La battaglia politica del referendum del 16 aprile in Turchia si è clamorosamente spostata in Europa. Le turbolenze della campagna referendaria turca per cambiare la Costituzione e introdurre il presidenzialismo stanno agitando persino la Cancelleria di Berlino. I proclami di ferro e fuoco contro la Germania e l’Olanda definite senza mezzi termini paesi “nazisti” lanciati dal premier Recep Tayyip Erdogan, hanno irrigidito le capitali europee. In ballo qualche punto percentuale che potrebbe diventare decisivo, pesano sulla bilancia i voti di 3 milioni di turchi che risiedono in Germania.
Dai giorni del fallito golpe dello scorso luglio ad oggi lungo le rive del Bosforo si susseguono inganni e trame intrigate, attentati ed epurazioni, che hanno portato Erdogan ha proclamarsi pro-tempore sultano della Sublime Porta. E pur di non perdere è disposto a giocare tutte le carte, arrivando ad imporre una stretta ulteriore, alla libertà di stampa. Per i giornalisti non allineati alla propaganda di governo la porta dei tribunali è subito dietro l’angolo. La rinascita dell’impero ottomano resta tuttavia una pura illusione, coltivata negli anni di governo dallo stesso nostalgico leader e dal suo partito religioso AKP. Formazione politica riproduzione, più o meno fedele, del movimento dei Fratelli Musulmani egiziani e delle sue emanazioni in Medioriente.
Le affinità con la fratellanza sunnita hanno tuttavia preso un indirizzo diverso da quello iniziale, quando Erdogan apertamente sosteneva, anche economicamente, il regime di Hamas a Gaza, e Mohammed Morsi al Cairo. Allora le invettive di Erdogan non erano rivolte all’Europa o agli USA ma bensì ad Israele e alla Russia. I tempi cambiano in fretta, e chi ieri era un nemico giurato nel valzer trumpiano della diplomazia si è trasformato in un amico, un partner economico, un alleato militare. Un passaggio frutto dei tempi che corrono drammatici in Turchia e non solo. Il prossimo aprile il popolo turco sarà chiamato a decidere tra una repubblica parlamentare o legittimare poteri speciali alla sua guida politica, due strade divergenti.
Se approvata la nuova Costituzione, tra le altre cose, prevede l’abolizione del Primo ministro e il passaggio delle funzioni al Presidente, il quale godrà di ampia autorità anche sulla magistratura. Il disegno di legge inoltre spiana, di fatto, ad Erdogan la strada per restare sulla poltrona di sultano sino al 2029. La Turchia rischia una deriva autoritaria non indifferente su cui Bruxelles dovrebbe riflettere, prendendo le dovute contromisure in tempo. L’Europa, in questi anni, ha tollerato, per quieto vivere più che per altre ragioni, relazioni sbilanciate a favore di Ankara nella speranza di allargare le frontiere dell’Unione. L’idea di inclusione civile è scaduta.
La frattura tra la Turchia e l’Europa è siderale, purtroppo non minore di quella che la separa da una società libera e democratica. Migliaia di dipendenti statali e accademici sono stati allontanati in questi mesi dal loro posto di lavoro, nel Paese è diffuso un clima di paura, ampliato dalla minaccia di nuovi attacchi terroristici. Una Turchia tra l’incudine e il martello, con in atto un processo di fusione tra stato e religione attraverso il partito unico guidato dall’uomo forte, con l’autoritario controllo degli apparati e la drastica riduzione degli spazi del dissenso democratico.
Per Erdogan la consapevolezza di essere espressione “sublime” di una nuova oligarchia economica e militare, forse maggioranza nel paese. Per l’Europa la responsabilità di non restare fragile e scomposta. Intanto, con la stampa sempre più imbavagliata, nella turistica cittadina di Mugla nelle scorse settimane ha avuto inizio il processo ai congiurati accusati di aver complottato per uccidere il presidente Erdogan. Alla sbarra decine di persone che, forse, hanno pensato di eliminare un presidente e invece assistono dal carcere all’incoronazione di un sovrano che non ha nessuna pietà.
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L’IGNORANZA TRUMPIANA SU ISRAELE E PALESTINA
Quando nel 2010 Benjamin Netanyahu si presentò a colloquio alla Casa Bianca il padrone di casa non degnò, il primo ministro israeliano, del picchetto di onore e lo fece entrare da una porta secondaria. In quell’incontro che non lasciò notizia, quasi non fosse mai avvenuto, lo scontro tra i due leader ebbe toni pesanti, così raccontano i ben informati. Nessuna stretta di mano immortalata da foto di rito, nemmeno la classica amichevole conferenza stampa congiunta. I dissidi tra Obama e Netanyahu hanno avuto picchi di tensione altissima, ciò tuttavia non ha alterato lo stretto legame tra i due paesi, al contrario l’impegno americano in favore di Israele non è mai venuto meno, anche se il premier israeliano scaltramente, ha sempre lasciato passare il messaggio opposto al fine di screditare Obama e la sua visione. Sulla questione della Terra Santa l’ex presidente afroamericano aveva un’idea apertamente contraddittoria con l’indirizzo politico espresso dal governo di Netanyahu: possiamo accettare, praticamente, tutto, tranne il prolificare degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. Ovviamente durante tutto il ciclo obamiano “il falco” della Knesset si adoperò per autorizzare altre colonie, facendo orecchie da mercante ai richiami di Washington. In realtà l’approccio di Obama all’eterno conflitto mediorientale non aveva nulla di nuovo, era in linea con quello dei suoi predecessori, a partire da Carter e sintetizzabile nel motto: porre le basi per la creazione di uno stato palestinese e assicurare la sicurezza di Israele. Clinton e Bush junior rafforzarono questo assioma, lavorando alacremente al processo di pace e organizzando una serie di incontri trilaterali dalle tante, troppe, aspettative. L’agenda della diplomazia statunitense, a prescindere dal partito di appartenenza del presidente e dai risultati raggiunti, era scritta in calce. Uno spartito passato di mano in mano agli inquilini della Casa Bianca. Per buttare al vento decadi di diplomazia internazionale in Medioriente è bastata una frase banale di Trump durante una conferenza stampa, nei giorni scorsi, al fianco dell’amico sodale Netanyahu: uno o due stati per me non fa differenza. Aggiungendo: decidano loro. L’ignoranza trumpiana, perchè di questo si tratta, lascia sgomenti. Com’è possibile trattare con tanta leggerezza una questione così intrigata e complessa? E che alla fine alimenta solo violenza. Il magnate newyorkese in pochi secondi ha smantellato l’impalcatura che reggeva il sogno di poter aver, un giorno, uno stato di Palestina in pace e limitrofo con Israele. Due popoli per due stati non è più una priorità delle trattative, non è più il faro nel mezzo di una tempesta implacabile. La soluzione dei due stati non è solo una voglia del momento o un castello di sabbia, è una lunga e tortuosa strada che nasce da un consensus internazionale su di una formula strategica per porre le condizioni di una pace futura: la Terra Santa è di entrambi, palestinesi ed israeliani, così come Gerusalemme. E se si vuole spingere per riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele, allo stesso tempo si dovrebbe almeno concedere che la parte est della città Santa diventi la capitale dello stato palestinese. O no? Trump, al solito, naviga nella vaghezza, scimmiotta, è sconcertante: al momento si è impuntato per spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, sfidando l’ONU. Una chiave di lettura delle affinità e influenze della destra israeliana su Trump è certamente da cercare nei consigli del genero Jared Kushner, un pontiere tra Gerusalemme e Washington, è stato lui ad aprire la linea di credito di Netanyahu sul suocero. L’obiettivo immediato di Netanyahu è definire una stretta alleanza con il mondo arabo “moderato”: Egitto, Giordania e stati del Golfo. Più o meno dittature al pari del vero nemico di tutti, l’Iran. Il mondo arabo ora dovrà scegliere se abbandonare al loro destino i palestinesi per frenare l’espansionismo persiano nella regione. E c’è da credere che Trump giocherà un ruolo centrale.
I TERRORISTI DEL CALIFFO ALLE PORTE DI GERUSALEMME
Nel 1947 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la risoluzione 181 con un piano di partizione della Terra Santa, nel tentativo di risolvere il conflitto tra arabi ed ebrei scoppiato nella regione: il mondo arabo scelse la risposta peggiore. Settant’anni dopo attendiamo ancora la nascita di uno stato palestinese: democratico, indipendente e sovrano. C’è qualcuno che crede che ciò possa avvenire nel 2017? Obiettivamente pensiamo che solo un miracolo possa appianare uno dei conflitti più lunghi della storia. La situazione politica interna alle due realtà, palestinese ed israeliana, è talmente e palesemente compromessa da non permettere spiragli positivi: la destra nazionalista israeliana al governo, le criticità di Fatah e la dittatura di Hamas a Gaza, la prospettiva del radicarsi dell’Isis, la visione di Trump.
Eli Kaufam editorialista del Jerusalem Post, recentemente ha scritto nel suo blog non un commento di fisica quantica, ma una riflessione filosofica sull’era che ci attende: «Possono causa ed effetto andare indietro nel tempo? Nella realtà delle cose può il futuro determinare il passato? …. Se il futuro fosse in grado di determinare il passato, allora con un futuro meraviglioso quello che ci attenderebbe sarebbe un presente radioso, perché abbiamo già visto il passato e non era così bello.»
Nel contesto della Terra Santa gli errori del passato, effettivamente, sono stati troppi, determinando il presente e il futuro: culturalmente ma sopratutto politicamente il mancato riconoscimento dell’altro, da entrambi le parti, è ancora un aspetto sconcertante della questione israelopalestinese. Sicurezza, diritti umani, confini definiti per due stati per due popoli sono sempre stati l’obiettivo primario della Comunità internazionale. La cartina geografica più diffusa della Terra Santa è ferma al ’67, attualmente quindi è obsoleta. A prescindere dal caso in cui si creino le condizioni per uno stato binazionale, che si opti per una sorta di stato federale o meno, ci vorranno intense trattative e lunghi trattati. Oppure ciò che ci aspetta sono barriere, occupazione e terrorismo? La matita che dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra palestinesi ed israeliani è oggi spuntata, e Trump è pronto a strappare i fogli su cui disegnare.
Nei prossimi giorni a lasciare un segno sul quadro mediorientale ci proverà il presidente francese Francois Hollande, lontano dalla ricandidatura ha deciso di affrontare, senza troppe pretese, il nodo gordiano del conflitto israelopalestinese, invitando a Parigi per il 15 gennaio i rappresentanti di 70 stati. L’iniziativa parigina è l’ennesimo tentativo di alimentare il percorso di due stati per due popoli. Un summit accolto favorevolmente da Abu Mazen, presidente senza consenso, ma non da Netanyahu, primo ministro in bilico. A Parigi non ci saranno strette di mano tra nemici. In realtà c’è però un certo interesse per quanto presenteranno le tre commissioni che da mesi lavorano ad una road map. Ciascuna analizzando una differente prospettiva: la struttura delle istituzioni palestinesi, il contributo economico, in particolare quello europeo, e infine la partecipazione della società civile al processo di pace. L’ultimo attentato sulla promenade di Gerusalemme, e la folla a Gaza in visibilio per il martirio dell’attentatore; le minacce alla giuria e le proteste di piazza al processo contro il soldato israeliano che freddò un prigioniero palestinese; le vignette pubblicate qualche giorno fa dal quotidiano Al-Hayat Al-Jadida che mostravano soldati dell’esercito israeliano uccidere Babbo Natale; i nuovi insediamenti israeliani. Dipingono un presente senza futuro.
LE VICENDE TURCHE
La Turchia è attraversata da un’ondata di violenza inaudita, una catena di attentati che minano la coesione sociale, e dimostrano una pericolosa fragilità dello stato. La fredda mano del giovane folle attentatore che colpisce alle spalle il plenipotenziario di Putin è l’ennesima dimostrazione della fragilità di Ankara. L’enigmatico scenario ha una spiegazione nell’ascesa di Recep Tayyip Erdogan. L’uomo forte di Istanbul salito al potere nel 2003 ha saputo allargare e radicare il proprio consenso in particolare tra la classe media del paese, proponendosi agli occhi e alle tasche della gente come garante incondizionato e soprattutto incontestabile. E così il liberismo islamizzante di Erdogan ha corretto il percorso democratico e laicizzante che avrebbe dovuto portare la Sublime Porta dentro i confini di una nuova Europa. Deviando dagli obiettivi di una grande unione per il progresso e la civiltà: il ponte strategico tra Occidente e Oriente rischia di non essere inaugurato, almeno a breve. Il governo turco ha mostrato al mondo il vero volto di un sultano vendicativo e con lo sguardo al passato: deciso a consolidare il potere personale e allo stesso tempo impegnato a sopprimere il dissenso interno in modo drastico. Mentre il Bosforo sprofondava nel caos tipicamente mediorientale, il terrorismo insanguinava i luoghi pubblici e i militari occupavano i ponti, Erdogan adottava la repressione autoritaria ed estendeva le sue ingerenze sulla regione. Il fallito golpe del 15 luglio, per quanto ingiustificabile, ha avuto l’effetto di rendere la preda a sua volta uno spietato cacciatore. La vittoria schiacciante del leader turco, dovuta sostanzialmente alla discesa in campo del popolo, ha avuto una portata maggiore di un successo elettorale. Gli argini della democrazia e dei diritti umani sono stati spazzati via non con voto plebiscitario ma per acclamazione della piazza. Il giro di vite, il governo che ordina di imprigionare decine di migliaia di presunti golpisti e persone vicine a colui che sarebbe secondo Erdogan il vero ispiratore delle manovre di destabilizzazione, la guida spirituale Fethullah Gulen. La drammatica epurazione tra le fila dell’esercito e della burocrazia, il sistematico arresto di giornalisti non allineati, la sospensione di accademici e insegnanti, sono state le risposte di Erdogan ai propri nemici. E la fine di vecchie amicizie. Una cosa che ancora oggi sfugge è il fatto che, alla vigilia del colpo di stato, nessuno abbia potuto prevedere che la Turchia sarebbe scivolata nel dramma del Medioriente, assorbita dal vortice di violenza. Il senso comune era che in fondo Ankara è sempre stato un fraterno alleato politico e militare dell’Occidente, un muro all’espansione russa, un affidabile referente nelle tribolate questioni arabe. In pochi sospettavano che Erdogan volesse realmente costruire uno stato islamico sunnita e che tentasse di portare in vita il sogno del ritorno dell’Impero Ottomano, la convinzione più diffusa era che avrebbe preservato l’ordine sociale, con scelte conservatrici ma mantenendo in piedi la struttura dello stato turco costruito da Kemal Ataturk. Così non è stato. Ed oggi la Turchia è un concentrato pronto ad implodere. Con un parlamento senza opposizione e gli effetti della crisi siriana oramai dentro casa. Con la morsa del terrorismo, vuoi per mano dei fondamentalisti dell’Isis o per quella della minoranza curda del PKK e delle sue cellule più o meno affiliate. Le recenti stragi di Istanbul e in Cappadocia rafforzano ulteriormente l’impressione che la Turchia isolandosi è diventata sempre più debole, insicura e instabile, e che le geopolitiche di Erdogan, spinte sino all’alleanza con l’ex nemico Putin, non sono in grado di riportare tranquillità, sviluppo e pace. Il sultano dovrà presto decidere se dispiegare le armate dei giannizzeri ai quattro venti del Vicino Oriente oppure avere una numerosa rappresentanza al parlamento europeo. Le due strade oggi sono incompatibili. E le minacce all’Europa non sono più ammesse.
TRUMP E LA SIRIA
Trump tratta la politica estera come lo stereotipo del giocatore di poker che con sigaro in bocca e bicchiere di whisky in mano rallegra il tavolo da gioco con battute demenziali e scadenti, quanto stia in realtà bleffando, in questo periodo di transizione, lo scopriremo ben presto. Indubbiamente il protrarsi di toni bellicosi nelle concitate settimane che hanno seguito l’esito elettorale non sono di buon augurio, ma la troppa vaghezza e le sintomatiche contraddizioni sul Medioriente potrebbero alla fine spingerlo a più ragionevoli consigli, ovviamente se ci saranno delle colombe e non dei falchi a suggerirgli all’orecchio cosa dire e fare. Delle simpatie del successore di Obama per taluni discutibili leader mondiali già sappiamo abbastanza, personaggi politici che se in Europa non fanno rabbrividire almeno diciamo che non lasciano sogni tranquilli a metà delle capitali del Vecchio Continente. Come non citare ovviamente la quasi referenziale ossessione di Trump per Putin. Vigilia di amichevoli incontri in qualche dacia nelle sperdute tundre caucasiche o in un ranch nel far west, tra abbracci, colbacchi e cappelli da cowboy, fucili da caccia e cartine geografiche da ridisegnare con nuovi confini. USA e Russia restano, ad oggi, le uniche forze in grado di imporre un piano di stabilizzazione per il Medioriente o almeno di risultarne in modo determinante l’ago della bilancia. La sintonia tra la retorica populista del neo presidente della più grande potenza al mondo e la visione imperiale dello zar del Cremlino sono una metamorfosi geopolitica verso la creazione di un nuovo ordine mondiale. Dove la futura collaborazione tra Donald e Vladimir aprirebbe, per ricaduta, uno spiraglio di sopravvivenza al regime di Bashar al-Assad in Siria, a quel punto uomo forte e presentabile alla comunità internazionale come male minore rispetto al caos dilagante e alla presenza dell’Isis nell’area. Eppure più che grande statista amato e adorato dal suo popolo Bashar è un tiranno che massacra e affama la sua gente, tortura gli avversari, rade al suolo interi villaggi. Un leader impresentabile che ha provocato immani sofferenze. L’assedio di Aleppo è il simbolo di un ignobile capitolo della disumanità che si protrae giorno dopo giorno in Siria. Una guerra civile che non risparmia nessuno, dove non c’è tregua o bandiera bianca che venga rispettata: scuole, asili e ospedali sono un bersaglio quotidiano. In Siria c’è una guerra resa ancor più schifosa dall’indifferenza internazionale. In quella regione martoriata l’integralismo islamico ha trovato linfa vitale e creato il suo falso mito, elevandolo a fine supremo. Anche se le milizie del califfato sono in ritirata su quasi tutti i fronti, lasciando dietro di loro una scia di sangue, la battaglia finale è lontana. E nessuno oggi è in grado di predire cosa sorgerà dalle ceneri di questo scontro, non siamo nell’Olimpo greco o nel Valhalla vichingo, siamo nel mondo terreno attraversato da distruzione e dall’incubo di ideologie aberranti. Credere che Trump possa essere la soluzione di tutti i mali non è una fiaba ma una barzelletta di pessimo gusto. Forse però non è nemmeno ciò che da lui pretendono i suoi elettori americani e i suoi sostenitori fuori dai confini statunitensi, in fondo a lui chiedono tutt’altro, qualcosa di assai semplice, appariscente e pacchiano: erigere un muro che impedisca di vedere altrove, porre un velo su quanto avviene oltre il loro piccolo recinto quotidiano. Allora è lecito ancora una volta domandarsi cosa effettivamente farà Trump una volta insediatosi nell’ufficio ovale per risolvere la catastrofe siriana? Agli occhi degli analisti scettici l’indirizzo dell’era trumpiana in Medioriente si preannuncia come benzina sul fuoco di un contesto già altamente esplosivo, oggi purtroppo partiamo da qui.
IL MONTE NEBO E IL FRATE ARCHEOLOGO
Il Memoriale di Mosè sul Monte Nebo in Giordania ha aperto le porte al mondo, il santuario francescano della Custodia di Terra Santa è tornato a splendere al pubblico in una nuova veste. Pochi giorni fa l’inaugurazione, la celebrazione religiosa ed una festa. Con un concerto nella basilica dove è stato installato per la prima volta uno strumento dal suono magico, un organo a baule opera dell’artigiano pisano Nicola Puccini: “Un piccolo strumento molto compatto ma di grande sonorità e dalle svariate sfumature, che ho costruito personalmente nel mio laboratorio a Migliarino Pisano nella tenuta Salviati e poi spedito ad Amman per essere trasportato e collocato definitivamente nella basilica”. Se il Memoriale di Mosè ha assunto una sua precisa caratterizzazione sia come luogo di pellegrinaggio che di sito archeologico lo si deve all’immenso lavoro di padre Michele Piccirillo: il frate archeologo, l’uomo che parlava alle pietre, l’Indiana Jones con il saio come è stato descritto in molti libri. Nel corso degli anni Piccirillo ha portato alla luce restaurando alcuni tra i più importanti mosaici della Terra Santa. Avviando l’opera di ricostruzione del sito giordano con energia e straordinaria competenza, nel solco della tradizione francescana iniziata da padre Virgilio Corbo anni prima. Padre Michele si è spento il 26 Ottobre del 2008 a Livorno all’età di 64 anni, a causa di una devastante malattia e oggi riposa tra le pietre del Monte Nebo, nella sua “amata casa”. Il lavoro di conservazione e protezione delle rovine dell’antico monastero, inclusi i meravigliosi mosaici, è continuato dopo la scomparsa di Piccirillo tra mille difficoltà e ritardi. Come ci ha raccontato Carla Benelli, storica dell’arte e assistente di Piccirillo: “Il Memoriale è spettacolare e i resti antichi sono protetti e valorizzati in modo eccellente. All’inaugurazione la gioia dell’apertura e la bellezza del luogo hanno creato un’atmosfera magica. Ho vissuto la giornata con un profondo senso di gratitudine per Padre Michele, pensando a come tutto il nostro lavoro di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale della regione sia stato avviato da lui, sentendo la sua forte presenza ma anche con grande nostalgia, per l’insostenibile peso della perdita”. Anche per chi scrive quel piccolo frate è stato un pozzo di nozioni ed un caro amico. Maestro severo ma dal carattere amabile e spiritoso. Inseparabile dal suo taccuino, dove fino all’ultimo ha scritto appunti o disegnato schizzi. A molti raccontava con parole semplici il suo stato d’animo durante gli scavi al Nebo. Quando sentiva che il mosaico era vicino fermava tutti e da solo proseguiva il lavoro: “prendeva in mano la cazzuola e delicatamente toglieva la terra, fino a che non arrivava a quella superficie dai mille colori”. Una persona indimenticabile che ha saputo, con lungimiranza, intuire le vie del dialogo da percorrere attraverso la storia, la cultura e la fede.
GAS RUSSO PER LA TURCHIA DI ERDOGAN
Mentre la Russia dello zar Putin sogna di riportare in auge il passato imperiale ed exsovietico, la Turchia del sultano Erdogan inverte alleanze storiche e definisce un nuovo percorso geopolitico, alternativo a Bruxelles e a Washington nel nome di una strategia unitaria con Mosca. Il primo passo concreto è avvenuto a margine del World Energy Congress di Istanbul che si chiude oggi, quando il presidente russo e il suo omologo turco hanno firmato un patto sulle energie, avviando la costruzione di un gasdotto. Il 1° dicembre del 2014, BOTAŞ, l’azienda statale turca e Gazprom siglarono un memorandum d’intesa per la costruzione di un nuovo gasdotto offshore denominato Turkish Stream. Il progetto sostituiva una ipotesi precedente caldeggiata da alcuni paesi europei, il South Stream. L’accantonamento di South Stream aprì di fatto la strada alla partnership del colosso turco e di quello russo per questo progetto, che ha navigato in acque anche burrascose con qualche reciproco sgambetto e pesanti sospensioni, spesso indotte da difficoltà politiche tra Mosca e Ankara. Il piano imprenditoriale di Turkish Stream è raggiungere la capacità di trasportare 63 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla Russia alla Turchia, entro il 2019. L’accordo prevede la costruzione di due linee o “gambe” sul fondo del Mar Nero, con un investimento stimato intorno ai 12 miliardi di euro. Per Mosca il progetto Turkish Stream ha molti aspetti positivi al contrario dell’antico progetto del gasdotto South Stream che presentava maggiori costi realizzativi, introduceva questioni ambientali e normative difficili da prevedere. Inoltre il gasdotto pone le condizioni affinchè Gazprom diventi leader del mercato turco, scalzando di fatto il dominio tedesco. Gli effetti “indiretti” legati all’operazione Turkish Stream passano dal settore economico con un mercato prezioso dove far confluire i prodotti bloccati da embargo, al piano militare, con un alleanza anti Isis in Siria, per riflettersi a livello diplomatico con un indebolimento della Nato. Che le relazioni tra Erdogan e Obama fossero profondamente incrinate, dopo il mancato golpe, era stato chiaro al vertice del G20 di Hanghzou, dove il primo presidente afroamericano con la testa reclinata in segno di sconfitta e stanchezza riceveva da Erdogan uno stucchevole buffetto. Altra cosa le strette di mano e gli abbracci tra Erdogan e l’amico Putin. Barack Obama lascerà presto la Casa Bianca in una fase molto delicata dei rapporti internazionali. Gli USA sono ancora la più grande superpotenza del mondo, ma il loro potere, o strapotere, è apertamente messo discussione. L’acutizzarsi della tensione con la Russia per questioni quali Ucraina, Siria, e non solo, mette indietro le lancette dell’orologio, esattamente ad un quarto di secolo fa quando sfogliavamo gli ultimi capitoli della Guerra Fredda. Perdura sin da allora un movimento di riequilibri globale inarrestabile. Obama dal suo incauto predecessore George W. Bush aveva ereditato una montagna di “panni sporchi”: l’Iraq compromesso, lo scenario afghano devastato e il processo di dialogo israelopalestinese congelato. Nel suo mandato scoppieranno le rivolte di piazza, la primavera araba con le sue rivoluzioni e controrivoluzioni. Siria e Libia si trasformano in criticità interminabili e ingestibili. Il dramma dei profughi deflagra. Il terrorismo è quotidianità. L’Europa stenta sfumando in dissolvenza. Indubbiamente la governance di Obama ha sofferto “forti sollecitazioni”. Ma la visione di questo presidente è stata pur sempre una via progressista e, a tratti, illuminante, più di una pipeline.
Siria, caschi bianchi da Premio Nobel
In Siria tra esplosioni, distruzione, cumuli di macerie, polvere e sangue nel buio del terrore compaiono degli spiragli di luce, sono “angeli” i volontari di varie associazioni umanitarie che aderiscono alle Forze di difesa civile (SCDF), gente comune che corre in aiuto dei propri connazionali per salvare, quando possibile, delle vite umane. I volontari del SCDF hanno in questi anni raccolto stima e gratitudine da tutte le parti in conflitto ma, allo stesso tempo, ricevuto anche la critica di parteggiare esplicitamente per i rivoltosi contro il regime e di essere sostenuti da britannici, americani e turchi. Sono disarmati e diplomaticamente neutrali, impugnano vanghe e zappe, scavano per ore per estrarre gli intrappolati tra i detriti. Non guardano la bandiera politica o l’appartenenza religiosa, soccorrono tanto i seguaci quanto i nemici del regime di Assad. Perseguendo il motto, citato nel Corano: «salvare una vita è salvare l’umanità». Cittadini qualunque: panettieri, maestri, sarti, ingegneri, operai, medici. Raggiungono le 3mila unità e sono dislocati in quasi tutto il paese per portare soccorso a rischio costante della propria sicurezza. Tra loro anche una sessantina di donne, addestrate in tecniche di pronto intervento e salvataggio, fianco a fianco con i colleghi maschi, sfidando le tradizioni: «Da sotto le macerie una società nuova sta emergendo». Hanno salvato oltre 60mila persone ma il numero è destinato a crescere in queste ore di acutizzarsi delle violenze. Non sono invulnerabili ai proiettili e lo dimostra la triste nota che decine di loro sono morti, molti hanno perso la vita durante il drammatico interminabile assedio di Aleppo, l’evento bellico che gli ha dato notorietà internazionale e le prime pagine dei giornali. Indossano un casco bianco, è il loro segno distintivo. Spesso portano una mascherina sul volto, delle cuffie e una piccola telecamera sulla visiera. L’organizzazione è da tempo impegnata a denunciare l’uso delle barrel bomb. «I siriani perdono la vita per colpa di diverse tipologie di armi da fuoco, ma quelle più letali sono le barrel bomb a causa della loro natura indiscriminata». Queste le parole pronunciate da Raed Saleh, leader dei The White Helmets, al recente Consiglio di Sicurezza del Palazzo di Vetro. Gli uomini dal casco bianco sono un embrione di protezione civile, spontanea ed emblematica. Un simbolo di speranza. Sfidano i cecchini, le mine e i bombardamenti. La candidatura dei caschi bianchi siriani è in corsa per la massima onorificenza del Premio Nobel per la Pace, sono ore di attesa e Venerdì mattina a Stoccolma sapremo se ce l’avranno fatta. In appoggio alla loro candidatura si sono mossi i più famosi attori di Hollywood, da George Clooney a Susan Sarandon e Daniel Craig. Le possibilità che i caschi bianchi possano essere insigniti sono alte. Tuttavia le indiscrezioni danno per favoriti Juan Manuel Santos, il presidente colombiano, e Rodrigo Londoño, il leader dei guerriglieri marxisti delle Farc, che pochi giorni fa hanno siglato uno storico accordo di pace per porre fine all’ultimo grande conflitto dell’America Latina, dopo 50 anni di guerra civile e decine di migliaia di vittime. In Siria, durante questi cinque anni di guerra i media hanno raccontato storie di un conflitto da altre prospettive, abbiamo assistito alla resistenza di Kobane, all’ingresso delle bandiere nere del califfo a Palmira, agli aerei russi e ai carri armati turchi. Abbiamo visto i profughi, una marea umana, in fuga per disperazione ammassarsi sui gommoni. E poi piano piano i riflettori hanno incominciato ad accendersi su di loro, “impensabile” la notizia della candidatura al Nobel e in “contemporanea” l’uscita su Netflix di un cortometraggio, dedicato a questi “eroi qualunque”. In un genocidio senza fine, “se non sono i siriani a salvare i siriani chi altro lo farà?”. I caschi bianchi contribuiscono a dare un salto di notorietà straordinario ed un’immagine nuova alla Siria, un messaggio a cui non si può essere indifferenti.
L’ASTENSIONE FRENA I MURI DI ORBAN
Il vento dell’illusione populista soffia sulla crisi internazionale ma con meno intensità, anche se le isterie xenofobe evidenziano il doloroso vuoto dell’azione degli stati membri dell’Ue nell’affrontare l’emergenza migranti: ancora una volta gli interessi dei singoli prevalgono sulle scelte d’indirizzo comunitario, sul diritto umano e la solidarietà. In un quadro politico disgregato e febbricitante i valori che hanno portato alla costruzione della casa comune si sfaldano difronte a piccoli numeri: le quote dei migranti da distribuire tra i paesi diventano strumentalmente oggetto di una diatriba apparentemente irrisolvibile. L’Ungheria per “fermare” il piano di accoglienza di Bruxelles ha scelto il passaggio referendario, chiedendo ad oltre 8milioni di elettori di esprimersi: “Vuoi che l’Unione europea possa prescrivere l’insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento?”. Promotore del NO il governo di matrice nazionalista guidato da Viktor Orbàn. L’opposizione ha preferito, invece di appoggiare il SI, invitare gli elettori a disertare le urne per non raggiungere il quorum. Giocando la partita, per invalidarlo, della soglia d’affluenza inferiore al 50%. I dati, poco sopra il 43%, hanno punito Orbàn e il risultato finale ha ribaltato l’esito scontato iniziale. Tuttavia, il referendum nasceva con un doppio vizio di forma: la possibilità per ciascun stato di ritagliarsi uno spazio esterno rispetto alle decisioni di Bruxelles e la facoltà arbitraria di lasciare alla porta chi chiede aiuto. In Ungheria, i contrari alla convocazione popolare hanno sostenuto la tesi che si è trattato di una mossa politica del governo per “distrarre” l’opinione pubblica dai fallimenti e dal perdurare della crisi economica. La schiacciante vittoria, seppur non plebiscitaria, del fronte del NO pone Viktor Orbàn come punto di riferimento nel campo dell’estrema destra europea ma lo ridimensiona agli occhi della sua gente. Il primo ministro ungherese a differenza del britannico Nigel Farage non ha nessuna intenzione di uscire dall’UE o cavalcare l’ondata secessionista, gode di maggiore popolarità del collega e, al contrario del fondatore dell’Ukip, mira a rafforzare il suo peso negli assetti del Vecchio Continente. Orbàn propone la costruzione di una nuova Europa salvando i simboli peggiori della vecchia, propaganda l’alternativa illusoria dell’isolamento, aspira a sostituire la democrazia liberale di Roma, Atene, Parigi e Berlino con la politica reazionaria di Budapest. Teorizza un rigido e antistorico processo di “controrivoluzione culturale” del continente, introducendo un modello che prediliga l’avvento dell’uomo forte al potere. Segue l’esempio della deriva antidemocratica di Vladimir Putin in Russia e di Recep Tayyip Erdoğan in Turchia. E ovviamente ammira Donald Trump, icona di un futuro attraversato da deprimenti muri in stile Legoland con l’aggiunta di filo spinato e sorveglianza armata. «La politica estera sostenuta dal candidato repubblicano Trump è un bene per l’Europa e vitale per l’Ungheria». Quella di Orbàn è la più classica, e scontata, recrudescenza populista: “i migranti sono un veleno di cui non abbiamo bisogno”. Purtroppo un sentimento razzista illogico che in questi tempi si diffonde rapidamente e trasversalmente nei paesi sviluppati e democratici, infuocando le campagne elettorali. La destra europea più estrema si innamora, inebriata dalla retorica antica e dalle politiche visionarie, di questo leader autoproclamatosi “custode delle frontiere” della cristianità. Fautore di una disciplina organica per il respingimento dei flussi migratori, distruttore della sinistra e catalizzatore della destra. Una luce effimera che non ha, per fortuna, raggiunto il quorum. I cittadini ungheresi si sono svegliati dal torpore ed hanno fermato una deriva dannosa, accendendo il semaforo rosso per i Trump di mezzo mondo.
IL NONNO DI ISRAELE
Zona del vecchio mercato di Giaffa a Tel Aviv. È mattina quando entriamo nella stretta viuzza che porta al caratteristico ristorante dove è fissato l’appuntamento. Lui è già lì sulla porta accerchiato dalla scorta e con il menù del cibo in mano. Era arrivato all’incontro con qualche minuto di anticipo o forse eravamo noi in ritardo di poco. Vestito elegantemente con una cravatta sgargiante e molto giovanile. Lo sguardo è impenetrabile ma la dialettica sciolta. Il pensiero invece è rivolto al piatto che ordinerà per colazione: la shakshuka. Che la sua attenzione sia tutt’altro che per noi appare chiaro a tutti all’arrivo delle padelle fumanti, per ciascuno 4 uova, pomodori, peperoni etc etc. Lascia di stucco osservarlo mentre annusa a pieni polmoni prima di inzuppare una fetta di pane nel pomodoro bollente e portarla famelicamente alla bocca, il “nonno di Israele” dagli occhi eternamente ragazzini e birichini è pienamente soddisfatto, sprigiona felicità. In fondo è lui al centro dell’interesse, non potrebbe essere diversamente se sei seduto allo stesso tavolo con uno statista mondiale e premio Nobel per la Pace. Tuttavia anche nell’incontro precedente il politico israeliano aveva dimostrato il suo volto umano e la propensione al convivio. Questo è lo Shimon Peres che abbiamo conosciuto. Quella sera d’autunno del 2004 al banchetto preparato nel locale sulla marina di Tel Aviv aveva “duellato” per una bottiglia di vino rosso. Inizialmente aveva resistito al tentativo di “esproprio” da parte di una politica italiana con una salda presa al collo di vetro per poi cavallerescamente cedere, a malincuore, l’ottimo Yarden di annata. Altre volte lo abbiamo incrociato nel ristorante marocchino Darna di Gerusalemme confermando la nostra idea sulla sua passione per il buon vino e la cucina maghrebina. È cosa nota che persino Ariel Sharon avesse una preferenza smodata per il kebab, tanto che quella ricetta tipicamente mediorientale gli sarebbe stata sottoposta come terapia olfattiva durante il lungo stato di coma da cui non si sarebbe mai svegliato. Entrambi questi attori, criticati, hanno segnato la storia recente della Terra Santa. Erano legati da una vera amicizia che li porterà nell’ultima parte della loro vita a fondare insieme un partito, loro che per anni sono stati seduti su sponde diametralmente opposte. Un rapporto certamente meno complicato della rivalità con Rabin: alla base della quale c’è stata, è bene ricordarlo, la lotta di potere per la leadership del centrosinistra israeliano. Per decenni i due leaders del partito laburista si sono confrontati con intensità, sfociando in conte interne quasi sempre a favore di Rabin. Peres dal canto suo era lontano dalle dinamiche di partito e non ha mai goduto della popolarità di Rabin. Preferendo la fama e il riconoscimento internazionale. Shimon Peres è stato una figura di spessore, ha ricoperto tutte le più importanti cariche istituzionali del suo paese, è stato un fine diplomatico e tessitore di trattative impensabili, ma discusso sino alla fine: ha sposato il nazionalismo patriottico e l’apertura alla globalizzazione; è stato un uomo di guerra e di pace; ha lavorato perchè l’esercito con la stella di Davide avesse la supremazia militare nella regione – con tanto di bomba atomica – e ha creato una fondazione per il dialogo con il mondo arabo che porta il suo nome. È stato uno dei fautori della politica di sviluppo degli insediamenti coloniali in Cisgiordania e ha perseguito il progetto di pace con i palestinesi costruendo personalmente l’impalcatura degli accordi di Oslo. Amava circondarsi dei grandi del pianeta dai Clinton a Mandela, Gorbaciov era spesso suo ospite, non nascondeva simpatia per Veltroni, con Papa Francesco ha legato profondamente. Nel Giugno 2005 ad un galà della sua fondazione fece un ingresso degno di una rockstar. Manifestava teatralmente una innata capacità politica, con un certo egocentrismo. Non mancava di citare il trionfo di Oslo, purtroppo, oggi definitivamente sepolto.