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BIBI, IMPUTATO E PREMIER

Israele ha aperto le aule del tribunale all’uomo più potente, Benjamin Netanyahu. Per la prima volta nella sua storia il Paese vede alla sbarra il suo primo ministro in carica, imputato in tre casi di corruzione, frode ed abuso d’ufficio. “Non ci sarà nulla, perché non c’è nulla” ripete il re di Gerusalemme, proclamando la sua innocenza. In un processo che ha richiesto mesi e mesi d’investigazioni, raccogliendo prove e testimonianze per poi approdare all’incriminazione da parte del procuratore generale Avichai Mandelblit.

L’evento più atteso, posticipato a causa della pandemia, è iniziato in concomitanza con la nascita dell’esecutivo formato insieme all’ex avversario Gantz, che dopo avergli dato battaglia in tre elezioni consecutive ha accettato l’alleanza e la pace. Netanyahu incassa la maggioranza nella Knesset e sfida la giustizia. “Sono accuse inverosimili”, che “costituiscono un tentativo di golpe” è stato il messaggio del premier prima di affrontare i giudici. Il falco della politica ha impostato la sua carriera, vincente e longeva, facendo buon uso del vittimismo. Fu così quando, nell’era pre internet, scoppiò lo scandalo di una relazione extraconiugale. Era il 1993 e “Bibi” Netanyahu correva per le primarie del partito, la notizia della liaison, che la stampa definì il “Bibigate”, non intaccò l’immagine del nascente leader, vittima a suo dire: “di un crimine senza precedenti nella storia della democrazia”. Alla fine gli iscritti al Likud lo elevarono ad indiscusso signore della destra, e da quel momento si adoperò per plasmare la macchina del movimento a sua immagine. Un partito divenuto personale, con un leader nazionalista che spesso giocherà la carta propagandistica della cospirazione ordita contro di lui: dalla sinistra, dai media, dai generali, dagli arabi e infine anche dalla magistratura. Netanyahu è un personaggio talmente divisivo che ha spaccato il paese in due, pro o contro la sua figura. Gran parte degli israeliani si è già espressa sul processo in corso senza attendere la sentenza, in un caso penale dalle potenziali ripercussioni sia sul tessuto sociale che sui futuri assetti democratici dello Stato.

Quanto in Netanyahu ci sia di un altro precedente epico scontro della politica con la magistratura, quello di Berlusconi, è presto detto. Sono incantatori della comunicazione. In entrambi i romanzi i nemici sono le “toghe”. Nella narrazione applicano il postulato del manifesto populista: “I cittadini hanno il diritto a esser governati da chi hanno scelto democraticamente”. Hanno la stessa linea di apologia: “indebite ingerenze della magistratura su altri poteri dello Stato costituiscono una vera emergenza democratica”. Sono due personalità con un’unica terapia d’urto: estirpare il cancro della magistratura. Sfruttano il medesimo mezzo per ottenere l’immunità: le leggi in parlamento. E professano l’identica visione della realtà: “Qui è tutto paradossale”. Per non parlare delle rispettive entrature alla Casa Bianca, Berlusconi con Bush, Netanyahu con Trump. Amicizie che contano.

ANIMO ENRICO!

Pianeta khmer. Anno del topo e del Covid-19. La stagione delle piogge è alle porte. Il cielo è grigio, anche se i temporali scaricano più tuoni che acqua. Mentre, fameliche zanzare ti rincorrono di stanza in stanza, giorno e notte. Nemmeno le lozioni antipuntura sono uno scudo sicuro contro questi infestanti insetti, pirati dell’aria. Al suolo la fanteria delle formiche rosse scalpita, l’orda non risparmia assalti kamikaze alle mie caviglie. Corri Enrico. Corri e non ti fermare o ti mangiano! Merda. Come vorrei poter dormire in un letto che non sia avvolto in una tenda, lasciare la finestra aperta e sentire la fresca brezza del mattino. Invece col cazzo, caldo e sudore da mesi. Penso di essermi liquefatto almeno mille volte. Il materasso è diventato una piscina, dove tuffarsi. Perfer et obdura! Dolor hic tibi proderit olim. Dicevano i latini. Sopporta e resisti bloccato nel nulla, per quanto? Provate voi a passare una notte dietro l’altra nell’insonnia per colpa dei matrimoni, musica tecno sparata a massimo volume, vetri che vibrano e poi alle primi luci del mattino le casse riprendono a bombardare. Tre giorni di fila, senza sosta. Finita la festa gli invitati se ne vanno, sciamano a poca distanza dove un nuovo allestimento è già pronto e via ancora con il casino assordante. Meglio i funerali, decisamente. Con le loro litanie che ti entrano in testa, liberandoti dai pensieri e riempiendoti di infinita profonda tristezza. Scappa Enrico, metti le ali e vola a razzo prima d’impazzire, non ti è rimasto molto tempo, i tuoi nervi stanno per cedere, ti tremano le mani. Perfer et obdura! Dolor hic tibi proderit olim. Dicevano i latini. Alla scuola della sofferenza sono stato il primo della classe. Oggi, sono diventato intollerante al riso. Non mangio carne che non sia in scatola. La polpa dei manghi mi esce dalle orecchie, l’odore del durian mi fa vomitare. Sobbalzo ai topi che leggiadri danzando mi attraversano la strada. Fuggi Enrico, presto, presto e non ti voltare. Ehi, c’è qualcuno che mi possa aiutare? Pronto unità di soccorso? Mi sono perso nel buco di culo del mondo quanto devo aspettare perchè mi recuperiate? Ho finito le munizioni, l’illusione di farcela è durata poco, giusto il tempo dell’arrivo del virus, che ha fiaccato il morale, ucciso la speranza. Perchè continuate a tenermi qui? Sono un esperimento da laboratorio? Basta con questa tortura. Animo Enrico! “Poteva andare anche peggio? No!”
We gotta get out of this place
if it’s the last thing we ever do …
Dobbiamo andarcene da qui
fosse anche l’ultima cosa che facciamo …
Magari fuori di qui c’è una vita migliore o forse anche no. Comunque sia voglio salire su un aereo diretto chissà dove, addormentarmi cullato dalle nuvole. E svegliarmi lontano, sulla Terra.

Racconto di Enrico Catassi

IL SAHEL TRA IL SULTANO E GLI SCEICCHI

Libia. La guerra civile alle porte dell’Europa che nemmeno la pandemia riesce a fermare. Fallita la possibilità di una transizione democratica, alla caduta del regime di Gheddafi, lo Stato africano è sprofondato in una irreparabile implosione. Scatenando un conflitto senza quartiere, dove riaffiorano lotte tribali ataviche e pesano ingerenze esterne. Bruxelles non cambia atteggiamento, riproponendo la stessa tipologia d’intervento diretto: l’embargo. Altri attori internazionali si affacciano prepotentemente sulla scena. L’Egitto del faraone al-Sisi appoggia il generale Haftar e LNA (l’Esercito Nazionale Libico), al loro fianco lo zar Putin ha schierato l’organizzazione Wagner Group, ovvero mercenari. Meno appariscente l’intervento degli Emirati Arabi che offrono all’ex ufficiale del rais la copertura economica e una rete per assoldare guerriglieri, che si dipana dal Sudan al Ciad fino alle coste del Mar Mediterraneo. Sul fronte opposto il premier al-Sarraj e il GNA (il Governo di Accordo Nazionale) possono contare sull’aiuto, sempre più consistente, del sultano Erdogan che culla il grandioso sogno di ristabilire l’ordine dell’Impero Ottomano. Quest’ultimo intervento nel Sahel ha sostanzialmente cambiato le sorti dell’offensiva lanciata lo scorso anno dagli uomini di Haftar per conquistare la capitale, arenandola. Nel mezzo alla corsa per la spartizione della Libia e delle sue ricchezze, relegate ad un ruolo marginale, le potenze europee: divise e diffidenti l’un l’altra. Il doppio binario di Francia e Italia è l’evidenza di uno strappo non solo diplomatico. Con il nostro Paese più vicino all’esecutivo del GNA e Parigi a sostenere il fuoco di Haftar. Scelte che spingono Roma a collaborare con il signore del Bosforo, continuando, tuttavia, ad essere partner “commerciale” dei custodi della Mecca. Sia la Francia che l’Italia, pur divergendo, aderiscono alla missione europea Irini, che prende il posto della discussa operazione Sophia. A dirigere questo nuovo tentativo di tamponare il flusso illecito di armi è la Marina italiana, che a seguire dovrebbe lasciare il comando del presidio delle acque orientali al largo della Libia alla Grecia. Ma questo passaggio di consegne tra Roma e Atene preoccupa non poco Ankara: per l’alto rischio di vedersi bloccare i rifornimenti verso l’alleato. L’asse di Erdogan con al-Sarraj, suggellato nel nome della Fratellanza musulmana, è finalizzato a disegnare un corridoio nel Mediterraneo meridionale a scapito dell’Egitto, Israele, Grecia e dell’Eni. Nella distopia libica si susseguono giochi di sponda, guerra tecnologica, espansione economica e il sotterraneo lavoro dei servizi segreti: la lunga mano, nascosta e talvolta sporca, della geopolitica globale. Persino la liberazione di Silvia Romano nella lontana Somalia è una piccola mossa di una grande partita, ancora aperta.

BIBI, GANTZ E IL GOVERNO

Israele riapre palestre, mercati e centri commerciali, dopo 6 settimane di chiusura da Covid19. E introduce restrizioni: ingressi limitati in base al volume degli spazi, distanza minima di due metri tra le persone in coda, obbligo d’indossare la mascherina in pubblico. Il paese che convive da anni con la paura del terrorismo, e dei conflitti, ha imboccato la strada della ripresa, rapida ma controllata. Intanto, “Bibi” Netanyahu si intesta la “vittoria” sia contro la pandemia che quella politica per la nascita di un governo d’emergenza. Un esecutivo “benedetto” persino dalla Corte Suprema, che ha rigettato, con verdetto unanime, due petizioni: la prima che chiedeva di riconoscere incompatibile Netanyahu, a processo per corruzione, con l’incarico a premier. E la seconda che metteva in dubbio la correttezza dell’accordo di coalizione tra i due principali partiti nella Knesset, Likud e Kahol Lavan. Cadono, quindi, gli ultimi ostacoli per il ritorno sul trono di Gerusalemme del falco della destra, dopo un lungo periodo in cui ha esercitato il ruolo di primo ministro facenti funzioni.

Netanyahu, il mago della politica israeliana, ha archiviato tre elezioni inconcludenti nell’arco di un anno e ha trovato una soluzione, a lui congeniale, per uscire dallo stallo politico. Scardinando il campo avversario, ha saputo convincere il rivale “Benny” Gantz ad un patto di rotazione al vertice. Il leader del Likud e più longevo premier di Israele, giurerà il 14 maggio, suggellando il più corposo governo della storia, 36 ministri e 16 sottosegretari. Una maggioranza assai variegata che include: partiti religiosi, destra populista, pezzi del centro e una parte della sinistra. Fuori dalla porta, non per motivi ideologici, la destra nazionalista. Come fuori anche la sinistra radicale, i partiti arabi e i liberali di Lapid che non hanno seguito Gantz, in quello che ritengono un abbraccio mortale con il nemico, scindendo il movimento. Il carrozzone messo su da Netanyahu ridisegna completamente il quadro politico, mettendo, almeno apparentemente, fine al periodo dei due blocchi contrapposti. Chi vede raggiunto l’obiettivo prefissato è il presidente israeliano “Ruby” Rivlin, da sempre promotore delle larghe intese e prossimo al termine del mandato, luglio 2021. Dietro le quinte dell’intesa si è prodigato anche l’inquilino della Casa Bianca. Donald Trump è interessato a veder fiorire la sua idea di pace tra palestinesi ed israeliani. Un piano sfarzoso e surreale, che Gantz e Netanyahu hanno promesso di voler mettere in atto presto, intanto con l’annessione di parte dei territori palestinesi lungo la valle del Giordano.

Nonostante sia stata l’emergenza coronavirus a forzare i tempi per la nascita di un governo di unità nazionale, anime così diverse continueranno a trovare terreno di scontro. Vecchi e mai sopiti rancori esploderanno prima o poi tra i banchi della Knesset. E non è detto che, in uno scenario favorevole, Netanyahu decida di puntare direttamente alla presidenza di Israele.

25 APRILE, LIBERAZIONE

“I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo”, diceva il partigiano, diventato presidente, Sandro Pertini: l’amato politico italiano scomparso trentanni fa. 25 aprile 2020, senza piazze gremite, acceso e attivo lo spazio virtuale, dei social. È il mondo e la cultura delle nuove generazioni, quelle destinate a tramandare la memoria, con la forma a loro più congeniale: il web.

In questi, pesanti e tristi giorni del Coronavirus, nella lunga lista delle vittime compaiono i nomi dei testimoni di quel lontano 1945. Tra i tanti ci ha lasciato Francesco Nezosi, classe 1930, è stato una staffetta partigiana nella provincia bergamasca. Quattordicenne affronta con coraggio la pistola puntata di un miliziano fascista che voleva conoscere dove si era nascosto il fratello, aggregatosi alla brigata “Francesco Nullo” di Giustizia e Libertà. Non parlerà, dalla sua bocca non uscirà nessun tradimento. Tuttavia, il brutale episodio cambierà il corso della sua vita, convincendolo a schierarsi. Gli occhi di quel giovane videro gli eventi salienti della battaglia di Fonteno, nell’agosto del 1944, quando la 53º Brigata Garibaldi andò in aiuto della popolazione locale che rischiava di essere rastrellata. L’operazione dei partigiani fu un successo. Al termine dello scontro rilasciarono i soldati della Wehrmacht fatti prigionieri dopo la promessa che avrebbero lasciato in pace i civili. Tornati liberi, vigliaccamente, non rispettarono i patti. Storie drammatiche che non hanno confini, come quella di Aryeh Even, sopravvissuto alla Shoah. E prima vittima israeliana del Coronavirus. “Un volto dolce, rassicurante”, era nato a Budapest 88 anni fa. Nel 1941, il padre venne deportato prima in un campo di lavoro ungherese e poi … a Mauthausen. Il nonno, invece, venne arrestato e il cadavere gettato nel Danubio. Per mesi Even, la madre e il fratello furono costretti a fuggire dalla furia bieca degli sterminatori in camicia bruna. Si salverà grazie alla protezione di un diplomatico svedese. Piera Vitali, “la biondina della Val Taleggio”, evase dal mezzo che la stava portando dal carcere di San Vittore in Germania. Era stata arrestata e torturata dai fascisti. È morto anche Guglielmo Giusti, ultimo partigiano di Somma Lombardo nel varesotto, salì sui monti per combattere con la Divisione Valtoce, partecipò anche alla Repubblica dell’Ossola e venne internato in Svizzera.

Il bel fiore del partigiano continua a sbocciare anche nell’epoca buia del contagio. “Bella ciao” risuona tra i balconi. A la Spezia hanno festeggiato affacciandosi alla finestra i 92 anni di Umberto Bellavigna, nome di battaglia William. Il 25 aprile del 1945 entrava nella città ligure liberata. Pagine indelebili della storia. Covid19 e nazifascismo sono due virus diversi. Per debellare la pandemia è richiesto il vaccino chimico. Mentre, l’antidoto al totalitarismo sono i valori democratici. In entrambi i casi la barriera al virus si costruisce nel rispetto della nostra Costituzione.

LA VALIGIA DEL COOPERANTE

Alle 9.41 di lunedì 30 marzo nella mia casella di posta elettronica compare una mail, in Italia sono le 4.41. Oggetto: recapiti whatsapp per segnalazione di voli. La missiva è firmata dal corrispondente consolare in Cambogia. Che mi invita a recarmi immediatamente in capitale a Phnom Penh in attesa di un volo di rientro. È iniziata l’evacuazione anche degli italiani. La notizia che aspettavo, non solo io. Ci siamo, si torna. Quasi euforico provo a chiamare la mia compagna. Non risponde, a quest’ora di solito è in sala operatoria. Intanto, incomincio a tirare fuori le valigie. Verifico la disponibilità di un mezzo di trasporto, sei sette ore di macchina, ci separano dalla prossima meta. Avviso gli amici connazionali, la loro reazione è molto contenuta rispetto alla mia, hanno il dubbio su cosa fare. Io da parte mia no. La Cambogia potrebbe precipitare da un momento all’altro nella legge marziale. È meglio tirarsi fuori il prima possibile, prima che la finestra si chiuda definitivamente. Squilla il cellulare, finalmente è lei. Paola è medico anestesista, e lavora presso una struttura sanitaria a Battambang per un progetto di cooperazione allo sviluppo. Da due anni gestisce e istruisce il personale medico locale. Ho giusto il tempo di dirle del piano d’emergenza in corso. Mi chiede: quando? Rispondo: subito! Silenzio. Abbiamo un problema. Il collega che dovrebbe sostituirla è entrato in quarantena. Se lei partisse dovrebbero chiudere le sale operatorie. Dentro di me risuona un deprimente noooo. Lo sapevo: “Mai una gioia”. Non posso nemmeno ribattere, sarebbe di cattivo gusto. Cerchiamo di vedere il lato positivo della cosa. Non c’è. O almeno non riesco a trovarlo. Eppure ci dovrà essere. Poi, una luce. Mi torna alla memoria la limpida foto del dolce sorriso di un bambino il giorno che è stato dimesso dall’ospedale, era saltato su una mina e aveva perso l’arto inferiore sinistro. Fisso l’immagine nella mente. Paola affonda il coltello nella ferita, la bambina che venerdì è stata operata d’urgenza perchè i capelli gli si erano intrappolati in un ordigno infernale, la rudimentale macchina per spremere la canna da zucchero, è ancora sotto sedativi ma sta molto meglio: salva. Guardo la mia valigia, un breve sospiro e con lentezza la ripongo sotto il letto. Non mi servi, non oggi.

Enrico Catassi

SALVINI A ROMA, BIBI A GERUSALEMME

Nel dicembre 2018 l’allora ministro degli Interni Salvini si recava in visita ufficiale in Israele. Di quel viaggio poco “diplomatico” ma molto “politico” sono cronaca due episodi: il breve incontro con il primo ministro Netanyahu e il mancato ricevimento del presidente Rivlin, giustificatosi con la scusa dello stretto programma dell’agenda presidenziale. Non fece notizia la protesta inscenata da attivisti di sinistra israeliani mentre Salvini si trovava allo Yad Vashem, il memoriale della Shoah a Gerusalemme. Qualche motivo di tensione invece lo crearono le foto scattate dalle alture del Golan, illegalmente occupato per la Comunità internazionale ma riconosciuto da Trump, mentre ispezionava una postazione militare israeliana. Binocolo e selfie a poca distanza dalle vicine truppe d’interposizione della missione italiana in Libano. Ovviamente Salvini, che non era il reggente della politica estera, non si sbilanciò in dichiarazioni troppo forti. Allora evitò di entrare nella questione, complessa, di Gerusalemme e di un conflitto apparentemente irrisolvibile tra palestinesi ed israeliani. Dimostrò, tuttavia, una propensione filo-israeliana, che ha confermato in queste ore quando in un’intervista al giornale Israel Ha-Yom, ha affermato, senza più indugi, che riconoscerà Gerusalemme capitale d’Israele, appena diventerà premier. Un’atteggiamento chiaramente riconducibile all’alleanza stretta con l’inossidabile primo ministro e leader del Likud, Benjamin Netanyahu. Statista ed ormai punto di riferimento del sovranismo. Un falco della politica ed un abile populista. Ma sopratutto un fine diplomatico capace di ottenere dall’amico Trump l’impossibile, due riconoscimenti di sovranità su territori contesi da anni, appunto il Golan e Gerusalemme, quale capitale dello stato. Scatenando la reazione internazionale, ma scardinando di fatto le fondamenta dello status della città e disegnando una nuova mappa geografica della regione.
“Quando gli accordi sono difficili, prevale sempre la pratica delle scelte non negoziate: la quale peraltro si basa purtroppo sulla forza e sull’unilateralismo del più forte”. Scrive il professor Cardini in un bellissimo saggio dedicato alla “Santa”. Una città che racchiude unicità e criticità, e il cui futuro, come il suo passato, dipendono dalle profonde dinamiche che ruotano intorno a ideologie e religioni. Che come ci ricordò in un colloquio il Patriarca latino Pizzaballa “in Terra Santa politica e religione sono come benzina e fuoco”. Un luogo dove errori si sommano ad errori. Dove lo spirito di pace è sopraffatto dalla doppiezza degli estremismi e del fanatismo; dall’ambiguità dei palestinesi sul riconoscimento di Israele. E quella del mancato rispetto delle, tante, risoluzioni dell’ONU. Gerusalemme è una città che tende a deformare tanto la realtà quanto l’immagine che riflette, difficile da conoscere, da interpretare. Un libro aperto da cui superficialmente si tende a prendere, non a caso, solo le pagine che fanno più comodo al proprio tornaconto. Abraham Yehoshua in un lunga intervista rilasciata a Wlodek Goldkorn disse che con la fine della prima guerra arabo-israeliana: “la Gerusalemme araba era diventata per gli israeliani la faccia nascosta della Luna, e così la parte ebraica per gli arabi”. Quella frattura oggi non si è ancora ricomposta.

BETLEMME NATALE 2019

Betlemme, l’albero nella piazza della Mangiatoia, il profumo di falafel appena fritti, le keffiah colorate appese nei negozi, i pellegrini in processione per scendere nella Grotta dove la tradizione riporta sia nato Gesù, il sancta sanctorum del complesso della basilica della Natività. Siamo nella culla della cristianità, ma anche in un luogo pieno di contraddizioni e segnato da un conflitto eterno. Mentre, a livello internazionale c’è attesa di conoscere i dettagli del piano di pace, definito da Trump l’accordo “del secolo”, che già nella prima fase ha suscitato perplessità e appare destinato a scarse possibilità di successo. Intanto, le iniziative della cooperazione italiana in favore della popolazione palestinese non vengono meno, nemmeno a Betlemme. Come ci spiega Fabio Sokolowicz, console generale d’Italia a Gerusalemme. “L’Italia è stata in prima linea nei lavori per il restauro della Basilica della natività, avviati nel 2013 ed eseguiti da un’azienda di Prato. Un impegno a tutela del patrimonio storico, culturale e religioso che è in linea con la sensibilità e l’expertise italiani in questo settore e che, non per caso, vedrà esperti del nostro Paese impegnati prossimamente nel restauro dell’altro luogo-chiave della cristianità: la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme”.

Le iniziative di solidarietà sono delle finestre aperte che non abbattono muri ma tengono in essere un rapporto, un legame, fatto di dialogo e comprensione.

“Betlemme è sede di alcuni dei più importanti interventi della nostra Cooperazione allo sviluppo. Tra i progetti più importanti finanziati c’è il Centro Mehwar, il primo centro antiviolenza in Palestina e nella regione, impegnato a fornire rifugio, protezione e assistenza legale a donne vittime di violenza di genere e ad assisterle per un reinserimento positivo nella società. Tra gli obiettivi della nostra Cooperazione c’è anche quello di sostenere la Municipalità nel rafforzamento delle proprie capacità: di recente, abbiamo finanziato un progetto per migliorare l’efficienza energetica del Comune. Abbiamo dato il nostro supporto nel ridisegnare l’illuminazione della Piazza della Mangiatoia e, venendo alle festività, ad alimentare con energie rinnovabili l’albero di Natale, la cui accensione attrae ogni anno migliaia di turisti da tutto il mondo”.

Il panorama su questa collina della Giudea è invernale, in questo piccolo lembo di terra, tra mille giornaliere difficoltà, resiste un modello d’integrazione, socio-culturale, tra le comunità arabe, quella palestinese cristiana e quella musulmana. Al centro dell’economia l’industria del turismo, che ha avuto periodi altalenanti a causa del riacutizzare, ciclicamente, delle violenze. Ciononostante la chiesa della Natività è il luogo più visitato dai turisti, la vetrina della Palestina.

“Con un numero di pellegrini (anche italiani) in crescita ogni anno, l’aspetto religioso crea un legame indissolubile tra Italia e Betlemme, ma non esaurisce, in sé, il ruolo e la presenza dell’Italia in una città che è anche uno dei principali centri della vita economica e culturale palestinese”.

La città di Davide e di Gesù è un luogo dove i giovani non hanno molte prospettive, la loro è per molti aspetti una testimonianza di resilienza difronte alle evidenze della realtà.

“A Betlemme si sono svolte, il mese scorso, anche alcune delle iniziative legate alla Settimana della Lingua e poi di quella della Cucina italiana nel mondo: l’Università di Betlemme ha ospitato uno chef italiano, che ha insegnato a giovani aspiranti cuochi i segreti della nostra cucina, avviando collaborazioni con istituzioni italiane del settore. L’obiettivo, in questo caso, non è solo promuovere la cultura italiana, ma anche aiutare le Autorità locali a rafforzare le proprie competenze nel settore del turismo e dell’accoglienza, che può costituire un volano importante per la crescita dell’economia palestinese. Il prossimo anno, con Betlemme che sarà Capitale della Cultura araba, intendiamo rafforzare ulteriormente gli eventi culturali italiani nella città”.

L’ORA DI GANTZ DOPO LA MEZZ’ORA DI NETANYAHU

Il futuro governo di Israele è sospeso tra la paralisi del parlamento e il rischio di ritorno alle urne per la terza volta in meno di dodici mesi. Nel mezzo il sempre eterno primo ministro Benjamin Netanyahu che non ha nessuna intenzione di lasciare la scena, costretto, non avendo trovato una maggioranza che lo sostenga, a rimettere il mandato esplorativo per creare un nuovo esecutivo dopo le elezioni di settembre. Nel sistema istituzionale israeliano i margini di manovra del presidente Reuven Rivlin, in situazioni come quella attuale, sono ridotti a tre porte, che la più alta carica dello stato può aprire a suo piacimento: ha offerto al leader del Likud Netanyahu la prima occasione, e poi ha passato ufficialmente il testimone all’altro aspirante premier, il frontman di Kachol Lavan Benny Gantz, anche lui, numeri alla mano, destinato a non andare troppo lontano, a meno che non scelga di infilarsi nel tortuoso percorso di un governo di minoranza con l’appoggio esterno della lista araba e della sinistra sionista. Un’esperimento fragile già provato in passato (da Rabin nel 1992 e Barak nel 1999) e facilmente deteriorabile. Gantz teoricamente ha ancora tempo disponibile per diventare il prossimo primo ministro, se anche l’ex capo di stato maggiore ammettesse l’impossibilità di traghettare il Paese nell’era post-Netanyahu allora, avrebbe strada libera un terzo ed ultimo candidato vincolato ad avere l’appoggio di almeno 61 parlamentari, altrimenti scioglimento della Knesset ed elezioni nei primi mesi del 2020. Il ritorno alle urne sarebbe un boccone amaro sopratutto per Rivlin, impegnato pubblicamente a sostegno della nascita di un governo di unità nazionale, che abbia nei due principali partiti Likud e Kachol Lavan le colonne portanti, con tetto la rotazione del leader. Gantz e Netanyahu in questi giorni hanno avuto modo di sedersi al tavolo, stringersi la mano, guardarsi negli occhi. Rapporti cordiali che non hanno prodotto, almeno per ora, nulla di sostanziale nella trattativa. A dividere gli schieramenti non c’è una tassativa contrapposizione ideologica, il nodo del contendere è la figura di Netanyahu e la sua ferma richiesta di restare l’inquilino di Balfour street, almeno il tempo per proteggersi dagli scandali che lo riguardano: entro dicembre la procura generale dovrà pronunciarsi sulla sua incriminazione per tre casi di corruzione. Intanto, i media pubblicano ampi stralci degli interrogatori. L’arte politica del falco della destra è contornata dalla costante ricerca della sfida nell’arena politica: si è imposto sulla sinistra, ha congelato gli accordi di pace con i palestinesi, ha quindi attaccato gli arabi israeliani, l’Iran, la stampa e infine la magistratura. Appare invincibile anche quando è in realtà debole, relegato, come in queste ore, ad aspettare gli esiti del tentativo di Gantz. Teme che qualcuno possa detronizzarlo, e per questo sono in molti a ritenere che è già con la testa alla prossima campagna elettorale, con lui come star.

DOSSIER KURDISTAN

Erdogan, il sultano di Istanbul, è determinato ad andare avanti nel suo piano di “decurdificazione” della vicina Siria, con un’operazione militare di pulizia etnica della zona a ridosso del confine tra i due stati del Medioriente. Una pagina di guerra nella guerra destinata a modificare la geografia del Paese martoriato da anni di conflitti. In Siria la minoranza curda rappresenta circa il 10% della popolazione, in Turchia sono circa 13milioni. Nella storia contemporanea la prima vera ribellione di stampo nazionalista dei curdi si ebbe nel 1881, una rivolta che la Sublime Porta represse nel sangue, l’Impero Ottomano aveva iniziato a sgretolarsi, tuttavia, il pugno duro contro la minoranza non venne meno. A partire dagli anni ’80 dello scorso secolo il regime di Hafez al-Assad ha fornito sostegno strategico al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e rifugio al suo leader storico Abdullah Ocalan. L’aver sposato la causa dell’indipendentismo curdo, seppur non ufficialmente, era per Damasco l’arma puntata su Ankara. In quel periodo, per sfuggire all’ondata di repressione del governo turco e l’intensificarsi delle azioni terroristiche, in migliaia di curdi passarono il confine, stabilendosi in Siria, mantenendo così uno stretto legame tribale e politico con coloro che erano rimasti sul suolo turco. Le tensioni tra i due stati ebbero un picco nel 1988 e un conflitto pareva imminente. Il popolo curdo era diventato ancora una volta una pedina, sacrificabile, al tavolo delle trattative diplomatiche. Come era avvenuto nel 1920 con il trattato di Sevres, dove per la prima volta venne disegnata una carta geografica con lo stato del Kurdistan. Ma già tre anni dopo a Losanna le potenze europee avevano stracciato quella mappa, ammainato e calpestato la bandiera del diritto all’autodeterminazione di quel popolo e raggiunto un’intesa con il nascente stato turco. Il dossier curdo finì in un cassetto delle cancellerie e ci rimase sino alla seconda guerra del Golfo. Intanto, nel 1998 la Siria aveva invertito i rapporti e sottoscriveva ad Adana uno storico accordo con la controparte turca. La cooperazione andò ben oltre quanto siglato nel trattato: la polizia dette un giro di vite all’apparato del PKK, smantellando la rete di comunicazione e propaganda dell’organizzazione, vietarono le pubblicazioni anti-turche e proibirono le manifestazioni; escludendo le candidature alle elezioni per i simpatizzanti del movimento. E acconsentendo ai soldati della mezza luna di inseguire i nemici anche nel proprio territorio. L’ascesa in parallelo di Erdogan e Bashar al-Assad fortificò le relazioni, sia sul piano commerciale che sulla sicurezza, entrò in vigore il principio “zero problemi tra vicini”. Il labirinto della guerra civile avrebbe però qualche anno dopo portato alla rottura dell’amicizia, e ad un riavvicinamento con il movimento autonomista curdo. Mentre, all’orizzonte il sultano con giannizzeri e jihadisti manovra per imporre la dottrina dello “zero vicini”.