novità al rapporto interreligioso, temo che queste visite apostoliche servano quasi esclusivamente alle comunità cristiane. Temo infatti che, al di là della cortesia ed ospitalità offerta, la mentalità mussulmana interpreti queste visite come un tributo, un omaggio a sé dovuto o poco più. La cultura del perdono è un patrimonio cristiano, oserei dire cattolico, questa virtù, veramente difficile, alberga poco tra le altre religioni specialmente se dovesse essere esercitata verso “estranei”.

L’altro risultato cercato è un’autentica crociata, l’affermazione dell’esistenza di un Dio! Ciò certo accomuna i capi religiosi contro il dilagante agnosticismo, ma sappiamo quanto gestione politica e religione siano una cosa sola per l’Islam e quanto tutto ciò non esista più nel mondo occidentale”.

L’ascesa che pareva irrefrenabile del Califfato è un incubo passato, ma a quale prezzo?

“Il Califfato dell’Isis ha spadroneggiato dove e fino a quando ha fatto comodo a chi veramente muove i pezzi sulla scacchiera degli inconfessati interessi mondiali, quando non è servito più è stato spazzato via, e questo si sapeva fin dall’inizio, con la buona pace delle innumerevoli vittime innocenti.

Fatta questa premessa, si apre un capitolo a parte sui Curdi. Sono stati gli unici capaci di difendere ed osteggiare l’apparente strapotere Isis in Iraq, per difendere la propria entità etnica. Duhok è a 45 Km da Mossul, dei tre governatorati curdi è quello che ha sostenuto il confronto più ravvicinato con l’Isis, praticamente vivevamo nelle retrovie di uno scontro quotidiano tra i Peshmerga e le bandiere nere dell’Isis, eppure la vita in quella città ha continuato a svolgersi come prima, la compattezza della popolazione non ha permesso nessuna infiltrazione, nessun attentato. Per l’ennesima volta il popolo Curdo è stato ingannato dall’Occidente e così per vari interessi e convenienze le promesse fatte, una volta spazzato via l’Isis, sono state disattese. Un popolo di 45 milioni di persone diviso tra quattro Stati: Turchia, Siria, Iraq e Iran, continua a vivere, bistrattato e non riconosciuto. Tutto ciò aprirebbe un discorso a parte, ma come accennavo poc’anzi, anche le profonde divisioni interne, una volta scampato il pericolo Isis, hanno minato le legittime aspettative curde”.

Come si è mossa la cooperazione italiana in questi difficili anni?

“La Cooperazione italiana, è presente in Iraq dalle guerre del Golfo, prima per sostenere le popolazioni provate dal conflitto e per aiutare la ricostruzione del paese, successivamente, a Nord nel Kurdistan, per contribuire all’organizzazione della concessa autonomia (prima della guerra con l’Isis) ai tre Governatorati Erbil, Sulaymaniyah e Duhok. Personalmente ho prestato servizio nel lasso di tempo prima e durante il conflitto con l’Isis. Il nostro lavoro è consistito nel supporto alla Sanità del Governatorato di Duhok. In una prima fase offrendo il know how alla riorganizzazione e modernizzazione del servizio sanitario, quando i dividendi del mercato del petrolio parevano offrire al Kurdistan la necessaria disponibilità finanziaria, poi, svanita questa risorsa, a sostenere con personale e mezzi il servizio sanitario e l’assistenza ai numerosissimi profughi siriani ed iracheni. Il Governatorato di Duhok non ha lesinato aiuti ai profughi inserendoli gratuitamente nell’assistenza del proprio servizio sanitario, e permettendo, a differenza degli altri governatorati, la libera circolazione dei profughi nel proprio territorio. Appena fuori dalla città di 250.000 abitanti c’era un campo profughi di 80.000 persone…”

* Antonio Aloi. Medico chirurgo. Già direttore UTL di Gerusalemme e della sede di Kampala. Ha svolto incarichi di prestigio quale delegato presso l’Organizzazione mondiale della Sanità, referente all’UNAIDS e presso l’agenzia per i rifugiati palestinesi UNRWA. In Iraq è stato rappresentante per l’AISPO.

BURMA GOLPE

Ieri Birmania, oggi Myanmar. Una storia contemporanea scritta per gran parte dai militari. Almeno fino al 2015, quando il partito dell’opposizione guidato da Aung San Suu Kyi vinse in modo schiacciante quelle che sono considerate le prime elezioni libere nel Paese. Il regime militare vedeva definitivamente incrinato il proprio potere, la giunta dei generali sembrava sul punto di tramontare definitivamente. Il palcoscenico e le luci erano tutte per la donna che aveva reso possibile questo sogno di democrazia. Ma la realtà era ben diversa dalle aspettative di cambiamento in cui tanti avevano riposto la propria speranza.
Il Myanmar è uno stato attraversato da una miriade di guerre intestine, focolai di rivolta presenti nelle regioni al confine con l’India e in quelle a Nord verso la Cina. Aree dove ciascun gruppo etnico rivendica ampi spazi di autonomia, sfoggiando milizie armate. Contenziosi e violenza. Interminabili guerre civili. Guerriglia e terrorismo. Attentati a cui il governo centrale ha risposto con il pugno duro, lanciando rappresaglie che hanno colpito indiscriminatamente anche la popolazione civile appartenente alle minoranze.
San Suu Kyi agli occhi di molti sembrava l’unica figura in grado di mediare le diverse anime in conflitto, riportare la pace, dare stabilità. È stata frettolosamente elevata a garante del percorso di riconciliazione tra le parti già prima di vincere la propria battaglia per la libertà. Per l’attività in difesa dei diritti umani, i lunghi anni trascorsi agli arresti, il coraggio dimostrato, è stata insignita del premio Nobel per la Pace. A lei, era stato affidato un compito immane, cambiare il corso della storia. Alla fine però si è dimostrata fragile e facilmente manovrabile, troppo condizionata dalla vecchia casta che orbita nella sfera di Pechino. L’aver abbandonato quella che appariva come l’unica vera opzione politica spendibile, l’introduzione di un sistema federale, è stato forse il maggior errore politico commesso.
A pesare nei rapporti di forza è stato il veto dei vertici militari, aspramente contrari a qualsiasi concessione apparisse come una minaccia all’unità nazionale. Non aver preso una netta posizione di critica sulla questione delle violenze nei confronti della comunità musulmana Rohingya ha ben presto oscurato la sua immagine internazionale. Dalle contestazioni, alle onorificenze ritirate, sino allo spettro dell’accusa di genocidio.
Nonostante i fallimenti il consigliere di stato San Suu Kyi, che non può per legge ricoprire la carica di premier, ha nuovamente portato alla vittoria elettorale il suo movimento. A novembre 2020, in piena ondata pandemica, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) ha ottenuto un plebiscito nelle urne. Il partito dell’esercito ha trumpianamente invocato “brogli” nei seggi, non riconoscendo l’esito finale. E così San Suu Kyi è ancora una volta tornata ad essere una vittima. Mentre sale la voce di condanna per il colpo di stato la Cina tace. Come se la cosa non fosse d’interesse, invece, lo è parecchio.