Tra le tante memorie che stanno condendo il ricordo del grande e discusso statista Henry Kissinger ce ne è una che merita di essere ricordata, proprio in questi giorni di violenza. Quando nel 1973 scoppiò la guerra dello Yom Kippur, la premier Golda Meir si rivolse alla Casa Bianca, chiedendo consistenti aiuti militari. Il conflitto con l’avanzata degli eserciti arabi aveva preso una brutta piega per Israele, che stava rischiando di perderlo in modo catastrofico. Passarono diversi giorni prima che gli Usa lanciassero in soccorso degli alleati un massiccio ponte aereo, composto sostanzialmente dai rifornimenti richiesti. Per anni ha prevalso l’idea, o meglio la sensazione, che l’amministrazione Nixon, e quindi il suo consigliere più fidato, il segretario di stato Henry Kissinger, avessero deliberatamente ritardato l’invio di armi per ragioni che sono oggetto di dibattito storico. Secondo questa lettura una parte delle colpe del ritardo sarebbero sia imputabili a James Schlesinger, il segretario alla Difesa, che all’atteggiamento “machiavellico” dello stesso Kissinger.
Recenti studi hanno invece messo in luce una diversa spiegazione dei fatti, adducendo che la lentezza della tempistica era dovuta alla logistica per l’invio di materiale bellico sul fronte mediorientale. Alcuni storici hanno persino evidenziato difetti nella comunicazione tra Washington e Gerusalemme, dove ci sarebbe stato più di un fraintendimento sull’urgenza dell’operazione.
Cosa accadde realmente è nascosto in una famosa storiella, che passa da tanti anni ormai di bocca in bocca. Si dice, che nel corso di una drammatica riunione del gabinetto di guerra Golda Meir chiamò personalmente Kissinger, per premurarsi dell’appoggio militare di cui aveva disperato bisogno. Leggenda narra che la telefonata fu piuttosto burrascosa, e volarono parole grosse. Che tra i due non corressero buoni rapporti era cosa risaputa. L’ammirazione che Henry mostrava pubblicamente nei confronti di Golda non era ricambiata, per vari motivi. A partire dalla differente visione sull’Urss. D’altro canto il demiurgo della geopolitica internazionale dichiarerà, intervistato, che il suo interlocutore preferito fosse Yitzhak Rabin.
Quanto Meir, convinta socialista, non stimasse troppo il Richelieu statunitense è oggetto persino di una famosa frecciata al presidente Richard Nixon, reo di averle ricordato che in comune avevano due ministri degli Esteri, entrambi ebrei. Sentita l’affermazione rispose senza peli sulla lingua che l’allora ministro israeliano Abba Eban (educato a Cambridge) però parlava perfettamente inglese, alludendo al fatto che Kissinger, nato in Germania, si esprimeva nella lingua anglosassone ancora con marcato accento tedesco.
Ritornando a quel colloquio di 50 anni fa, che forse cambiò le sorti della guerra, ad un certo punto della chiamata la “lady di ferro” avrebbe tuonato: “Le ricordo che è un ebreo come noi!”. Kissinger indispettito replicò: “E io le ricordo che prima di tutto sono un cittadino statunitense, poi sono il segretario di Stato e infine sono anche ebreo”. Pronta la risposta di Meir: “Appunto, caro Kissinger. Come sa benissimo, in Israele leggiamo da destra a sinistra”. E riattaccò il telefono. Poco dopo alla chetichella gli aiuti arrivarono e la guerra fu vinta. Fine della barzelletta, inizio della storia.
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I TERRORISTI ENTRANO IN CASA
Nella mattina di sabato, durante quello che sembrava un tranquillo shabbat, Israele si è svegliata in una nuova guerra. A sferrare un attacco senza precedenti sul suolo israeliano è stata l’organizzazione terroristica di Hamas. Per trovare un episodio simile di invasione su larga scala dobbiamo riavvolgere il nastro della storia al ’73, alla guerra dello Yom Kippur contro gli eserciti di Egitto e Siria. 50 anni dopo decine di terroristi islamici si sono infiltrati in varie località della regione meridionale del Negev. Prima le sirene che hanno risuonato fino a Tel Aviv, per la pioggia di missili lanciati da Gaza, e poi lo “sfondamento” del confine, con un’orda di uomini armati che hanno preso d’assalto intere comunità inermi. “Dopo aver camminato un’ora siamo arrivati in uno dei kibbutz dell’occupazione. L’obiettivo di questa operazione è rapire i coloni e uccidere soldati. Sopprimere i coloni”. A parlare è un “giornalista” palestinese al seguito delle truppe di Hamas che hanno fatto breccia in Israele. L’obiettivo sarà anche stato di prendere ostaggi e negoziare la loro liberazione, l’unica certezza è che il prezzo che Gaza pagherà è alto.
Intanto, è unanime il giudizio che sia i servizi segreti che l’esercito israeliano (IDF) hanno avuto una falla nel prevenire un attacco preparato dettagliatamente da tempo. Pochi i dubbi sul fatto che l’IDF, l’esercito più potente del Medio Oriente, è stato colto completamente di sorpresa, ma non è l’unico colpevole di questa triste pagina di storia. Fino allo scoppio delle ostilità l’intelligence stimava una bassa possibilità che Hamas si impegnasse in una nuova escalation, i segnali andavano in tutt’altra direzione. Questo errore di valutazione, indotto molto probabilmente anche dalle informazioni egiziane, ha portato ad un maggiore dispiegamento di forze in Cisgiordania, in particolare nell’area di Nablus e nel campo profughi di Jenin. Dove, per la presenza delle colonie israeliane da proteggere, la situazione appariva più pericolosa e violenta. In qualche modo la strategia di spostare l’attenzione da Gaza alla Cisgiordania ha risentito dell’attuale clima politico, i partiti nazionalisti al governo spingono per l’annessione, ed hanno nei coloni il loro bacino elettorale. Questo combinato è parte del disastro a cui stiamo assistendo.
Così il giornalista Avi Issacharoff. “È l’11 settembre [di Israele], e se non sfodera una larga operazione di terra, è la fine della vita politica di questo governo”. Yair Lapid e Benny Gantz, i leader dei due principali partiti dell’opposizione al governo Netanyahu, hanno teso una mano all’avversario politico. Offrendo la disponibilità ad aderire ad un governo di unità nazionale. Lapid, a differenza dell’ex capo di stato maggiore Gantz, ha tuttavia posto una condizione, che fossero rimossi dall’incarico i due personaggi più carismatici dell’estrema destra nazionalista, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir. La decisione finale spetta ovviamente a Netanyahu, la scelta non è semplice. Se accetta si rivoluziona l’asse politico del governo. E cade ogni velleità di portare avanti il programma di riforma della giustizia, che aveva spaccato l’opinione publica israeliana in due. Ma si apre per Netanyahu lo spazio (politico e diplomatico) per portare avanti il suo storico piano di colpire Teheran (i progetti militari sono riposti nel cassetto da anni). L’ambasciatore di Israele in Italia, Alon Bar, non è l’unico a pensare che dietro ad Hamas “c’è il sostegno dell’Iran”. Difficile il contrario, soprattutto perché non c’è nessuna smentita all’accusa.
A giugno scorso una delegazione ad alto livello di Hamas, incluso il capo dell’Ufficio politico del movimento Ismail Haniyeh, ha incontrato il presidente iraniano Ebrahim Raisi a Teheran per discutere della causa palestinese. Nella dichiarazione Haniyeh ha salutato il ruolo dell’Iran a sostegno del popolo palestinese. E il presidente iraniano, a sua volta, ha ribadito l’impegno del suo paese in favore della resistenza di fronte all’occupazione israeliana. Pochi mesi prima lo stesso Haniyeh aveva personalmente fatto visita a Beirut a Hassan Nasrallah. L’asse in calce siglato tra Hezbollah, Hamas e Iran degli ayatollah prefigurava che qualcosa di tremendo bolliva in pentola.
Le relazioni diplomatiche di Netanyahu con il mondo sunnita – gli “arabi anti-iraniani”, che hanno portato ad espandere il perimetro degli affari e gli stessi Accordi di Abramo, come i recenti colloqui distensivi tra Israele e sauditi (con il placet della Turchia di Erdogan) hanno accelerato la reazione degli altri attori regionali. Adesso Netanyahu, se come ha ripetutamente promesso, vuole dare una lezione ai nemici, vicini e lontani, si vede costretto ad agire su vari teatri contemporaneamente. Per il via libera ad attaccare l’Iran c’è comunque da attendere il nulla osta di Washington. In un quadro politico come quello attuale tutto lascia pensare che l’eterno conflitto del Medio Oriente possa a questo punto davvero inasprirsi sino ad autoalimentarsi all’infinito. L’11 settembre di Israele è iniziato il 7 ottobre 2023. Auguriamoci che non finisca nello stesso modo, e che Gaza non diventi l’Afghanistan del Mediterraneo. O forse Hamasistan è già Afghanistan, e l’incubo continua.
IL COMPLESSO DI CAINO
E l’Eterno disse a Caino: “Dov’è tuo fratello Abele?”, ed egli rispose: “Non lo so; sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9). L’ong statunitense J street e la fondazione Kohelet, con sede a Gerusalemme, sono “figli” dello stesso diritto: Israele casa per gli ebrei. Hanno, tuttavia, due visioni inconciliabili sul piano del modello di stato sionista (o post) da conseguire. Schierati su campi opposti per determinare, in una battaglia cruciale e non solo culturale, le sorti di Israele. In una sfida ideologica tra allergici alla sinistra e demonizzatori della destra, pro Bibi e anti Netanyahu, tifosi della riforma della giustizia e contrari alla sua introduzione, nazional-religiosi e laici progressisti, Caino e Abele.
J Street, a cui aderiscono vari membri del Congresso di Washington, incarna l’idea che solo una risoluzione negoziata tra israeliani e palestinesi possa soddisfare le legittime esigenze ed aspirazioni nazionali di entrambi i popoli: “Crediamo che il popolo palestinese, come il popolo ebraico, abbia il diritto ad una nazione democratica, che vivano fianco a fianco in pace, libertà e sicurezza. E che – i palestinesi – meritano pieni diritti civili e la fine dell’ingiustizia sistemica dell’occupazione”. In sintesi, la posizione espressa è appunto quella dei raggiungere il compimento di due stati sovrani, della pace in cambio di terra e la fine dell’occupazione. Al momento, si mantengono sulla strada che appare più impervia da percorrere, quella tracciata da Rabin e Shimon Peres.
Il Kohelet Policy Forum è invece un think-tank che si definisce apartitico, premuroso di dedicarsi alla promozione dei valori della libertà individuale e del libero mercato, di Israele come stato-nazione del popolo ebraico (di cui hanno architettato l’architrave giuridico) e della democrazia rappresentativa (in senso populista). La matrice di base del loro pensiero è il conservatorismo religioso. È ormai largamente acquisito che dietro alla contestata revisione del sistema della giustizia, che ha spaccato il paese, ci sia il loro disegno di legge di depotenziamento dei poteri della Corte Suprema: «Non siamo stati noi a prepararlo, ma il Kohelet Forum», ha dichiarato durante un’intervista a Channel 13 Keti Shitrit, parlamentare del Likud. Progetto che ha preso immagine nell’attuale esecutivo di Netanyahu.
Il refrain della critica a J street è rimasto pressoché inalterato da quello espresso da Seth Mandel, in un editoriale del 2011 sul mensile Commentary: «A differenza dei veri moderati, che occupano la terra di mezzo, questi “moderati” sono persone che non hanno principi, esistono solo per togliere consenso e la cui ragion d’essere è opporsi a qualsiasi cosa venga praticata da quelli di cui non si fidano. Questo è sempre stato il caso di J Street, un’organizzazione fondata semplicemente attaccando l’infrastruttura esistente del sostegno filo-israeliano, adoperando termini politici rozzi e iper-partigiani». A sua volta il giudizio rivolto al Kohelet non è meno negativo, così Yofi Tirosh docente dell’Università di Tel Aviv: «Sta rompendo il delicato equilibrio tra l’Israele tradizionale e gli ultra-ortodossi». L’obiettivo dei nuovi intellettuali di destra sarebbe di riscrivere completamente lo stile di vita degli israeliani, favorendo coloro che «sono convinti che l’ostacolo alla venuta del messia venga dalla violazione dello Shabbat o dal fatto che le donne indossino un abbigliamento non consono». Kohelet è un collettore che centrifuga maschilismo, sciovinismo, razzismo e messianesimo. Numericamente godono della possibilità di legiferare a proprio piacimento in parlamento. Dove affiliazioni più estremiste invocano la creazione di una milizia privata, il taglio dei fondi alle municipalità arabe, la distruzione di villaggi palestinesi, il divieto a sventolare la bandiera palestinese e la discriminazione di genere nei luoghi pubblici. Impongono dettami nello Shabbat (soprattutto nei trasporti), nei cibi (kosher) e nell’educazione. Difendono il vandalismo dei pogrom contro gli arabi e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Il loro peccato originale è proverbialmente l’istinto di Caino che li pervade, spingendoli a cancellare gli assetti fondanti della democrazia, di cui ciascuno a suo modo è guardiano.
BIBI E LA STRATEGIA SOVRANISTA
Che cosa può fermare Benjamin Netanyahu dal suo attacco diretto alla democrazia di Israele? A questa domanda si può rispondere in vari modi. Quella più spontanea è che solo lui è in grado di evitare il disastro dell’abisso dei valori dei padri fondatori, fermando la riforma della giustizia che non ha l’obiettivo di riequilibrare gli assetti tra i poteri dello Stato ma quello di scardinare l’intero sistema di controllo della Corte Suprema su esecutivo e parlamento.
In pratica una vera e propria rivoluzione che andrebbe ad amplificare il potere della maggioranza di governo. La seconda lettura degli eventi è che a questo punto il longevo premier appare prigioniero del suo stesso disegno. La decisione di formare una coalizione con l’estrema destra è risultata una mossa elettoralmente vincente, ma ha tuttavia finito per tramutarsi in un prezzo troppo alto da pagare. E ben presto Netanyahu ha dovuto subire le pressanti richieste, talvolta spudorate minacce, degli alleati. Concessioni che hanno messo in luce un leader debole come non mai.
L’errore del falco del Likud è stato quello di circondarsi di una corte di devoti yes man e poche donne. Oggi i sondaggi di gradimento sono impietosi sull’operato di questo governo. A criticare aspramente c’è una parte di Israele, che si è ribellata all’introduzione della nuova legislazione e da mesi scende in piazza: blocca l’aeroporto, ha marciato per 60km fino a Gerusalemme, e ha piazzato centinaia di tende difronte alla Knesset. Un’onda pacifica cresciuta nel tempo, che sventola la bandiera di Davide e si erge a difensore di diritti e libertà.
Il movimento pro-democrazia crede che il pericolo della deriva autoritaria e persino di una dittatura sia imminente. Alla protesta aderiscono interi settori della società, medici, riservisti dell’esercito, insegnanti, diplomatici, artisti, intellettuali etc. Sono ovviamente una spina nel fianco di Netanyahu, sono numerosi e determinati a non desistere nella loro lotta. Ciononostante, c’è anche una larga fetta dell’elettorato di destra che è ancora convinto della necessità di apportare modifiche sostanziali al sistema.
La ragione principale alla base di questo approccio è la riluttanza atavica agli apparati dello stato, perché considerati espressione di una élite, tendenzialmente manovrata dalla sinistra o riconducibile in vario modo ad essa. A prescindere da ciò che pensano, sbagliato o meno, il quadro odierno è di una nazione profondamente lacerata. A provocare questo danno, e qui non c’è nessun dubbio storico, hanno inciso tre decadi di martellante propaganda narrativa di Netanyahu, nel nome della paura. Che hanno radicalmente e persino subdolamente cambiato Israele.
Fino al punto che una società “polmone” di esperienze (e sofferenze) ha smesso di ossigenare il suo popolo. In Israele la democrazia per continuare a vivere deve prima di tutto trovare la sua ancora di salvataggio. C’è chi invoca la costituzione, di cui il paese è privo. Ma prima forse dovrebbe guardarsi dentro, e resettare l’era di Netanyahu.
Israele e Palestina, racconti di morte e guerra
Israele è un paese che convive con l’anormalità, quella del conflitto perenne, del terrorismo, dell’occupazione e dell’odio. Eppure, nel 2023 è diventato il quarto luogo più felice al mondo dove vivere, almeno secondo la classifica del World Happiness delle Nazioni Unite. L’indice di felicità globale tuttavia non tiene conto di Sapir Livnat Green, la giovane ventiseienne ebrea israeliana che il 9 maggio ad un checkpoint vicino a Hebron ha deliberatamente deciso di farsi uccidere, facendosi sparare dai militari in un presunto suicidio orchestrato con lucida follia. Alle spalle aveva una vita complicata. Cresciuta in un contesto familiare segnato dalla malattia mentale della madre e dalla morte del padre. Un trascorso da senzatetto, ospedali e casa famiglia. Al termine del servizio militare gli era stata diagnosticata una seria forma di stress post traumatico. Problemi di depressione acutizzati con la scomparsa della migliore amica, causata da un’overdose di barbiturici. Livnat Green è andata incontro alla morte con premeditazione. Ha annunciato il gesto via social, con tanto di emoji di scrollata di spalle a chi gli chiedeva se intendeva farlo. Ha indossato comuni abiti da donna araba, coprendosi il volto con il velo, preso una pistola ad aria compressa e si è fatta un ultimo selfie. Poi ha raggiunto il posto di blocco e si è lanciata contro un soldato gridando “Allahu Akbar”. La tragedia di Livnat è un caso angosciante che fa riflettere. La modalità di azione che ha scelto per mettere fine alla propria vita è del tutto inusuale. In Israele nel 2019 ci hanno provato in quasi sette mila, uno ogni 1300 abitanti. Nel corso del 2022 i soldati israeliani che si sono tolti la vita sono aumentati rispetto all’anno precedente. “Abbandonati dallo stato e senza l’aiuto della famiglia”, hanno dichiarato i vertici dell’IDF nel presentare le statistiche. Qualche colpa ce l’ha chi governa (e la politica), chi non offre servizi di livello ai cittadini, a partire da quelli ai più bisognosi e deboli, chi non lavora per costruire un futuro migliore, di pace, tranquillità e benessere sostenibile. Livnat è vittima indiretta del conflitto. Lo sbaglio non è del soldato che ha premuto il grilletto, non è una questione di errore umano ma di agire come ti è stato impartito di fare, in quella determinata situazione. Una guerra, come scrivo da anni, che è logorante e assurda. Come si può vivere felici in un paese appeso al suono delle sirene che avvisano l’arrivo delle bombe? Andate a chiederlo ai cittadini di Sderot, che convivono con questo incubo quotidianamente. A chi invece non lo potete domandare sono Dania Adas, 19 anni, e la sorellina Iman, erano palestinesi di Gaza. La loro “sfortuna” è stata di avere come vicino di casa un leader della jihad islamica, che un missile israeliano teleguidato ha fatto saltare in aria. Dania si era appena fidanzata e stava facendo i preparativi per il matrimonio. Raccontano che pochi istanti prima di essere sepolta dai detriti era raggiante al telefono. Come si può vivere serenamente in una striscia di terra succube di una dittatura fondamentalista e in guerra con Israele? A Gaza tornerà la calma, ci sarà una nuova tregua che non durerà, e il disco rotto della violenza riprenderà a suonare. È il fil rouge dell’infelicità di due popoli, troppo distanti per essere vicini. Ma non per morire insieme.
Enrico Catassi
DOMANI E SEMPRE E’ IL 25 APRILE
“In Europa, in questo momento, sono in corso, contemporaneamente, due guerre, su piani diversi ma strettamente connessi: quella che vede l’Ucraina aggredita dalla Federazione Russa nella sua integrità territoriale, e una guerra di valori, in cui sono in gioco tutti gli elementi che caratterizzano l’odierna esperienza occidentale, a partire dalla libertà”, sono le parole pronunciate pochi giorni fa all’Università di Cracovia da Mattarella, che suonano antitetiche alle dottrine sovraniste dilaganti.
La lunga ed intensa settimana dedicata alla Memoria e alla Liberazione del presidente della repubblica si snoda dai campi di sterminio in Polonia ai sentieri dei partigiani italiani nel cuneese. Ad Auschwitz si è recato insieme alle sorelle Tatiana e Andra Bucci, sopravvissute alla Shoah. Per la prima volta la massima carica dello stato ha aderito alla Marcia dei vivi, manifestazione istituita nel 1988 a cui partecipano migliaia di giovani da tutta Europa e dal mondo. Il viaggio nell’est di Mattarella avviene in un momento particolarmente cruciale per il Vecchio Continente. La guerra è alle sue porte e la Polonia è il suo ultimo confine. Ed è lì che il presidente ha voluto ribadire un doppio concetto: condannare l’invasione russa e ringraziare per aver accolto milioni di profughi in fuga dall’orrore della violenza. Solidarietà che in passato, nemmeno troppo lontano, la Polonia ha volutamente ignorato. Con il governo di estrema destra guidato da Mateusz Morawiecki che nel nome del nazionalismo ha abbracciato politiche di respingimento dei migranti.
Impossibile non dimenticare che esattamente 80 anni fa nel ghetto di Varsavia avvenne la prima ribellione contro l’occupazione nazista. Una lotta imparziale e impossibile. Che fu però l’inizio della rivolta ebraica, la più lunga e partecipata durante l’Olocausto. Si trattò di un’insurrezione popolare, che le SS e le milizie polacche repressero nel sangue. Per poi sterminare la restante comunità nei lager. Quella battaglia è oggi un simbolo profondo di civiltà. E le ultime parole del suo leader Mordecai Anielewicz un inno eroico: “Il sogno della mia vita è diventato realtà. L’autodifesa ebraica nel ghetto di Varsavia è diventata un dato di fatto. La resistenza armata ebraica e la rappresaglia sono diventate una realtà. Ho assistito alla magnifica lotta eroica dei combattenti ebrei”. Allora, anche in Italia i Comitati di Liberazione Nazionale fecero la giusta scelta di opporsi alle barbarie del nazifascimo. A luglio del 1943 solo pochi mesi dopo gli eventi di Varsavia, tra i torrenti Stura e Gesso, risuona l’appello alla resistenza del comandante partigiano Duccio Galimberti: “Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore”. L’antifascismo di Anielewicz e Galimberti, pagato da entrambi al prezzo della propria vita, sono capitoli della nostra storia che non possono essere negati, e tantomeno rivisitati. Né minimizzati a prescindere dal colore di chi governa.
IL DECLINO DEL BIBISMO
Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.
BIBI IN PAUSA
Domenica 26 marzo, Netanyahu decide di silurare il ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver dichiarato di essere favorevole alla sospensione della contestata riforma della giustizia, promossa dal governo. Il licenziamento provoca un vespaio di nuove proteste in Israele. Nell’arco di una notte, lunga e sofferta, tutto precipita. E al mattino la notizia è che: “Netanyahu congela la riforma giudiziaria”. Almeno, è quello che trapela e rimbalza sui siti. Intanto, ci si aspetta che parli alla nazione. L’annunciata conferenza stampa però si trasforma in una via di mezzo tra il giallo e la barzelletta. Cresce l’attesa. Parla o non parla? Ammette la sconfitta o chiama in piazza i suoi? Che intanto si sono dati appuntamento per una contro-manifestazione nel pomeriggio a Gerusalemme. Il più infervorato è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che twitta «Oggi finisce il nostro silenzio. Oggi è il giorno in cui la destra si sveglia». Poco dopo anche l’altro leader dell’estrema destra razzista Bezalel Smotrich sentenzia: «Facciamo sentire la nostra voce». Sorge tuttavia spontanea una domanda: la vostra o quella di Bibi? Perchè quella del premier in tutto questo grande caos, un balagan gadol, mica si sente. Silenzio stridente, che lascia il dubbio che voglia veramente arrivare alla prova di forza. Altrimenti, perchè attendere così tanto? Ha già avuto modo di sentirsi personalmente con quasi tutti i leader che compongono la coalizione. Ha davanti a sé un quadro chiaro. Il blocco dei partiti religiosi gli ha dato conferma che sarà al suo fianco qualunque cosa decida di fare. Nel Likud la fronda è disposta a rientrare nei ranghi con l’annuncio dello stop alla riforma. Il problema è la componente nazionalista, che lo incita a proseguire e minaccia di sfasciare la coalizione in caso contrario. Numeri alla mano il governo di Bibi cessa di esistere nel momento in cui decide di pronunciarsi in pubblico, se non ricompone prima l’alleanza. Alla fine, il sacrificio è doppio, oltre al passo indietro ora deve subire anche le pretese di Ben-Gvir, al quale è costretto a promettere il comando di una futura “fantomatica” guardia nazionale. Un prezzo decisamente alto. Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra (non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente). Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati, che gli impongono lo spartito da suonare.
Bibi sin dall’inizio ha tentato di svicolare l’assedio montante sulla riforma della giustizia rassicurando che i diritti non erano in pericolo e la gente avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma non tutti gli hanno creduto (anche tra quelli che l’hanno votato). E poi negli ultimi giorni vista la mala parata aveva “ammorbidito” il testo della riforma e allungato il brodo dell’approvazione. Parvenza di addolcire la pillola con qualche concessione che però non aveva avuto l’esito aspettato. La strategia comunque mirava in prima istanza a contenere le crepe nel Likud, che invece sono esplose, sbocciate come un fiore di primavera nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. Un grave errore di calcolo per un politico navigato, che si aggiunge ad altre cadute di stile.
Quando i sopravvissuti alla Shoah prendono carta e penna per scrivere una lettera al governo chiedendo di non partecipare alle cerimonie ufficiali nel giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah), non c’è nulla da aggiungere. Quando l’associazione delle famiglie che hanno perso i loro cari durante il servizio militare o per mano del terrorismo recapitano un “invito” ai rappresentanti della maggioranza a non intervenire alla giornata in memoria delle vittime (Yom HaZikaron), c’è solo da ascoltare in silenzio. Quando un ex direttore del Mossad afferma la necessità per il Paese di dotarsi di una costituzione, meglio obbedire. E quando il presidente della repubblica Isaac Herzog lancia un accorato appello chiedendo «di fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene dell’unità del popolo di Israele e per amore del senso di responsabilità», andare avanti a testa bassa diventa un suicidio politico. Netanyahu ha perso il suo tocco magico e forse lucidità di analisi, ma può ancora evitare un folle disastro.
LA VOCE DI HERZOG, IL SILENZIO DI BIBI
Israele non avrà una costituzione ma ha un presidente, Isaac Herzog. Il quale in queste ore di crash test sulla tenuta della coesione sociale ha avanzato un articolato piano di mediazione (la “Direttiva della gente”), nel tentativo di abbassare i toni del confronto politico che è in atto nel Paese sulla proposta di riforma della giustizia: «Chi pensa che una vera guerra civile, con vite perse, sia una linea che non attraverseremo, sbaglia. Proprio ora, 75 anni dalla sua nascita, Israele è sull’orlo dell’abisso… Siamo ad un bivio: tra una crisi storica o un momento costituzionalmente decisivo». La mossa di Herzog, come lui stesso ha voluto sottolineare, «riflette un ampio, vasto comune denominatore e un enorme desiderio dei cittadini di concordare un compromesso». Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post il 42% degli intervistati ha dichiarato di sostenere la “direttiva” avanzata Herzog. Per la frastagliata opposizione in parlamento la proposta è sostanzialmente una strada praticabile ma non una soluzione ideale. Mentre, la coalizione di governo l’ha respinta al mittente giudicandola una “capitolazione”, perché disallineata dagli obiettivi che la riforma giudiziaria vuole apportare al sistema di bilanciamento dei poteri. Accusando l’atteggiamento del presidente di essere delegittimante del risultato elettorale. Purtroppo, per convincere l’esecutivo capitanato da Netanyahu a fermare l’iter della contestata riforma occorre molto di più del richiamo del capo dello stato, figura autorevole ma nel sistema istituzionale israeliano, puramente rappresentativa. Nulla ad oggi è valso a far desistere la coalizione di destra dal procedere a tappe spedite verso il depauperamento dell’autorità della Corte Suprema. Non ci sta riuscendo l’onda del movimento “pro-democrazia”, una marea umana che da settimane riempie le strade di Tel Aviv. Un buco nell’acqua hanno fatto gli appelli di finanza, imprenditori, banchieri, giudici, artisti, premi nobel e persino riservisti. Non è bastata nemmeno “l’insubordinazione” dell’IDF a portare a miti consigli Bibi & friends. L’unica cosa che può impedire l’introduzione del nuovo disegno di legge è, a questo punto, la crisi della maggioranza, scesa al limite di 61 voti a favore (su 120). Teoricamente ci sarebbero ancora margini per modifiche sostanziali del testo in seconda e terza lettura alla Knesset. Nessuno però pare particolarmente intenzionato a procedere in un tale labirinto. Un’eventuale, poco probabile ma non impossibile, scossone politico potrebbe venire invece da un cambio della maggioranza, con la formazione di un nuovo esecutivo spostato al centro oppure da una frattura interna del Likud, di cui Netanyahu è al momento indiscusso padre-padrone. Ciò non toglie che i malumori di dissenso al capo serpeggiano tra gli esclusi di corte, comunque la congiura non è sotto il tavolo. Quello che è ampiamente il primo partito in Israele già in passato è stato teatro di importanti defezioni, lotte intestine e scismi. Epica la rottura di Ariel Sharon quando fondò Kadima. Bibi di sfide ne sa qualcosa, fin dalla sua ascesa al vertice dei conservatori israeliani ha dovuto sfoggiare tutte le sue doti machiavelliche per respingere le insidie. La lista dei nemici che in questi anni il falco della destra si è fatto è lunga, quasi quanto un vecchio elenco telefonico. Solitamente però chi gli si è rivoltato contro si è amaramente pentito della scelta, uscendone politicamente ridimensionato. Bastonate che di per se invitano a riflettere cautamente prima di provare a fargli uno sgambetto. Anche se personalità del Likud del calibro di Yuli Edelstein o David Bitan si possono permettere quello che ad altri nel partito non sarebbe minimamente concesso, alzare la testa e contestare il re. Se Bibi continua a perdere pezzi si vedrà costretto ad inventarsi una strategia alternativa, compresa l’opzione meno gradita del ribaltone. Benny Gantz e il listone di Unità Nazionale aspettano alla porta, e non è detto che gli venga offerto di entrare al posto di qualcuno scomodo.
BIBI AGGIUNGE UN POSTO A TAVOLA, CHE C’E’ UNA AMICA IN PIU’
A scrivere un nuovo capitolo dei rapporti tra Israele e l’Italia non troppo tempo fa fu Mario Draghi, la controparte allora era il governo anti-Bibi di Bennett e Lapid. Ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’energia. L’obiettivo era, e resta, quello di ridurre la dipendenza dal gas di Putin, in tempi rapidi. Israele ed Egitto rappresentano una valida alternativa di approvvigionamento per le aziende italiane. La calda accoglienza romana a Netanyahu è la riprova che nulla è cambiato nella strategia energetica nazionale. Per una cooperazione che si muove all’interno di una strutturata cornice di relazioni bilaterali, spaziando in diversi campi: innovazione e start-up, infrastrutture e telecomunicazioni, mobilità sostenibile e biomedicina, aerospazio e sicurezza cibernetica, farmaceutica e bellica. Affari commerciali che nel 2021 hanno registrato un balzo dell’export made in Italy del +25,9% (per un valore pari a 3,1 miliardi di €), rispetto all’anno precedente.
Una idillica partnership, fatta comunque non solo di scambi commerciali. Mazal tov (Auguri). L’incontro tra Meloni e Netanyahu ha avuto toni informali, quasi si trattasse di una rimpatriata di amici di lunga data. Ma in fondo Bibi si è sempre scelto attentamente le amicizie italiche. Quella storica con Berlusconi e poi quella con Renzi quando era in auge, alquanto fredda invece con Salvini (il loro incontro a Gerusalemme durò pochi minuti, giusto il tempo di una stretta di mano e della foto di rito) e pessima con Prodi (non quanto però quella con Clinton e Obama). Il falco del Likud si è presentato a Roma con un sacco di buone intenzioni, che tradotto in politichese significa che ha offerto a Meloni il riconoscimento internazionale ad entrare nel Pantheon dei leader mondiali della nuova destra: “Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito abbiano imparato la lezione della Storia” (M. Molinari, Netanyahu, l’intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”, la Repubblica). Dopo aver sdoganato l’estrema destra israeliana Bibi mette sotto la sua ala protettiva la leader di FdI, anche in questo caso però la “fiducia” deve essere ricambiata, ed il prezzo imposto è alto: “credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico”, ha puntualizzato al direttore Molinari nella recente intervista rilasciata a la Repubblica. Commento che suona come una esplicita richiesta diplomatica dalla portata politica, figlia della sintesi tra bibismo e trumpismo. Un punto massimo a cui sia Palazzo Chigi che la Farnesina non possono spingersi, per varie ragioni. Non fosse altro perché a Washington adesso c’è Biden e non Trump.
La motivazione che ha portato invece il vicepremier Salvini a sposare l’iniziativa e spaccare il governo sulla questione ha una risposta “scacchista”: sacrificare la regina, esponendola a situazioni disagevoli, è al momento l’unica mossa del segretario leghista per prendersi la scena. Nulla di personale, è semplicemente la logica legge del mors tua vita mea. In questo Bibi è un maestro di machiavellismo, e Meloni deve fare attenzione alla prima lezione profetica che gli ha impartito: “La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti”. Risoluti e mai compassionevoli con il nemico, tanto che si tratti dell’Iran o della Siria, dei palestinesi o del movimento israeliano che vuole fermare la riforma giudiziaria. I leader politici israeliani sono storicamente poco inclini alla magnanimità, come scriveva qualche settimana fa Herb Keinon sul Jerusalem Post (Now is the time for Netanyahu, coalition to show magnanimity). Rabin non indietreggiò d’un passo sugli Accordi di Oslo, tantomeno Ariel Sharon quando sgomberò Gaza. Per non parlare di David Ben-Gurion che ordinò persino di far fuoco alla nave Altalena. Il padre fondatore mancò tuttavia di dare una costituzione allo stato, una fase costituente secondo il suo punto di vista avrebbe aumentato le divisioni politiche, in un momento di emergenza. Lasciò insoluta una questione a cui poi nessuno ha messo mano. Se Netanyahu decidesse di scrivere la costituzione, e mettere così fine al vulnus esistente, dovrebbe sedersi al tavolo con l’opposizione, mostrando disposizione all’ascolto. Francamente, pensiamo che non avverrà. E da questa partita sulla giustizia uscirà un solo vincitore, magari un po’ malconcio.
Nel 1948 il primo ministro Ben-Gurion non partecipò all’insediamento della prima Corte Suprema di Israele. C’è chi dice perché non avrebbe accettato l’ingerenza. E c’è chi pensa che con quel gesto volesse tracciare la linea di indipendenza dei giudici. L’unica democrazia del Medioriente si è portata dietro questo dubbio, che però le ha permesso di mantenere inalterato sino ad oggi il bilanciamento dei poteri istituzionali. Ambiguità che Bibi non rischia affatto di lasciare ai postumi.