Il caos del Medioriente, le catastrofi climatiche, fame e siccità, il terrorismo, i conflitti, una nuova guerra fredda, la proliferazione nucleare di nuove potenze invocano un cambiamento radicale d’indirizzo. New York e Assisi hanno ospitato due eventi concomitanti che hanno ruotato intorno ai veri problemi di questo secolo, migrazione e povertà: 800 milioni di persone vivono in condizione di estrema povertà e oltre 65 milioni sono attualmente in fuga. Nella Grande Mela, dopo gli attentati della scorsa settimana, un blindatissimo summit per l’annuale settimana di apertura dell’Assemblea generale dell’ONU. Al centro dei lavori i diritti violati per milioni di persone. Il divario tra i fondi disponibili e quanto servirebbe realmente in aiuti è abissale. Il primo passo dell’Assemblea è stata l’adozione, non vincolante, della Dichiarazione di New York. Il documento, seppur generico e particolarmente osteggiato da molti stati membri, contiene principi e impegni (economici e numerici) che determinano l’ossatura per impostare non subito ma nei prossimi mesi, forse anni, un piano che affronti concretamente gli effetti della crisi migratoria del pianeta. La prospettiva è giungere entro il 2018 ad un Global Compact. Assistiamo alla peggiore crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale e la comunità internazionale è ottusamente inerme. A condizionare la conferenza di Bratislava prima e poi la maratona diplomatica di New York sono stati molteplici fattori: scadenze elettorali in successione, l’insorgere di demenziali populismi e le farraginose sfaccettature delle geopolitiche che governano i sistemi e le relazioni internazionali. A richiamare l’attenzione della platea dei potenti ci ha provato Barack Obama: «Dobbiamo correggere la globalizzazione, ma no ai nazionalismi e ai populismi. Un Paese circondato dai muri imprigionerebbe sè stesso. Dobbiamo sposare la tolleranza che risulta dal rispetto per tutti gli esseri umani». È un “testamento” politico l’ultimo discorso del presidente afroamericano sulle sfide della globalizzazione: «Bisogna lottare contro le disuguaglianze e colmare il divario tra i più agiati e i meno abbienti. Il mondo oggi si trova davanti a una scelta: o andare avanti o tornare indietro. E noi dobbiamo andare avanti», con urgenza. Mentre Obama rilanciava la sua dottrina il pontefice gli faceva eco partecipando alla chiusura della tradizionale Giornata Mondiale di Preghiera ad Assisi: «Se noi oggi chiudiamo l’orecchio al grido di questa gente che soffre sotto le bombe, che soffre lo sfruttamento dei trafficanti di armi, può darsi che quando toccherà a noi non otterremo risposte». Il tema del convegno interreligioso voluto nel 1986 da Giovanni Paolo II è stato la “Sete di pace”: «La sete, ancor più della fame, è il bisogno estremo dell’essere umano, ma ne rappresenta anche l’estrema miseria». Nella breve meditazione Papa Francesco ha poi aggiunto: «Implorano pace le vittime delle guerre, che inquinano i popoli di odio e la Terra di armi; implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto, spogliati di ogni cosa». Le spiegazioni razziste verso chi è in fuga sono sbagliate e ingannevoli, allontano dal bene comune più prezioso, la solidarietà.
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LE PRIGIONI SIRIANE
Abbiamo tutti visto gli occhi persi nella paura del piccolo Omran, immobile e scalzo su quel sedile arancione di un’ambulanza ad Aleppo, un pulcino fragile, incenerito e macchiato di sangue. Nella storia di quel bambino c’è il simbolo della guerra civile siriana. Poi c’è quello che non vediamo e che ci viene svelato solo in parte, è la fotografia della vita nelle prigioni: fame, senza cure mediche, confessioni estorte con la tortura. È sufficiente il sospetto di far parte dell’opposizione al regime di Damasco per aprirti le porte di un calvario. Amnesty International pochi giorni fa ha diffuso sulla Siria dati allarmanti: 17.723 i carcerati morti nelle prigioni governative dall’inizio della rivolta ad oggi. 10 persone ogni giorno hanno perso la vita tra le sbarre. Il nuovo rapporto del movimento per i diritti umani fondato negli anni ’60 dall’attivista britannico Peter Benenson porta alla luce inquietanti dettagli sulle sevizie, sull’uso sistematico delle violenze corporali ai prigionieri da parte delle guardie carcerarie: frustate, bruciature con sigarette, acqua bollente versata sul corpo, scosse elettriche. Il governo siriano ha ripetutamente negato tutte le accuse. Chi è passato per le prigioni della dittatura racconta: «Le feste di benvenuto consistevano in percosse con barre di metallo e cavi elettrici».
Celle sovraffollate, sporche. Poca aria. «Mi hanno bendato prima di consegnarmi ad un ufficiale che ha iniziato ad insultarmi, quando mi ha detto che non avrei mai più rivisto la luce del sole gli ho creduto». Decine rinchiusi nella stessa stanza. Obbligati a dormire a turno. Costretti a bere l’acqua del gabinetto. Racconti raccapriccianti di costrizioni ad abusi sessuali tra detenuti. Sotto le minacce delle pistole. Picchiati a sangue dalle aguzzine guardie per giorni. «Abbiamo visto il sangue colare fuori dalla cella. Dentro erano tutti morti». Il luogo peggiore si chiama Saydnaya, carcere militare a 25 km al Nord di Damasco. È un carcere di massima sicurezza invalicabile. Un buco nero dei diritti umani: «Riconosci le persone dal suono dei passi. Avverti che stanno distribuendo il cibo dal tintinnio delle ciotole. Le urla annunciano nuovi detenuti. Durante le punizioni cala il silenzio, qualsiasi lamento prolunga l’agonia». Nelle carceri di Assad si annienta l’essere umano nello stesso modo di quelle degli insorti: “Un Inferno senza diavoli e fiamme” la definizione del giornalista italiano Domenico Quirico rapito in Siria nel 2013. La denuncia delle organizzazioni umanitarie chiama in causa anche i rivoltosi. Le crudeltà commesse dai miliziani del Califfo sui civili sono una piaga: crocifissioni, amputazioni di arti, lapidazione e fustigazioni. Massacri di massa, individuate almeno 17 fosse comuni. Uccisioni sommarie e guerriglieri liberi di compiere efferatezze senza limiti. Un genocidio dove villaggi vengono sistematicamente ed interamente sterminati. La popolazione che vive nel terrore, persone trattenute per lunghi interrogatori solo a causa delle loro opinioni politiche o culto religioso. Nelle zone in mano ai gruppi armati di matrice fondamentalista sono state create delle istituzioni amministrative e semi-giudiziarie. Un sistema processuale parallelo, basato sull’applicazione, più o meno rigida, della legge islamica (shari’a). Giovani portati in cella perchè: trovati a fumare in pubblico, indossavano abiti troppo aderenti oppure avevano avuto la malaugurata idea di radersi la barba. «Russia e Stati Uniti dovrebbero pretendere la fine dell’uso della tortura nelle carceri. Fermiamo le sofferenze di massa, è una vergogna». Le parole di Philip Luther direttore di Amnesty per le aree del Medioriente e del Nord Africa rinnovano il dibattito e le polemiche. In Siria fa paura ciò che si vede, ma non è meno terribile di quanto non vedremo mai.
L’INFINITA BATTAGLIA DI ALEPPO
Sul piano teorico in Siria ci dovrebbe essere la tregua, ma le continue violazioni dell’accordo sono peggiorate sino alla definitiva riapertura del conflitto. Aleppo in mano ai ribelli è assediata da mesi dall’artiglieria del regime. Intrappolati oltre 250mila civili, il 60% sono donne e bambini che vivono da troppo tempo tra le bombe. Il governo di Damasco ha annunciato corridoi umanitari per i civili e coloro disposti a deporre le armi. Tuttavia la Comunità Internazionale esprime ancora scetticismo e la catastrofe umanitaria pare inevitabile. È la deriva inesorabile di questo paese. La fuga di milioni di profughi, verso i quali manca ancora umana solidarietà, è un problema organico. Nella lettura della storia attuale del Medioriente prevale disordine e discordia, la cronaca è ripetitiva e talvolta ossessiva. Il conflitto, in questa terra tre volte santa, si è radicalizzato e globalizzato a partire dall’informazione. Eppure ad Aleppo tutti annunciano di aver vinto. Anche l’esito finale della battaglia è caos per una regione che non ammette sconfitte. Subissati dalle notizie, aggiornati in tempo reale sul numero dei morti, sull’evoluzione dei combattimenti o sul macabro rituale degli attentati. Correndo il rischio di finire assuefatti alla violenza barbarica giornaliera e di assimilare come verità assolute le retoriche della propaganda. In Siria non ci sono solo due schieramenti, buoni e cattivi, i ” pro” o “contro” Assad, i “filo” e gli “anti”. È un micro sistema di situazioni – drammatiche e disastrose – che si intrecciano con le passioni – odio, rabbia e paura – e la religione nelle aberrazioni più fanatiche. Una crisi quella siriana che affonda le robuste radici nella stagione delle “primavere arabe”. Un periodo delicato e complesso, un vaso di Pandora che ha innescato rivolgimenti e poi conclusosi con l’esplosione di contraddizioni antidemocratiche per gran parte del mondo arabo investitone. Cinque anni ininterrotti di morte, eventi infausti a catena hanno partorito solo mostri. Uomini venali lanciati in una impresa spregevole: mantenere in vita un regime dittatoriale o edificare un nuovo califfato. Deporre il tiranno laico o elevare la teocrazia del fondamentalismo islamico. Per quasi tredici secoli, dalla morte di Maometto al rovesciamento dell’ultimo sovrano ottomano, il Medioriente è stato governato da un “successore” del profeta. Nel maggio 2014 Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato ufficialmente la nascita del nuovo califfato, lanciando la guerra “santa” al mondo. Nei mesi a seguire il terrorismo colpisce l’Europa, non per caso. È guerra: il 14 Luglio a Nizza in una notte muoiono 84 persone. In Siria nello scorso mese 1590 civili hanno perso la vita. Quanto accade in queste ore nel golfo della Sirte in Libia, lungo le rive del Tigri a Mossul in Iraq, tra le dune del Sinai in Egitto è geograficamente fuori dai nostri confini ma, non può essere trascurato. Che la cittadella di Aleppo cada in mano ad Assad o vinca l’offensiva dei rivoltosi l’onda d’urto avrà in e per l’Europa un effetto negativo. I fallimenti della diplomazia internazionale per porre fine alla guerra civile, l’assenza di transizione politica, i profughi che supplicano soccorso e vengono respinti, i massacri compiuti dai fedelissimi al regime, l’azione militare russa sono tutti elementi che hanno contribuito in maniera diretta all’innalzamento del livello del conflitto, aumentando, purtroppo, in modo crescente la “popolarità” del radicalismo islamico. Sino a giungere all’impossibilità oggettiva di essere in grado di neutralizzare e prevenire devastanti ondate terroristiche. L’Isis non può essere sconfitto con un assalto al palazzo del sedicente califfo perchè deve essere prima di tutto ridimensionato il potere attrattivo che emana sia dentro che fuori il Medioriente. Occorrono reali e concreti colloqui di pace, c’è una regione da ricostruire dalle macerie, mattone dopo mattone.
IL PATTO DI SAN PIETROBURGO
Nel cuore di Istanbul abbiamo assistito poche settimane fa alla notte in cui i cittadini si rivelarono eroi ordinari e sventarono il golpe. In quelle stesse ore Erdogan ebbe il sostegno convinto da parte della Russia di Putin. Oggi, dopo l’incontro di San Pietroburgo, un nuovo asse geopolitico taglia l’Europa dall’Asia. Nella notte buia della congiura, sventolando la bandiera della democrazia, gran parte del popolo scelse di opporsi al colpo di stato militare. Un segno divino per il religioso Recep Tayyip Erdogan. Nel momento più critico della sua carriera l’uomo di Istanbul, al potere da 13 anni consecutivi, si è appellato al popolo che ha salvato, letteralmente, la testa del suo sultano. Ma la storia non si è fermata agli eventi drammatici del 15 luglio. Dopo è iniziata la cronaca dell’accanimento, oltre 70mila persone, sono state arrestate o sospese per aver preso parte direttamente alla cospirazione o per presunti legami con il movimento di Fethullah Gulen, il predicatore rifugiato in America che avrebbe tramato contro Ankara ma che nega ogni coinvolgimento. La confraternita della facoltosa guida religiosa è “infiltrata” in vari settori chiave della società turca, tanto da essere stata la spinta propulsiva del successo di Erdogan per poi esserne ripudiata, e finire preda di una caccia senza quartiere. Che ruolo Gulen abbia realmente avuto nell’organizzazione del golpe è materia per tribunali e servizi segreti. Intanto il sultano, non potendo aspettare che le passioni della piazza vengano affievolite dal tempo, ha già emesso il verdetto per i traditori. In modo plateale e subdolo in queste ore dal pulpito ha chiesto al suo popolo d’introdurre la pena di morte e la folla, meccanicamente e fragorosamente, ha invocato il castigo capitale per chi ha tramato contro il palazzo. I valorosi difensori della democrazia in meno di un mese hanno cambiato d’abito, riponendo il vestito da supereroi e infilandosi la maschera della scimmia giacobina di gramsciana memoria: “non hanno il senso dell’universalità della legge, perciò sono scimmie”. L’Unione europea, gli USA e molte organizzazioni umanitarie tra cui Amnesty International hanno biasimato la possibile deriva di Ankara. E la corte del sultano non ha gradito reagendo in modo equivoco e lanciando un ultimatum a Obama. Bisanzio ha smesso di ascoltare Roma, Parigi, Berlino, Vienna e ha puntato l’orecchio a Mosca. Lo zar e il sultano scambiandosi una calorosa stretta di mano, con freddo raziocinio hanno cancellato violenti dissapori e dichiarazioni al vetriolo per dare vita ad una alleanza di tutta convenienza per entrambi: l’esportazione turca verso la Russia era crollata del 60%, lo spazio aereo turco interdetto ai russi. L’eterna guerra per il Caucaso e il Mar Nero ha raggiunto un compromesso. Passata la paura iniziale Erdogan è stato abile a capitalizzare e sfruttare la volontà popolare per rafforzare il suo dominio politico, e imprimere con una purga di stato un assetto autocratico e nazionalista al paese. Sciolinando invettive retoriche e producendo una propaganda massiccia ed efficace nel demonizzare gli avversari. Aprendo un vuoto nel sistema democratico, rivendicando la legittimità ad andare avanti nella repressione, rimuovendo gli ostacoli anche con l’utilizzo della forza. Il pericolo principale è che, al momento, il sultano è troppo sicuro di sé per accettare il rafforzamento democratico del parlamento. “Per distruggere un avversario sacrificherebbero tutte le garanzie di difesa di tutti i cittadini, le loro stesse garanzie di difesa”. Così scriveva Antonio Gramsci sull’Avanti il 22 ottobre del 1917.
Giannizzeri e profughi, le minacce del Sultano
Sono passate tre settimane dalla notte del colpo di stato, dei carri armati sui ponti di Istanbul, del bombardamento del parlamento di Ankara, dei morti nelle strade. Il golpe fallito, la vittoria della piazza, il ritorno del capo e l’inizio di un nuovo incubo. In Turchia la punizione ai cospiratori assume la forma, o il pretesto, della feroce umiliante rivincita. Nei lunghi corridoi dei palazzi dei tribunali decine di persone si aggirano nella speranza di avere notizie dei familiari detenuti: sapere dove si trovano e conoscere le loro condizioni di salute. Voci di torture e maltrattamenti ai golpisti si susseguono da giorni. Erdogan, che era sul punto di essere deposto, ha perso il senso della realtà, della giustizia e del perdono. Il despota del Bosforo soffia sul fuoco della pena di morte e lancia minacce sibilline, allude sul terrorismo, è fuori dal perimetro europeo, persino Berlino è infastidita e non lo difende più, scaricandolo: “Non è il Papa”. Lui tuttavia non arretra, esagerando nelle elucubrazioni. Ribadisce sempre e solo la sua verità narrativa, l’unica che a suo dire esiste. E che tutti devono servilmente accettare. È l’eclisse totale della democrazia che avvolge anche il destino di milioni di profughi che si sono riversati nel paese dalla vicina Siria, nel corso degli ultimi cinque anni. La Turchia ospita 2,7 milioni di rifugiati. Molti hanno cercato di lasciare le coste dell’Anatolia per l’Europa, in troppi hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo. A Marzo dopo mesi, in cui Recep Tayyip Erdogan e il suo governo hanno ricattato le capitali europee con la scusante del caos dei rifugiati, la tecnoburocrazia di Bruxelles ha prodotto un impegno formale con la Turchia. Al tavolo delle lunghe e spinose trattative, condizionato dalle “pressioni” filo turche della Merkel, abbiamo perso la dignità, arrivando persino a monetizzare la vita dei profughi, salendo su un treno che non avremmo mai dovuto prendere. Un’intesa politico-commerciale che lasciò l’amaro in bocca: «Viola il diritto internazionale e quello dell’Unione europea». «È un ulteriore passo verso l’abisso della disumanità». Ammoniva Elisa Bacciotti direttrice delle campagne di Oxfam Italia. Alla vigilia del colpo di stato Erdogan aveva annunciato una proposta “audace” e “controversa”, offrire la cittadinanza ai rifugiati siriani, il 70% dei quali hanno un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Potenziale bacino elettorale, la cui fedeltà per chi li ha “fraternamente” accolti è certa, o quasi. Quindi non solo manodopera sottopagata ma anche uno strumento di rafforzamento negli equilibri interni. L’ennesima trama politica del sultano di Istanbul che oggi torna a minacciarne l’esplosione, in modo criminale e premeditato. Sebbene i dati raccolti da Oxfam contestano il fantomatico scenario dell’invasione: I sei paesi più ricchi del mondo – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito – accolgono un numero “misero” di richiedenti asilo, la cifra è il 9%. Mentre circa 12 milioni, pari al 50% del totale, hanno “invaso” stati che nel loro insieme non rappresentano nemmeno il 2% dell’economia globale: Giordania, Turchia, Libano, Sud Africa, Pakistan e Territori Palestinesi. Per quanto riguarda l’Italia, pur impegnata in prima linea con 134mila persone ospitate (0.6%), è lontanissima dalla Germania che ne ha accolto 736mila. È evidente che i paesi ricchi, numeri alla mano, non fanno abbastanza. Con grande soddisfazione di un sogghignante spavaldo Erdogan. La sfida è complessa e richiede una risposta coordinata, scevra da egoismi. Il prossimo appuntamento è a New York il 19 e 20 Settembre. Un summit che assume una valenza rilevante e dove nuovi assetti geopolitici si disegnano. Per quelle date le organizzazioni non governative propongono soluzioni efficaci: corridoi sicuri per i migranti, rispetto delle quote d’accoglienza, favorire i ricongiungimenti familiari, concedere visti umanitari e promuovere il reinsediamento dei più vulnerabili in un paese terzo.
L’URLO DEL SILENZIO E DEL TERRORE
Il silenzio di Francesco ad Auschwitz è un grido muto e assordante contro la crudeltà umana a poche ore dalla profanazione di Rouen. Ennesimo atto di questa lunga e tormentata estate in cui i terroristi ci stanno portando ad una nuova guerra mondiale. Ma non chiamatela guerra di religione. È quanto chiede Papa Francesco, ostinato promotore del dialogo interreligioso, della diplomazia che spiana diffidenze e attenua il peso degli scismi, guida spirituale dell’Occidente che apre all’Oriente. Francesco è un “rivoluzionario” che parla dei problemi del mondo, che invoca giustizia economica e sociale. Nella consapevolezza che la storia, talvolta, si ripete, riproponendo perfette identità: carnefice e vittima. Fanatici ed indifesi. Oggi il nemico è una milizia votata alla distruzione, perfettamente inquadrata, con schemi e obiettivi preparati minuziosamente o, talvolta, repentinamente improvvisati. Agiscono singolarmente o in gruppo. Il jihadismo nelle sue varie ramificazioni è la più potente, e pericolosa, organizzazione terroristica al mondo. La sigla che domina il mercato globale è quella dell’Is. Ogni attentato, fallito o riuscito, che faccia notizia è per l’Is una vittoria di propaganda. Da rivendicare “a prescindere” dall’effettivo coinvolgimento. La tattica militare è banalissima, colpite dove volete e come potete. L’importante è imprimere il “marchio di fabbrica” sulle peggiori nefandezze. La strategia comunicativa è diffondere paura, panico. Creare il caos e fare nuove reclute, allargando le file del proprio esercito di invasati. Non per lanciare un’invasione ma bensì per provocare l’implosione della democrazia e della libertà. Seminando morte e spazzando al vento i petali dell’umanità: Nizza, Orlando, Istanbul, Dacca, Ansbach, Kabul. Somalia, Siria, Baviera, Iraq e Normandia. Città e piccole periferie di provincia. Un elenco senza confini in questa lunga estate. Una sequenza strutturale di attacchi terroristici, la ripetizione della narrazione nelle drammatiche e angoscianti testimonianze dei sopravvissuti. Al promenade di Nizza: “Il camion sembrava che barcollasse, ma lo faceva per colpire quanta più gente poteva. Dopo il suo passaggio ho visto per terra un bimbo morto accanto al padre disperato che lo accarezzava mentre con l’altra mano reggeva una carrozzina, una signora senza una gamba, un uomo senza un piede, sentivo grida, urla, disperazione. Sono rimasto impietrito, immobile, poi a un certo punto è stato come se il silenzio mi avvolgesse”. Nel ristorante di Dacca: “Ho sentito urla e spari e mentre provavo a uscire ho visto un ragazzo con un’arma automatica che si avvicinava al tavolo degli italiani”. Al concerto ad Ansbach: “Eravamo a cena fuori. Abbiamo sentito una detonazione, e siamo rimasti pietrificati. Poi molte persone hanno cominciato a correre. Alcuni pensavano di essere stati colpiti perché cadevano mattoni dal tetto”. All’aeroporto di Istanbul: “C’era sangue sul pavimento e tutto attorno a me era in pezzi”. Nelle strade di Kabul: “Stavo partecipando ad una pacifica manifestazione quando ho sentito un botto e poi ognuno ha iniziato a scappare e urlare”. Nella discoteca di Orlando: “Per favore, per favore, per favore non sparare! Per favore non farlo. Fermati!”. A Mogadiscio: “Ho sentito l’esplosione, devo aver perso conoscenza per qualche attimo, poi ho iniziato a correre, sparavano a tutto quello che vedevano.” Nella chiesa di Rouen: “Sono entrati bruscamente, parlavano in arabo, ho visto un coltello. Io sono uscita quando hanno cominciato ad aggredire padre Jacques”. Voci di chi ha visto la morte in faccia e senza volerlo si è trovato nella prima linea di una sporca guerra.
FRIENDS
Il Sultano, lo Zar e il Cavaliere. Storie di amicizia, golpe, purghe, guerre, viaggi, bandane, colbacchi, fez, che hanno cambiato lo scacchiere politico internazionale. Fine Maggio 2002, Pratica Di Mare, vertice dei leader della Nato, viene adottata formalmente la Dichiarazione di Roma che dà vita al «Consiglio a venti» comprendente la Russia. È l’apoteosi, il punto più alto della politica estera berlusconiana. Agosto 2003. Istanbul. Il Cavaliere è nel Bosforo per fare da testimone alle nozze del figlio del “sultano” Erdogan. L’informalità del premier alla festa diventa notizia per la gaffe del baciamano alla sposa, musulmana. La galanteria del Cavaliere, eccessiva per l’occasione, non turba, tuttavia, l’umore dell’amico Erdogan. Il cambio d’inquilino alla Casa Bianca, un democratico “abbronzato”, la “liaison” tra la Merkel e Sarkozi, fatta di sguardi e sorrisi, segnano il de profundis internazionale del fondatore di Forza Italia. Aprile 2009. Baden Baden. Ennesimo gesto di scortesia diplomatica. Berlusconi scende dall’auto e invece di dirigersi verso l’accorrente Angela Merkel con passo veloce svicola in disparte con il cellulare all’orecchio. Dai gesti si capisce l’importanza della telefonata: è al telefono con Erdogan. Al centro dell’intenso colloquio il nodo del successore alla carica di segretario generale della Nato. Settembre 2015 nel pieno delle sanzioni europee alla Russia mentre le truppe del Cremlino affluiscono in Siria e nel Donbass, Berlusconi, appare in Crimea al fianco di Putin. Lo schiaffo del serafico Silvio alla diplomazia di Bruxelles è eloquente. L’indirizzo “eclettico” della politica estera di Silvio Berlusconi non è stato esente da pesanti e giustificate critiche. Indispettivano i comportamenti “eccentrici” e poco istituzionali dell’uomo di Arcore. Un vanto del Cavaliere erano le relazioni personali strettissime, vedi Gheddafi e Ben Ali, con capi di stato poco democratici e personaggi dalle smisurate manie di grandezza, come Mubarak. In un suo mondo ideale il Berlusconi statista prospettava alleanze asimmetriche a cui nessuno, per ovvie ragioni storiche e culturali, aveva mai pensato: Roma, Ankara e Mosca. Un asse geopolitico ed economico che agli inizi del nuovo millennio pareva in contrapposizione, in controcorrente, all’impianto dell’Unione europea, quasi una sua antitesi. Impossibile da immaginare fino ad oggi. Dopo il tentato golpe lo schema delle amicizie del Cavaliere prende corpo, le acque della diplomazia del Bosforo e gli assetti strategici globali si invertono, mettendo fine ad odi atavici e innata diffidenza. Lo Zar Putin ed il Sultano Erdogan si avvicinano, dove c’era stato il gelo più assoluto ora sboccia l’amicizia, l’erede di Stalin e quello di Ataturk promettono d’incontrarsi a breve. La memoria corre al 24 Novembre 2015, quando l’aviazione turca abbatteva un aereo russo. Putin minacciava ritorsioni: «Non solo sanzioni, Turchia si pentirà di quello che ha fatto». Pesanti le accuse mosse ad Ankara: «Aiutano i terroristi». Erdogan rispondeva alle critiche del Cremlino con lo stesso tono: «Nessuna scusa». Meno di un anno fa, ma pare un secolo. Un colpo di stato fallito, una repressione durissima e la lettura della storia cambia verità: i piloti che avevano abbattuto il jet russo acclamati eroi nazionali sono diventati traditori, posti in arresto e sotto inchiesta anche per l’episodio menzionato. Difficile trovare un segno di maggiore distensione tra i due, che hanno in comune il disprezzo per la libertà di stampa, per l’opposizione e i diritti delle minoranze. E una certa propensione ad “eliminare” i rivali con metodi sbrigativi e poco democratici. Gli amici del Cavaliere ancora una volta preoccupano l’Europa.
ERDOCRAZIA
Le armi hanno smesso di risuonare sulle rive del Bosforo. Il golpe è durato poco, è vero, la congiura ai danni di Recep Tayyp Erdogan è stata minoritaria, disorganizzata e scoordinata, ma come avviene sempre quando chi doveva essere cacciato riesce a salvarsi la punizione assume la forma, o il pretesto, della feroce rivincita. La linea dura della purga, scelta dal presidente turco e dai suoi fedelissimi, imbarazza il mondo. Preoccupa il persistente caos nel paese, la fase della caccia aperta alle streghe, ai nemici. Quale giudizio attende le centinaia di prigionieri seminudi con le manette ai polsi ammassati in ginocchio nei capannoni? C’è giustificata apprensione. La spirale repressiva del governo turco rischia di alterare la costituzione, la democrazia vacilla. L’introduzione della pena di morte, oramai alle porte, per punire i “traditori” insorti ed estirpare il “virus”, è una misura inaccettabile per lo Stato di diritto, non solo dell’Europa. Cesura ad ogni possibilità d’ingresso nella “casa” per la richiedente Turchia. La congiura ai danni del democraticamente eletto Erdogan è un atto grave, da sanare attraverso la riconciliazione e non con una vendicativa, e forse sommaria, pulizia. È la voce dei capi della diplomazia di USA e Europa. Calma e cautela sono invocati da Bruxelles. L’ambiziosa sfida politica lanciata recentemente da Erdogan di portare stabilità e “ordine” in Medioriente, riallacciando l’amicizia con Gerusalemme e arrivando a paventare un’apertura con Assad, è stata messa a dura prova da un manipolo di avventati militari che si sono fatti scudo della storia e della leadership di Ataturk. “Avvelenato dal suo stesso potere”. “Erdogan in questo momento è ancora più pericoloso di prima, è un dittatore”. È l’opinione di Can Dundar editorialista dissidente del quotidiano indipendente Cumhuriyet. Nelle recondite stanze del palazzo del sultano aleggia la paura, il sospetto. Dietro le quinte forze occulte orchestrano segretamente giochi di potere imprevedibili. E il “sovrano”, inaspettatamente, corre dal nemico di sempre: Mosca. Chiudendo maleducatamente la porta in faccia all’Europa. Una rottura per interessi strategici non coincidenti, verità storiche scomode e inconciliabili tra Vecchio Continente e la Sublime Porta, da una parte la storia dell’umanità e le sue tragedie, dall’altra il negazionismo, la presunzione nazionalista di essere comunque dalla parte della ragione. Invocare la pena di morte per i nemici cospiratori è abominevole quanto aver “cooperato” in questi mesi con il Califfato. Riporre le dovute attenzioni ai diritti umani è un dovere ineludibile per una completa democrazia. Pretendere il “rispetto” per minoranza curda, comunità LGBT, dissidenti politici, profughi e giornalisti è questione di civiltà. Non stiamo affrontando una disputa meramente terminologica, purtroppo. Culturalmente i pilastri fondanti del mito della Turchia moderna poggiano su un nazionalismo di matrice fortemente anti-egualitario che fondendosi con l’islamizzazione radicale rischia di portare il paese ad un’altra crisi interna, una pericolosa regressione. Non è un putsch la soluzione, non può esserlo, è un metodo sbagliato inequivocabilmente. La piazza ha difeso la democrazia da questo “scomposto” golpe ma l’identità turca è oggi troppo fragile, intollerante e violenta per essere inglobata in una casa dalle mura pericolanti e dal pavimento sconnesso quale l’Europa odierna. Finché Ankara e il suo governo non capiranno l’importanza di riconoscersi pienamente nel pensiero europeo gli spazi di manovra per il richiedente inquilino sono minimi, e la porta dell’Europa deve rimanere ben chiusa a chiave.
LA CONGIURA DEL BOSFORO
La Turchia è un paese difficile da interpretare per i continui shock. Il golpe che ha tenuto con il fiato sospeso una nazione, è fallito per due ragioni: la determinazione del popolo e il pressapochismo degli insorti. La congiura di palazzo è stata disorganizzata, male pianificata, al limite della bizzarria, quasi ridicola se non fosse per i morti e feriti. Il timore è che la repressione, già in atto, non sarà altrettanto impreparata e benevola con i nemici di Erdogan. In ogni modo questo evento sancisce la fine di un periodo storico per la Turchia moderna. Dalle cui ceneri nascerà una repubblica neo-kemalista religiosa in superficie ma interiormente laica oppure un sultanato post-kemalista impregnato di radicalismo? La risposta ce la darà il suo presidente Recep Tayyp Erdogan nei prossimi giorni. Innegabile che il politico nato sulle rive del Bosforo esce vittorioso agli occhi del suo popolo. Forte in patria ma indebolito se volesse dettare nuove regole d’ingaggio nelle relazioni con Europa e USA. L’identità turca è molto fragile e anche la sua componente democratica è pericolosamente sollecitata. La Turchia è un crocevia di giochi di potere internazionali, un suk dove non c’è partito preso ma puro realismo. Erdogan impersona questo pragmatismo in modo talmente teatrale da renderlo un personaggio discusso e ambiguo. Fautore di una linea diplomatica sfuggevole e variabile: finanzia Hamas apertamente e, in questi giorni, stringe un accordo storico con Netanyahu. Promette di costruire un ospedale, un desalinizzatore e una centrale elettrica a Gaza. E crea una joint venture con Gerusalemme per l’estrazione del gas. Chiede pubblicamente scusa a Putin per l’abbattimento del jet militare e, per la prima volta, apre a Bashar al Assad. Accusa la Casa Bianca di proteggere il mandante del golpe e usa toni offensivi nei confronti di Papa Francesco sulla questione del riconoscimento del genocidio armeno. Bombarda i curdi siriani. Promette vendette. Propone la cittadinanza ai profughi siriani e tratta sui fondi europei. Invoca la pena di morte per gli insorti e chiede di entrare nella casa Europa. È vittima del terrorismo curdo, di quello islamico e comunista. Nega civile “rispetto” per minoranza curda, comunità LGBT, dissidenti politici, profughi e giornalisti. Vince elezioni democratiche e agisce da Sultano della Sublime Porta. Intrattenere “rapporti” economici e militari con l’esercito del Califfato è stato moralmente, e giuridicamente, delinquenziale. Indiscutibilmente un errore che mette in luce i “mali profondi e oscuri” della sfida autoritaria di Erdogan. Alla fine degli anni ’70 il primo ministro britannico Margaret Thatcher commentava: “Se la Turchia abbandona il suo orientamento occidentale, una serie di disastrose conseguenze (militari) si abbatteranno sull’Occidente”. Allora però incombeva l’ultimo atto della Guerra Fredda, il nemico era l’armata rossa del regime di Mosca. Oggi il problema principale sono le frontiere geopolitiche di Ankara, cerniera tra Europa e Asia, tra Medioriente e Balcani. In mezzo secolo la Turchia è divenuta la seconda potenza militare della Nato, la più grande tra i paesi dell’Europa. I suoi soldati, migliaia, in questi anni hanno servito sotto la bandiera blu con la rosa dei venti. Hanno guidato la missione in Afghanistan: “Pace in patria, pace nel mondo” è il loro motto. Eroi nel mondo e traditori in patria, almeno quel minoritario gruppo che ha partecipato al coup: “Ristabilire l’ordine costituzionale” e “sicurezza generale” era scritto nel comunicato dei militari golpisti. Ma nelle strade di Istanbul la prospettiva dei nostalgici nipotini di Ataturk si è dissolta arrendendosi alla gente fedele al sultano. È forse l’inizio di un nuovo Impero Ottomano? Difficile da credere. Per meglio comprendere gli equilibri ci sarà da attendere che decantino, raffreddandosi, le tensioni di questi giorni. Allora si potrà guardare nella tazza di Erdogan osservandone attentamente i neri residui del caffè, in una lettura che al momento non promette nulla di buono.
LA PACE IN SIRIA PER PAPA FRANCESCO
Siria. Per fare le guerre servono tre cose: soldati, armi e denaro. Per fare la pace una sola: la volontà. “La pace è possibile!” Ripete instancabilmente Papa Francesco e inaspettatamente, in queste ore, anche Ankara apre uno spiraglio: “Stabilità in Siria”. È stata la dichiarazione rilasciata dal neo premier turco Binali Yildirim che ha aggiunto: “sono certo che arriveremo alla normalizzazione delle relazioni con la Siria.” Il governo di Erdogan, dopo il recente attentato di Istanbul, stende per la prima volta la mano a Bashar Al Assad, in un gesto di disgelo che potrebbe avere rilevanti ricadute. Intanto però nel paese dopo 5 anni di guerra non c’è tregua che regge. Esplosioni nel mercato di Idlib, bombe a Homs mentre, ad Aleppo si combatte di nuovo nei quartieri della città vecchia e lungo l’arteria principale per l’entroterra del paese. La Siria oggi, di fatto, non esiste più, quello che rimane è una cartina geografica con tante bandierine colorate che si spostano come il vento. Zone sotto il controllo delle forze governative e quelle in mano agli eserciti antigovernativi, aree che si allargano e poi si restringono nella quotidianità più totale, terre dove spadroneggiano i signori della guerra. Formazioni “rivoluzionarie buone e cattive”, partigiani e fascisti islamici: giovani ragazze curde che combattono per difendere la casa e incappucciati jihadisti con l’obiettivo di portare il mondo sul baratro. Spazio vitale del peggiore fondamentalismo di matrice terroristica: Isis e Al Qaeda. Interessi più o meno velati di mezzo mondo:. In un conflitto che da locale ha assunto il livello di uno scontro globale. In mezzo stretti in una morsa di morte milioni di profughi, ai quali la storia, come ricorda Papa Francesco, ha provocato una “indicibile sofferenza”. Vittime della catastrofe siriana “costretti per sopravvivere alla fuga verso altri Paesi”. E per loro il Vescovo di Roma ha lanciato un nuovo accorato appello, chiedendo una sensibilizzazione nelle parrocchie nella diffusione di un messaggio di unità e speranza: “sostenere i colloqui di pace verso la costruzione di un governo di unità nazionale”. L’azione diplomatica della Santa Sede è in piena attività da mesi, la Caritas internazionalis ha ufficialmente aperto una campagna umanitaria, l’operazione prevede oltre all’invio di generi di prima necessità anche rifugio e protezione alla popolazione stremata. Il pensiero di Bergoglio è per la comunità araba cristiana: vittime dell’odio e delle discriminazioni. Più volte la minoranza cristiana è stata al centro delle parole del Santo Padre che in queste ore invoca un salto di qualità, il passaggio dalle preghiere alle opere concrete: negoziati tra i principali attori di questo eccidio. “Affinché prendano sul serio gli accordi e si impegnino ad agevolare l’accesso agli aiuti umanitari”. In 50 anni di storia la Siria ha avuto due rivoluzioni: la presa del potere del partito Ba’th nel ’63 e la primavera araba nel 2011. Entrambe degenerate in due controrivoluzioni: la prima nel ’70 con l’ascesa del gruppo Alawita e l’instaurazione della dittatura, la seconda con l’attuale massacro civile. Un conflitto intestino drammatico che come crede Francesco potrà terminare solo “con una soluzione politica”, spezzando il nodo gordiano degli opportunismi. Mutuando Ernest Hemingway “in una lotta tra cani non è la stazza ma la ferocia che spesso decide le sorti della sfida”. Per placare le belve che popolano la Siria c’è da mettere molte museruole, rilanciare il ruolo della diplomazia e applicare una risoluzione Onu mai rispettata. Congelata in attesa di un dialogo realistico basato su condizioni etiche.