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#freeGabriele

Aderiamo e promuoviamo l’appello lanciato questa mattina da il Tirreno: GABRIELE LIBERO!

Perché come scrive il direttore Luigi Vicinanza nel corsivo della prima pagina: noi stiamo con il giornalista e documentarista toscano Gabriele Del Grande rinchiuso in un carcere turco da giorni, senza un fondato motivo. Trattenuto in un limbo dalle autorità di polizia dal 9 aprile. Nell’ultima telefonata ha dichiarato di non aver subito nessuna violenza ma che il suo materiale di studio è stato requisito. Il caso diplomatico di Gabriele ha mobilitato la stampa italiana per chiedere la liberazione immediata di un cittadino europeo. Il Bosforo scivola giorno dopo giorno verso un regime autocratico. In risposta all’illegalità della sua detenzione Gabriele ha annunciato di essere entrato in sciopero della fame. Nella Turchia di Erdogan circa 200 giornalisti sono stati arrestati in questi mesi con l’accusa di terrorismo o di divulgare segreti di stato. Possedere una tastiera e una videocamera è l’anticamera di un tribunale infernale. La macchina governativa di Ankara ha giornalmente e puntigliosamente colpito la libertà di stampa. In Turchia la strada della democrazia è stata smarrita e il caso di Gabriele è l’ultimo episodio eclatante del disastro di Istanbul. Ad una tale ferocia repressiva non c’è che riaffermare il diritto di Gabriele a tornare a casa. Subito.

Russia e Siria nella spirale del terrore

Russia e Siria ancora nella spirale del terrore. Tritolo nella stazione della metropolitana di San Pietroburgo e bombe chimiche sulla cittadina di Idlib. A mietere civili inermi nell’estremità orientale dell’Europa è stato un kamikaze di origine kirghisa mentre, nel Medioriente sono gli aerei di Damasco a disseminare morte. Il denominatore in comune ai due eventi è il presidente siriano Assad e la sua alleanza con Mosca: Putin è al fianco del dittatore nella guerra civile con armi e soldati. Il terrorista che ha colpito la città natale dello zar Putin tuttavia non è nato e cresciuto in Siria, non proviene nemmeno dalla Cecenia ma da una sperduta ex provincia dell’Unione Sovietica. Dunque l’indottrinamento dell’attentatore andrebbe imputato, con molta probabilità, alla radicalizzazione dei giovani in quella remota regione. L’ondata di terrore che ha colpito la Russia a partire dagli anni ’90 è, in particolar modo, legata alle richieste indipendentiste cecene. Negli ultimi anni altri gruppi di ispirazione jihadista hanno aderito al terrorismo nel nome di un emirato Caucaso conforme al Califfato dell’Isis. Tra le file dei foreign fighters che combattono in Siria o in Iraq per l’Isis c’è una presenza cospicua di miliziani reclutati nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Brigate di assassini senza pietà, persone di estrazione povera, cresciuti in regimi autocratici, con trascorsi in prigionia tra torture e indottrinamento fondamentalista. Figli di un malessere generalizzato, vittime di società oppresse sia economicamente che culturalmente, giovani che sognano in qualche modo una rivincita con l’uso della forza e della bestialità. L’attentato di San Pietroburgo, gli attacchi in Turchia ed in Europa, come del resto tutti quelli di questi ultimi anni a partire dal 11 settembre 2001 pongono sistematicamente la questione di come confrontarci con l’Islam fondamentalista: la condanna è unanime mentre le soluzioni proposte sono varie e spesso contrastanti, a seconda della visione sociopolitica dei vari interlocutori e soprattutto (e questo è un guaio) degli interessi confessabili ed inconfessabili. Militarmente siamo sufficientemente “agguerriti” per far fronte e sconfiggere, sul campo, manipoli di combattenti fanatici che hanno come vero autentico culto solo la morte, lo dimostrano le varie campagne lanciate in questi mesi contro il Califfato dall’Iraq alla Libia, oppure gli esiti del conflitto ceceno e di molte altre guerre poco conosciute. Due distinti fattori, geografico e geopolitico, alimentano il persistere di questo dilemma del nostro secolo. Il teatro principale del conflitto è una striscia di terra che include Mediterraneo, Medioriente, ex repubbliche sovietiche asiatiche e nord Africa. Tutti paesi a maggioranza mussulmana privi di democrazia reale. Dove però i giochi, il controllo, l’influenza sono sostanzialmente riconducibili al blocco occidentale, alla sfera di Mosca e all’espansione turca. Nella crisi siriana questi elementi sono venuti alla luce con effetti deleteri e ripetuti. In Siria assistiamo ad un massacro giornaliero, le scuole e gli ospedali bombardati dall’aviazione siriano-russa, le violenze dei ribelli al regime di Assad, i rastrellamenti, le torture nelle carceri. Lo scontro frontale al fondamentalismo ha finito per alimentarlo e dittature destinate a crollare resistono solo grazie ad aiuti internazionali. Spesso la soluzione è più semplice di quanto si possa pensare, ma fare la cosa giusta non è così facile: esportare la democrazia ha un prezzo, invadere un altro. Il secondo assicura un serbatoio enorme di miliziani per lo Stato Islamico e per tutte le sigle jihadiste.

 

10 ANNI

In Turchia vige la legge marziale. Lo “sguaiato” golpe militare è finito e la punizione dei cospiratori assume la forma, o il pretesto, della feroce umiliante rivincita. È una vera e propria epurazione, una caccia alle streghe in ogni angolo del paese, trasversalmente nel mirino finiscono: soldati, impiegati statali, sindacalisti, docenti e giudici. Erdogan, che era sul punto di essere deposto, ha perso il senso della realtà, della giustizia e del perdono. Mentre sulle rive del Bosforo si assiste con clamore all’eclisse totale della democrazia anche il destino di milioni di profughi che si sono riversati nel paese dalla vicina Siria, nel corso degli ultimi cinque anni, è un limbo oscuro. La Turchia ospita 2,7 milioni di rifugiati, la maggior parte dei quali vivono in campi sovraffollati. Molti hanno cercato di lasciare le coste dell’Anatolia per l’Europa, in troppi hanno perso la vita. La tecnoburocrazia di Bruxelles come risposta alla crisi produsse un impegno formale con la Turchia. A Marzo dopo mesi, in cui il presidente Erdogan e il suo governo hanno ricattato le capitali europee con la scusante del caos dei rifugiati, arrivò il vertice fatidico. Al tavolo delle lunghe e spinose trattative, condizionato dalle “pressioni” filo turche di Berlino, abbiamo perso la dignità, arrivando persino a monetizzare la vita dei profughi. Stipulando un discutibile accordo “commerciale” sulla gestione dei migranti, salendo su un treno che non avremmo mai dovuto prendere. Un’intesa politica che lasciò l’amaro in bocca: “Viola il diritto internazionale e quello dell’Unione europea”. Ammoniva Elisa Bacciotti direttrice delle campagne di Oxfam Italia. “Dopo il blocco della rotta balcanica, l’accordo è un ulteriore passo verso l’abisso della disumanità, peraltro mascherato, con raggelante ipocrisia, da strumento per smantellare il business dei trafficanti. Il costo del controllo dei confini europei non può essere pagato con vite umane”. Quattro mesi dopo, fallito un golpe e lanciata una campagna inquisitoria che non si arresta, quel “trattato” non è ancora carta straccia ma non è più un arma carica puntata all’Europa: la fantomatica invasione dei profughi non esiste. La menzogna giocata da Erdogan, ma non solo, è finalmente stata svelata. Come rivela il rapporto divulgato in queste ore proprio da Oxfam: i dati reali dell’accoglienza nei sei paesi più ricchi del mondo – Stati Uniti, Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito – sono un numero “misero” ad una sola cifra, 9%. Mentre circa 12 milioni, pari al 50% del totale dei richiedenti asilo di tutto il mondo, hanno “invaso” stati che nel loro insieme non rappresentano nemmeno il 2% dell’economia globale: Giordania, Turchia, Libano, Sud Africa, Pakistan e Territori Palestinesi. La maggior parte di questi paesi, pur assumendosi gravi responsabilità, sono carenti nel difendere i diritti degli ospiti e persino dei propri cittadini. Per quanto riguarda l’Italia, pur impegnata in prima linea con 134mila persone ospitate (0.6%), è lontanissima dalla Germania che ne ha accolto 736mila, aumentando il proprio numero di rifugiati. È evidente che i paesi ricchi, numeri alla mano, non fanno abbastanza. La sfida è complessa e richiede una risposta coordinata, scevra da egoismi e che abiuri la prassi dell’esternalizzazione, come nel caso turco, del controllo delle frontiere ad altri. Il prossimo vertice di New York del 19 e 20 settembre sarà determinate per una netta inversione di tendenza e per dare una risposta che sia all’altezza. Le organizzazioni non governative propongono soluzioni efficaci: corridoi sicuri per i migranti, rispetto delle quote d’accoglienza, favorire i ricongiungimenti familiari, concedere visti umanitari e promuovere il reinsediamento dei più vulnerabili in un paese terzo. Alla vigilia del colpo di stato Erdogan aveva annunciato una proposta “audace” e “controversa”, offrire la cittadinanza ai rifugiati siriani. Un segno tangibile di solidarietà o un recondito disegno del Sultano di Istanbul?

MANDELA DUE ANNI DALLA MORTE

Era il 5 dicembre 2013. Sono passati due anni dalla morte di Nelson Mandela che nell’ultimo periodo aveva abbandonato ogni carica politica, ritirandosi a vita privata, una scelta fatta con la naturalezza di un leader dal carattere invincibile. Non erano mancate le critiche che lui stesso ammise in parte essere fondate. È stato accusato di essere stato troppo autoritario in talune decisioni; di essere stato lento nella lotta all’HIV; di non aver saputo frenare un sistema dilagante di corruzione e di essersi fidato troppo delle persone a lui vicine. Resta innegabile che sotto la sua presidenza gli investimenti pubblici per il welfare sono aumentati esponenzialmente. Nel quinquennio di governo Mandela ha introdotto la parità nell’assegnazione di borse di studio, di invalidità e le pensioni di vecchiaia, con il suo mandato da presidente è migliorato il tasso di scolarizzazione, sono state costruite migliaia di abitazioni per i poveri. Ha voluto l’istituzione del tribunale straordinario per la riconciliazione (e la verità), presieduto dall’Arcivescovo Desmond Tutu, con il compito di raccogliere le testimonianze delle vittime dell’apartheid, dove, alla fine del procedimento, la corte sentenziò l’amnistia per oltre mille persone. L’esempio di Mandela è la lezione di un uomo che ha piegato la storia, cambiato il destino di un popolo e in parte del mondo: il simbolo della lotta alla segregazione razziale, il prigioniero politico più famoso della storia. Eppure oggi guardando il Sud Africa quel ricordo è sfumato, nuove ombre incombono sullo stato più meridionale dell’Africa, la paura, l’incertezza per il futuro si diffonde tra la gente. Il divario tra ricchi e poveri è cresciuto in modo insostenibile. Nelle colline tra Pretoria e Johannesburg sorgono splendide ville dai giardini con palme e prati all’inglese, fontane e piscine. Nei garages sono custodite auto di lusso. Le abitazioni sono protette da allarmi, il filo ad alta tensione scorre lungo le mura e le pattuglie di polizia privata perlustrano continuamente la zona. Poco lontano gli slams e le township. Strade polverose, distese di baracche di lamiera dove vivono ammassati in migliaia e lunghe file di latrine pubbliche. Acqua ed elettricità scarseggiano, gli allacci sono abusivi e temporanei. La criminalità minorile è altissima. È comune che la rabbia sociale esploda, violenza bieca, atti di razzismo contro coloro che sono giunti in Sud Africa nella speranza di un futuro migliore. L’odio del povero è rivolto al più povero e al più indifeso. Le baracche vengono incendiate, le persone linciate. È il fallimento politico dell’ANC e del suo presidente Zuma, al centro di numerosi scandali per corruzione e sperpero di denaro pubblico. Il malcontento cresce. A canalizzare la protesta è un nuovo movimento politico, l’Economic Freedom Fighters, nato da una costola del partito di Mandela e che propone espropri dei terreni e la nazionalizzazione delle miniere, secondo il modello dello Zimbabwe di Mugabe. È l’incubo dei bianchi. Intanto gli estremisti di destra tornano a rilanciare l’idea di uno stato autonomo e il ritorno al sistema di apartheid. Il Sud Africa rischia di sprofondare. E l’eredità di Mandela non può essere raccolta come ci ha detto l’attivista per i diritti umani Sipho Mthathi e direttrice di Oxfam Sud Africa in una lunga intervista: “Mandela è stato l’eroe, il simbolo della lotta al razzismo, idealizzato e mitizzato dalla nostra gente. Poi, successivamente, per “riconoscimento” di questo suo passato ruolo è stato, caricato di una responsabilità che pochi avrebbero voluto avere, investito alla guida del processo di transizione del nostro paese, una fase politica molto delicata e controversa della nostra storia. Secondo molti la mancata ridistribuzione delle risorse alla fine dell’apartheid dei bianchi resta il vero problema irrisolto da Mandela. Ventuno anni dopo la proclamazione della nuova costituzione la maggioranza della popolazione è ancora esclusa da una ridistribuzione equa delle risorse, dalla partecipazione alle ricchezze minerarie e dalla produzione dei beni. Il fatto che sia emersa in questi anni una nuova classe media “black”, di cui faccio parte, non può essere preso come un risultato, non è un indicatore di una trasformazione progressista, le disparità sussistono e si accrescono. Basta guardare il livello della disoccupazione anche tra coloro che hanno accesso all’istruzione. L’attuale classe politica è complice della formalizzazione di una struttura sociale che preserva l’accumulo di ricchezze nelle mani di una élite. Abbiamo bisogno di una classe politica in grado di guidare il paese attraverso le complessità del momento. Partendo dal presupposto che non ci sarà mai un altro Mandela, a prescindere da quello che si possa pensare di lui. Oggi spetta a noi alzarci e rivendicare i nostri diritti.” Il grido di verità risuona: “Amandla!”. E l’Africa risponde: “Awethu!”

Il viaggio in Africa di Papa Francesco

Francesco è in Africa. Ad accoglierlo a Nairobi il presidente Uhuru Kenyatta, il primo leader africano a stringere la mano del Papa in questo viaggio apostolico che parte dal Kenya per poi proseguire alla volta dell’Uganda e terminare nel paese della Repubblica Centroaficana. Tre stati africani a maggioranza cristiana, attraversati da conflitti interni, dittature, guerre civili interminabili e oggi nella morsa del terrorismo islamico. È il cuore della culla dell’umanità, dove povertà ed emergenza sanitaria hanno un radicamento endemico e mietono vittime ogni giorno. È l’Africa della miseria, dei soldati bambini, degli stupri etnici, della tragedia dell’HIV, della tubercolosi e di Ebola. I temi al centro del viaggio sono molti e delicati, per la prima volta Jorge Mario Bergoglio visita l’Africa nell’undicesimo viaggio apostolico del suo pontificato. Il Vescovo di Roma giunge in Africa in un momento di crescente instabilità politica internazionale: “Il terrorismo si alimenta con la povertà” ha commentato. Francesco porta un messaggio di tolleranza religiosa, nella ricerca dell’unità tra i cristiani, per la convivenza pacifica, in particolare tra musulmani e cristiani. Lui, che più volte ha guardato al mondo in via di sviluppo, scegliendo di mostrarsi come esempio di semplicità francescana, contro la corruzione e i signori della guerra, non mancherà di esprimere la sua visione dello stretto rapporto tra povertà e ambiente, tema a cui ha dedicato la sua ultima enciclica “Laudato si”. La seconda tappa del viaggio è l’Uganda, la perla d’Africa. Nella tormentata storia di questo paese è scolpito uno degli episodi di maggiore valore per le comunità cristiane in Africa: il martirio di Namugongo, dove furono torturati ed uccisi cattolici e anglicani che respinsero le “turpi richieste” del re animista del Buganda. Nella località del feroce massacro oggi sorge un grande santuario, inaugurato da Paolo VI, meta ogni anno di pellegrinaggi. La comunità internazionale del movimento LGBT vorrebbe che il Papa durante la sua permanenza africana fosse promotore di una maggiore tolleranza e parlasse contro la criminalizzazione dell’omosessualità in atto in molti paesi, tra cui l’Uganda. Altro tema sensibile alla chiesa, in paesi dall’alto tasso di natività come quelli africani, è la contraccezione. Molte agenzie internazionali e alcuni governi occidentali vorrebbero che la chiesa cattolica rinunciasse alla sua opposizione, soprattutto al divieto dell’uso del preservativo. Infine, al centro del viaggio apostolico anche l’apertura in anteprima della Porta Santa della Cattedrale di Bangui nella capitale Repubblica Centroafricana, che segna l’avvio dell’Anno Santo della Misericordia, questo evento costituisce più che una novità un unicum nella storia del cattolicesimo. Comunque, ci apprestiamo all’ennesimo viaggio in modalità Bergoglio: la solita borsa nera in mano, sorridente, niente giubbotto antiproiettile e nemmeno la papamobile blindata. “Attentati? Temo di più le zanzare”, nelle parole di Francesco però non c’è incosciente snobismo, e neanche la pretesa che le schiere degli Angeli lo proteggano. L’allarme tuttavia è alto. Decine di migliaia i poliziotti coinvolti sia in Kenya che in Uganda. In Repubblica Centroafricana Francesco sarà nelle mani dei caschi blu. Secondo taluni esperti di terrorismo internazionale il Pontefice è maggiormente a rischio durante la permanenza in Kenia, per la presenza nel territorio di cellule di islamisti somali. Sebbene lontano mille miglia dai proclami di forza e reazione che proprio in questi giorni caratterizzano il mondo occidentale, lo stesso che per secoli ha sfruttato questi popoli e le loro risorse nella folle corsa al colonialismo e che con il postcolonialismo spesso contribuisce a mantenere al potere élite corrotte e oppressive, il Papa “rivoluzionario” lascerà il segno nella storia di questo continente.

COSA SAREBBE SUCCESSO SE RABIN NON FOSSE STATO ASSASSINATO?

Su tutto ciò che è stato pronunciato o scritto nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, tanti sono stati i “cosa sarebbe successo” se fosse rimasto vivo. Certo, non potremo mai saperlo, e ciascuno di noi si avvicina a questo pensiero dal proprio punto di vista o dalle sue idee politiche.

E’ vero, i sondaggi erano contro di lui. Le elezioni, previste per il novembre del ’96, erano le prime che prevedevano il voto disgiunto tra il partito politico e il candidato primo ministro. Nel faccia a faccia tra Rabin, il premier allora settantatreenne, e il giovane leader del Likud Benjamin Netanyahu, i sondaggi oscillavano tra il pareggio e il vantaggio per il candidato più giovane, diretta conseguenza di una recrudescenza della violenza palestinese. Pur non escludendo una possibile debacle elettorale, giova ricordare che Rabin aveva ancora un altro anno di governo del paese, e aveva preso misure significative per far cambiare il vento dei sondaggi.

All’inizio del mandato di Rabin come primo ministro ero il viceministro degli Esteri, mentre verso la fine ero stato nominato ministro per l’Economia e la Pianificazione. In quei due anni condussi negoziati segreti e informali con l’uomo che oggi è il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, allora presidente del comitato esecutivo dell’OLP, per delineare una risoluzione permanente, tra cui una precisa mappa di scambi territoriali sulla base della Linea Verde (le cosiddette Linee 1967).

Sabato 30 Ottobre 1995, Abbas arrivò nel mio ufficio a Tel Aviv per una riunione con coloro che erano coinvolti nella preparazione dell’accordo (tra gli altri c’erano, per parte israeliana, Yair Hirschfeld, Ron Pundak e Nimrod Novik). Concordammo di mostrare i risultati ad Arafat e Rabin nei giorni successivi. Subito dopo, ad Amman si tenne una seconda conferenza economica regionale. Volai lì con Rabin, e durante il viaggio gli dissi che, una volta rientrato da un già pianificato viaggio negli Stati Uniti, avrei avuto bisogno di un lungo incontro con lui. Non mi chiese di cosa si trattasse, rimanemmo semplicemente che ci saremmo incontrati. L’incontro non ebbe luogo, naturalmente. Mostrai il progetto di accordo a Shimon Peres, diventato primo ministro ad interim, ma lui non era pronto a portare avanti la questione al punto necessario. Informai Abbas che non c’era bisogno di controllare tutto ciò con Arafat.

Pur essendo ben consapevole che questa è una domanda quasi infantile, ammetto che non posso fare a meno di chiedermi cosa sarebbe successo se Rabin non fosse stato assassinato. La risposta è nulla. Avrebbe potuto continuare a portare avanti l’accordo, il passaggio di tutte le città della Cisgiordania, tra cui Hebron, ai palestinesi, chiedendomi di seguire la risposta di Arafat per il cosiddetto accordo “Beilin – Abu Mazen” e, qualora fosse stata positiva, dare l’impulso a intensi negoziati basati su di esso.

E’ possibile che avrebbe portato avanti i colloqui avviati con il presidente siriano Hafez Assad, al fine di raggiungere un accordo su un impegno preso con l’allora segretario di Stato Warren Christopher, che comportava la concessione delle alture del Golan in cambio di garanzie di sicurezza. Avrebbe potuto trasformare le elezioni del novembre 1996 in un referendum su due accordi di pace – con la Palestina e la Siria – raccogliendo i favori del pubblico, vincendo le elezioni, e iniziando il suo ultimo mandato come primo ministro raccogliendo i frutti di pace e di supervisione del completamento del suo vecchio progetto di cambiamento delle priorità della società israeliana.

Anche se questo si sarebbe verificato prima del 2002, anno dell’iniziativa di pace araba, di matrice saudita, è probabile che la pace con i palestinesi e la Siria avrebbe costretto la maggior parte dei paesi arabi a instaurare relazioni diplomatiche con Israele; avrebbe anche comportato l’istituzione di un organismo regionale, dove Israele avrebbe riempito un ruolo economico importante, e un ruolo militare fondamentale quale membro di una coalizione regionale strategica; e Rabin sarebbe stato probabilmente il leader di tutto questo procedimento con l’aiuto di Peres e di altri membri del governo.

In giornate come questa, nelle quali si ricorda questo straordinario uomo – un introverso, sfacciato, pessimista e amaramente sarcastico combattente per un futuro migliore, che era in grado di parlare con grande emozione, esponendo la verità anche pur essendo i suoi discorsi scritti da altri, è doveroso per un attimo sognare ciò che sarebbe potuto essere, senza quei tre colpi di pistola alla schiena.

Yossi Beilin è presidente della società di consulenza aziendale Beilink. In passato ha lavorato come ministro in tre governi di Israele e come un membro della Knesset per Lavoro e Meretz. E’ stato uno dei pionieri degli Accordi di Oslo, dell’Iniziativa di Ginevra e di Birthright.

Il commento è reperibile nel sito del canale televisivo i24

VATICANO E OLP ACCORDO GLOBALE

La mattina del 25 maggio 2014 Papa Francesco concludeva l’incontro ufficiale con il presidente palestinese Abu Mazen, Betlemme era in festa per il pellegrinaggio del Santo Padre in Terra Santa. La vettura con a bordo Francesco muoveva in direzione della piazza della Mangiatoia dove erano ad attenderlo migliaia di fedeli. Durante il tragitto inaspettatamente Francesco fece fermare la sua auto, scese dalla vettura e a piedi raggiunse il muro di separazione tra israeliani e palestinesi. Toccò il blocco di cemento della barriera dove compariva una scritta rossa inneggiante alla Palestina libera, appoggiò la testa e pregò in silenzio per alcuni minuti. Il mondo incredulo assistette ad un gesto significativo. Un anno dopo a Roma Francesco suggella un altro passaggio storico, l’accordo globale del Vaticano con l’OLP. Un trattato riguardante libertà religiosa, giurisdizione, luoghi di culto, attività sociale e caritativa, questione fiscale. Sono norme e principi che regolamenteranno i rapporti tra il Vaticano e lo Stato della Palestina nei prossimi anni. Fonti governative israeliane e alcune personalità italiane esprimono delusione per il riconoscimento da parte del Vaticano dell’esistenza dello Stato palestinese, che il trattato de iure implica, ma questo è un atto, come espresso dalla Santa Sede, formalmente dovuto dopo la risoluzione adottata nel 2012 dall’Assemblea Generale dell’ONU per il riconoscimento della Palestina quale Stato Osservatore. Tutto questo avviene, e non è un caso, mentre in Palestina si ricorda la Nakba (grande catastrofe in arabo), quando nel 1948 l’esercito israeliano espulse gran parte dei palestinesi dai propri villaggi e dalle loro case. La Nakba è un episodio come scrisse una volta l’attivista pacifista Amaya Galil che “non è solo la memoria e la storia della Palestina, ma è un evento che fa parte della mia memoria ed identità collettiva ed individuale in quanto israeliana”. Lo scorso anno Francesco durante l’incontro con i giovani del campo profughi di Dheisheh a Betlemme, discendenti degli esuli del ’48, aveva pronunciato queste parole: “Non lasciate mai che il passato vi condizioni la vita. Guardate avanti!” Nakba e riconoscimento della Palestina sono due questioni aperte, irrisolte: la prima non ha portato alla seconda, la seconda, se e quando avverrà, dovrà accettare la prima come un capitolo chiuso. Oltre alla rinuncia palestinese di eventuali pretese pesa su tutto il veto di Israele, apertamente critico sul riconoscimento unilaterale della Palestina da parte di molti Paesi. In tal senso in Europa si sono già espressi Gran Bretagna, Francia e Spagna per citarne solo alcuni. La Germania è contraria, mentre l’Italia tentenna. Il nostro Parlamento ha approvato pochi mesi fa una doppia risoluzione sul riconoscimento della Palestina, sancendo con due voti discordanti e ambivalenti il “riconoscimento con preclusione”. Un modo tutto italiano per confermare che la soluzione “due stati due popoli” e’ sempre attuale. Casualità o meno nei giorni della Nakba il presidente “dimezzato” del popolo palestinese in visita a Roma dall’amico Francesco ha sentito sicuramente ripetere che “ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni.”

DANIELA E LIA, CULTURA E CINEMA

Il 13 marzo di quest’anno moriva a Gerusalemme Lia Van Leer fondatrice delle Cineteche di Haifa, Tel Aviv e naturalmente della Cinematheque della città Santa. Un luogo incredibile sotto le mura della città Vecchia, a pochi passi dalla Piscina del Sultano, lungo il pendio della valle della Gehenna. Al numero 11 della Hebron road si trova il cinema più famoso di Gerusalemme. Situato proprio nel tracciato della linea verde che un tempo divideva israeliani e palestinesi. Una linea non immaginaria, un solco fra culture e società sfumato ma ancora oggi presente. Durante la seconda Intifada i palestinesi di Gerusalemme difficilmente si recavano in locali nella parte Ovest e gli israeliani evitavano quella Est araba. La Cinematheque era zona neutrale, in pieno Shabbat era possibile vedere in coda per una proiezione insieme palestinesi ed israeliani. La stessa cosa accadeva ai tavoli della caffetteria oggi ristorante rinomato. Impossibile per chi ha frequentato quel luogo non aver incontrato Lia. A passo lento, sorretta dal bastone, con abito lungo dai colori smorti, foulard di seta, occhi profondi e capelli bianchi. Sempre elegante, sapeva attirare l’attenzione e cinematograficamente riempiva la scena. Era la vera regista della promozione della cultura israeliana e non, con un occhio al passato e aperta al futuro. Raccontava aneddoti di Marcello Mastroianni e rideva parlando di Benigni. Ha combattuto, e vinto, le sue battaglie contro il settarismo degli ortodossi, lei con una concezione laica del mondo. Non si è piegata nemmeno alle minacce. Ha speso la sua vita lavorando per il cinema. Un cinema di qualità come quello che un altra grande donna, Daniela Meucci, scomparsa prematuramente, ha contribuito a diffondere a Pisa. Daniela ha dato vita ad un laboratorio di cultura unico, il cineclub Arsenale. Fondatrice, assieme ad Alberto Gabrielli, di un piccolo grande cinema nel quartiere di San Martino a pochi metri dalla riva sud dell’Arno, nello stretto vicolo Scaramucci, tra le mura medievali dell’edificio dove decine di attori, registi di fama nazionale ed internazionale hanno fatto la passerella in questi anni. E Daniela era li ad accoglierli, così come faceva con il pubblico. L’abbiamo vista tutti in biglietteria a distribuire tagliandi. La ricorderemo prendere il microfono e presentare le serate. Abiti casual, di poche parole ma quelle adatte. Attivista dei valori universali, strenua difensore dei diritti del popolo palestinese a cui ogni anno dedicava un programma speciale. Facendo attenzione a rendere l’evento un momento di riflessione e discussione sul conflitto in atto in Medioriente. Un’amica che sapeva ascoltare, che chiedeva suggerimenti, che proponeva progetti. Ha sofferto momenti difficili, il declino delle sale cinematografiche e i tagli alla cultura eppure, non si è mai arresa. Intellettuale, donna forte e tenace. L’ultimo riconoscimento lo scorso anno quando ritirò a Mantova il prestigioso premio per il miglior cinema d’essai d’Italia. Meritato, strameritato. Per ricordarla e omaggiarla ci sarà sempre l’Arsenale.

UN ITALIANO ROMANTICO E UN INGLESE POCO LEALE, STORIE DI GUERRA

Africa meridionale. Stato del Transvaal. La guerra anglo-boera incombe. Da una parte l’esercito più potente al mondo, formato da truppe scelte di gallesi e inglesi, dall’altra contadini di origine olandese e tedesca. In disparte le tribù Bantu, gli Zulu. Spettatori di una guerra tutta europea che avrebbe purtroppo cambiato anche la loro vita.

In quei giorni il nazionalismo boero ancora una volta sfidava il potere di Londra: la periferia dell’impero era in rivolta e l’internazionale socialista cavalcava la protesta. Volontari lasciavano il vecchio continente per andare a combattere una guerra persa in partenza. Erano anarchici, repubblicani e socialisti. Ex ufficiali di cavalleria prussiana o piemontese, borghesi, artigiani, contadini e operai provenivano dall’Italia, Grecia, Austria, Francia, Irlanda. Formavano i reparti internazionali dei combattenti per la causa boera. Legionari senza un esercito, un pugno di scout, male armati, senza divisa o bandiera, solo il fedele cavallo e coraggio da vendere. Guerrieri dimenticati dalla storia. Colpevoli di aver scelto di lottare in favore delle vittime dell’oppressione colonialista senza comprendere che quelle stesse vittime si sarebbero trasformati in principi dell’ideologia razzista.

Allora il sogno d’indipendenza attraversava gli oceani, i deserti e la savana. Buoni o cattivi. Libertà o capitalismo. Monarchia o repubblica. Oro o campi di grano. Per uccidere o morire c’è sempre una buona ragione vuoi che sia politica, economica o morale. La guerra anglo-boera le racchiudeva tutte anche quelle più personali e talvolta straordinarie. Tra queste l’avventura di Camillo Ricchiardi. Nato nel cuore delle Langhe nel 1865, cresciuto tra lunghi filari di vigneti e affilate spade. La vita di Camillo Ricchiardi è quella di un viaggiatore del tutto particolare. Soldato, avventuriero, scrittore. Descritto come eroe romantico dai giornali del tempo. Aderì agli ideali dell’indipendentismo boero dopo aver viaggiato e combattuto in Cina, Eritrea, Siam e Filippine. Aveva impugnato le armi contro etiopi, spagnoli e americani. E poi si era lanciato in una guerra personale dall’esito scontato: “Io non ho nulla contro gli inglesi, la mia antipatia è per il loro governo e per l’egoismo politico di voler possedere tutto. È per questa ragione che ho deciso di lottare per la causa Boera.” Per Ricchiardi alla vigilia di un nuovo secolo era giunto il momento di incrociare, ancora una volta, il proprio destino con quello del mondo.

Anno 1899. Dicembre. Nei pressi di Estcourt lungo le rive del fiume Boesmans. Nell’accampamento militare i fuochi sono accesi e le lampade ad olio appese alle tende. Il lungo pennone ospita nella sommità la bandiera dell’impero britannico, la Union Jack sventola sopra le teste di migliaia di soldati. Intorno ad un tavolo un gruppo di ufficiali di Sua Maestà ascolta un giovane aristocratico dell’Oxfordshire. Oratore minuzioso e fantasioso, incanta il suo pubblico con il racconto della sua cattura e la rocambolesca fuga dalla prigionia. Ha accuratamente e volutamente evitato di menzionare alcuni dettagli, nemmeno troppo banali, di quella pazzesca storia, ma in fondo è pur sempre uno scriba di nobile lignaggio con una carriera politica da intraprendere e un impero da governare. Nella lunga notte africana racconta ai compatrioti di essere stato catturato da una guarnigione boera comandata dal generale Louis Botha in persona. È una bugia. Poi narra di come fortunatamente è riuscito a fuggire dalla prigione di Pretoria. Mezza verità. Non parla di essere caduto in una imboscata organizzata da guerriglieri irregolari. Non dice che il carcere in realtà era una scuola adibita a centro di reclusione per gli ufficiali nemici e le condizioni erano tutt’altro che dure. Elude il fatto che tutti i prigionieri avevano dato la propria parola che non avrebbero tentato la fuga e che il controllo della struttura era ridotto ad un numero irrisorio di secondini. Racconta però che saltare il muro di cinta per poi sottrarsi alle guardie fu un gioco da ragazzi.

La vera storia di quell’episodio che potremmo definire marginale nella guerra anglo-boera inizia poche settimane prima, il 15 novembre. È mattina. In cielo le nuvole corrono via lasciando spazio al caldo sole. Il giovane aristocratico inglese corrispondente di guerra per il quotidiano conservatore Morning Post ha preso posto a sedere sul treno blindato che deve percorrere la tratta per Ladysmith. Sul treno i fucilieri del reggimento Dublin e la fanteria del Durban. Lo scopo della missione è verificare la presenza di truppe nemiche nella zona. Il giornalista è salito sul treno con la speranza di raccogliere materiale da inviare alla redazione del giornale e magari riuscire a provare qualche forte emozione in uno scontro armato contro le forze boere. Non indossa abiti borghesi, ma un piccolo berretto verde e l’uniforme del reggimento di cavalleria del South African Light Horse. La pistola Mauser è riposta nella fondina, carica. Una manciata di proiettili nella tasca dei calzoni. Intanto il treno muove rapido sulle rotaie nella più totale tranquillità dei suoi passeggeri, ma alla fine non sarà una passeggiata di piacere. Alla stazione di Chieveley la sosta per inviare un messaggio telegrafico, la linea è sgombra. Il treno riparte, pochi chilometri e giunge il fischio prolungato, azionato dal macchinista, e la brusca frenata seguita da un boato, è la prima forte esplosione. Le carrozze di coda deragliano scomposte. A bordo del convoglio è il panico. Le lamiere accartocciate avvolgono i corpi dei soldati. Strazianti urla di dolore risuonano all’interno del treno. Fuori le colline brulle prendono vita, decine di uomini a cavallo spronano i propri ronzini all’attacco. Spari, proiettili che tagliano l’aria in diverse direzioni. Soldati con l’uniforme rossa gettano il fucile e l’elmetto mettendosi in fuga. Altri tentano inutilmente di sganciare i vagoni. La locomotiva è libera e corre lontano ma in pochi hanno trovato una via d’uscita a quel breve scontro. I volontari gridano “Evviva! Vittoria! Viva la Repubblica!”. Il reparto dei legionari italiani è piombato come un falco sulla preda e ha portato a segno un’assalto letale: il treno blindato reso inutilizzabile, perdite solo tra le file nemiche e una sessantina di prigionieri. Ad alzare le braccia al cielo di fronte al vincitore e condottiero Camillo Ricchiardi anche il poco noto giornalista del Morning Post di nome Winston Churchill.

All’alba di quel giorno le vedette di Ricchiardi erano già appostate lungo la strada ferrata per Ladysmith in attesa del treno con a bordo Churchill. Gli uomini della brigata italiana avevano nascosto i cavalli al riparo, sotto l’ombra degli alberi di amarula. I segnali con il comando scambiati con giochi di specchi erano costanti. Il plotone degli scout italiani muniti di dinamite aveva strisciato lungo i binari, l’erba alta e gialla proteggeva la trappola che sarebbe scattata a breve. Il conflitto a fuoco si risolse in pochi minuti. Al termine dello scontro i guerriglieri mediterranei vistosamente euforici ammassano i prigionieri in cerchio. Winston Churchill a differenza degli altri non ha tentato di fuggire ma di nascondere quello che aveva addosso. La pistola è andata persa sul treno. Il problema che assillava il futuro statista erano i proiettili che aveva nelle tasche. Quelle pallottole erano un biglietto di sola andata per il plotone d’esecuzione. L’aristocratico inglese possedeva dei caricatori con proiettili dum-dum, banditi dalla conferenza dell’Aia per la loro micidiale capacità distruttiva. Odiati dai soldati, illegali, non certo una bella cosa da mostrare al vincitore e di cui andare fiero. Churchill compresa la gravità della situazione e in evidente stato di agitazione cercava di liberarsi delle prove compromettenti, nascondendole nella folta vegetazione di felci, il goffo tentativo destò tuttavia la curiosità dell’ufficiale piemontese. Camillo Ricchiardi baffi e barba nero pece, in testa un cappellone di feltro a tesa larga color sabbia, alti stivali infangati, pantaloni e camicia kaki, il cinturone al collo e la spada nella faretra legata alla sella, seguiva attentamente le mosse del giovane inglese. Ricchiardi aveva pianificato e comandato l’assalto al treno. L’ex ufficiale di casa Savoia era riuscito in ciò che mezzo secolo dopo Hitler avrebbe, per nostra fortuna, solo sognato: avere in pugno Churchill. Il soldato venuto dalle colline dove si produce nettare d’uva delizioso smontò da cavallo puntando la pistola in direzione di Churchill: “Che cosa avete in mano? Fatemi vedere!” L’accento italiano nella perfetta pronuncia inglese era lieve. Il richiamo era invece perentorio, un’ordine che non viene ripetuto due volte. Il cronista inglese cercò di giustificarsi indietreggiando un paio di passi: “Non lo so, l’ho appena raccattato nell’erba”. La mano di Churchill si aprì lentamente lasciando cadere a terra i diabolici dum-dum. I due nemici restarono in silenzio uno di fronte all’altro. Un soldato boero aveva inquadrato il giornalista inglese e correva minacciosamente verso di lui. Non c’era più tempo. Ricchiardi doveva scegliere tra proteggere il prigioniero o lasciarlo giustiziare: “Vi credo. Gettate tutti i proiettili subito e alzate le braccia, presto.” E così il futuro grande statista e stratega, il bulldog che sconfisse il nazismo venne catturato da un elegante romantico piemontese, salvato da un gentiluomo di provincia italiano.

Il “pinguino” che tradusse il Corano

La nota casa editrice britannica Penguin pubblicò nel 1954 una selezione di racconti tratti da Mille e una notte. La scelta di stampare le novelle della tradizione orientale cadde proprio al momento di rimarcare la pubblicazione numero 1001 della Penguin. Il libro ebbe al tempo un grande successo di pubblico. Tanto da essere ristampato a poca distanza dalla prima edizione e inserito nella collana dei classici della Penguin. Il volume in formato tascabile deve la notorietà anche all’impeccabile traduzione dall’arabo all’inglese. Pochi sanno che l’autore di quel meticoloso adattamento è scomparso recentemente all’età di 87 anni e che era ebreo. Nessim Joseph Dawood era nato in Iraq da famiglia israelita, giunse nel Regno Unito alla fine della Seconda Guerra Mondiale per frequentare l’Università di Londra. Tuttavia il riconoscimento internazionale all’opera di Dawood è legato alla traduzione del Corano, datata 1956. Sapere che il testo fondamentale della religione islamica è stato tradotto dall’arabo in inglese da un ebreo è una notizia che può far sorridere. Purtroppo scoprire che tantissimi palestinesi, molti in giovane età, che parlano perfettamente l’ebraico moderno l’hanno imparato in prigione rattrista.