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ISRAELE A SPICCHI

Israele è un paese in tilt, e la ragione non è solo la guerra, che non è comunque un corollario. Il caos imperante è attribuibile a una classe politica che, pur eletta democraticamente, si sapeva aprioristicamente avrebbe potuto deragliare, trascinando la nazione in un condensato di tensione e attesa. È il fallimento attestato e drammatico di un governo tutt’altro che all’altezza del compito affidato: non ha garantito la sicurezza dei propri cittadini, non ha mantenuto la tenuta sociale, ha invece puntato a smantellare il patto “costituzionale” vigente. Di questa crisi è parte integrante Benjamin Netanyahu, principe machiavellico pluri indagato che ha saturato “l’ambiente” con una narrativa inadeguata, una prospettiva infelice e una pessima gestione del potere. Culminata nella mancata liberazione degli ostaggi. Come spiega su Haaretz Noa Landau: “Netanyahu cerca di presentare alla sua base politica una scioccante equazione populista: o un accordo per liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, o la sicurezza di tutti gli altri cittadini israeliani. Come primo ministro deve prendere la strada maestra: sacrificare gli ostaggi per un bene immaginario più grande. Questa, tuttavia, è un’equazione completamente falsa… l’uomo che ha costruito, esaltato e reclamizzato il marchio di ‘Mr. Sicurezza’ per tutta la sua carriera politica, con costanza esemplare, ha in realtà ottenuto l’esatto contrario”. Viceversa, la disgrazia per i palestinesi si chiama Hamas. Che non rispetta nessuna regola “civile”, ma non può essere annientata totalmente con le armi. Sconfitta invece sì. Ed in parte militarmente è stato fatto, in questi mesi, al costo di migliaia di civili palestinesi e centinaia di soldati israeliani. Dissente dalla strategia in atto Yitzhak Brik, generale riservista: “Se continuiamo a combattere a Gaza penetrando e compiendo raid sempre sugli stessi obiettivi, non solo non porteremo Hamas al collasso, ma crolliamo noi stessi. Non molto lontano da oggi non saremo in grado di effettuare questi ripetuti attacchi, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati aumenta. Hamas, al contrario, ha già riempito i suoi ranghi con ragazzi di 17 e 18 anni”.

La realtà di Israele è nella fotografia di un giorno qualunque: nella notte di domenica una marea umana è scesa in strada a Tel Aviv, chiedendo la liberazione degli ostaggi. La mattina seguente alla protesta si è aggiunto lo sciopero generale, indetto dal sindacato Histadrut e poi revocato dal tribunale. Intanto, l’estrema destra inscenava la sua contromanifestazione a Gerusalemme, accusando la federazione dei lavoratori di incoraggiare il terrorismo, stessa linea che adotterà anche Netanayhu nel corso della giornata. Contemporaneamente fuori dall’ufficio di reclutamento dell’esercito a Tel Hashomer decine di giovani religiosi ultraortodossi protestavano per il diritto all’esenzione dalla leva obbligatoria. Mentre a Gaza si sparava e al confine con il Libano sistematicamente risuonano le sirene di allarme missilistico. Infine, il partecipato e commovente funerale di Hersh Goldberg-Polin. Lacrime e scuse, portate dal presidente Isaac Herzog: “a nome dello Stato di Israele, per non essere riusciti a proteggervi nel terribile disastro del 7 ottobre, per non essere riusciti a riportarvi a casa sani e salvi”. Persino Netanyahu nell’appello televisivo serale chiede perdono, ma non torna indietro sulla trattativa. Fuori dal coro, e come al solito inappropriate, le parole del ministro Itamar Ben-Gvir che non si vergogna a dire pubblicamente di fare tutto ciò che è in suo potere per impedire il negoziato.

Israele è divisa in spicchi: il fronte degli anti-Bibi e pro tregua è in crescente ebollizione. La fazione dei filo-Bibi e per tenere ad oltranza i piedi a Gaza è guardinga. La porzione dei dogmatici, coloro che osservano la fede, prima della legge, viaggia invece in un mondo chiuso. Mentre, la quarta fetta o componente di Israele, gli arabi, è silente e teme di essere isolata ancora di più. Uscire da questo labirinto senza la frantumazione è oggettivamente il vero problema da dirimere. A trainare la pacificazione sociale non basta il dolore per le vittime e nemmeno la guerra a Gaza, forse una guerra su larga scala potrebbe cambiare lo stato d’animo generale. Sicuramente in questo contesto non può essere fatto affidamento sul fattore economico, per tenere i rami della pianta ben saldi al tronco. La stima dei costi dell’attuale conflitto è tra 50 e 70 miliardi di dollari. Il ministero della difesa prevede che occorrano investimenti di circa altri 6 miliardi. Nel 2024 il giudizio del rating finanziario dei mercati non è stato positivo. Lo shekel ha perso potere d’acquisto. Il deficit in estate è balzato all’8,1%. Il settore del turismo (3% del PIL) è evaporato. Last but not least, il fatto che a presentare la legge di bilancio è il ministro di estrema destra Bezalel Smotrich, poco avvezzo alle oscillazioni del paniere ma diligente nello spostare risorse verso gli insediamenti in Cisgiordania, anche a quelli illegali per la legge israeliana.

Del tutto improbabile che la riconciliazione interna avvenga su ispirazione del procuratore generale Gali Baharav-Miara. Le sue raccomandazioni, compresa quella dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fatti del 7 ottobre e sui presunti crimini di guerra compiuti a Gaza, sono state immancabilmente respinte dal governo. Che non la vuole ascoltare, pensando di rimuoverla.

E allora appena ci sarà la tregua militare, l’unica soluzione praticabile è il ritorno al voto, con l’incognita del risultato. Perchè se vincesse Bibi vi sentirete ripetere: “Questa è la democrazia”.

IL PALESTINESE CHE RESTAURAVA LA STORIA

Osama Hamdan, non il noto terrorista ma il bravissimo architetto palestinese, era mio amico. Portare lo stesso nome e cognome, di uno dei leader storici di Hamas, comportava talvolta esilaranti equivoci. Ricordo benissimo la faccia dell’addetto alla sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, mentre sfogliava le pagine del suo passaporto. Panico imbarazzante. In effetti se pensi di avere davanti a te uno dei primi della lista dei ricercati dai servizi segreti israeliani qualche effetto istintivo naturale lo provoca, a chiunque. Soprattutto quando solo pochi secondi prima gentilmente gli avevi augurato buon giorno e preso in mano il suo documento d’identità, in totale leggerezza e pronto a fargli fare la trafila di rito che tocca ai palestinesi gerosolimitani. Comunque, a spiegargli che non si trattava della stessa persona ma di un semplice caso di omonimia fu lo stesso Osama, molto divertito dall’episodio. Per piccolo e ridicolo che possa sembrare tutto ciò se sei palestinese lo devi mettere in conto, purtroppo è la normalità e ti ci devi abituare.
Una estate mi capitò di farmi ospitare a casa sua. Clara (sua moglie) con Marta e Alessia (le figlie allora bambine) erano in vacanza in Piemonte, dai nonni. Il mio arrivo portò cene e aperitivi. Negli anni a seguire Osama nel giustificarsi di quella mia allegra presenza amava dire a Clara: “Enrioo invitava un sacco di gente diversa”. Clara che ovviamente ci conosceva bene non si è mai arrabbiata, ne’ con me ne’ con lui. L’abituale appuntamento mattutino che ci eravamo prefissati era la sigaretta e il caffè. Quando non era troppo tardi lo prendevamo in veranda. Ricordo con dolcezza Osama fumare e guardare con una sorta di adorazione il panorama di Gerusalemme. In tutta onestà alcune volte non capivo a cosa pensasse, altre invece discutevamo di tutto. Succedeva che lo accompagnassi da Sebastia a Gerico, da Betlemme all’Ikea di Petah Tiqwa. Oppure a comprare il pesce a Jaffa, alla vigilia del Natale. Per più di 10 anni ho passato in quella casa le feste, in famiglia. Che prendevano il via con: “Ti va un Campari per aperitivo?”. La risposta era ovviamente: “Sì!”. Osama Hamdan era una persona solare. A cui piaceva la semplicità e la giustizia. Intellettuale di una sinistra palestinese andata svanendo nel tempo, ma che resta radicata nel dna di un popolo oppresso. Fagocitata tanto dal fondamentalismo quanto dall’ immoralità manifesta della congrega di Arafat. Un giorno si parlerà delle ingiustizie perpetrate da chi governa oggi i palestinesi, come del resto delle vessazioni imposte dall’occupazione israeliana, Osama lo raccontava da oltre vent’anni. E come il saggio che ascolta il vento non vedeva nulla di buono all’orizzonte. Forse la convinzione che la bottiglia del dolore non aveva fondo ha spinto Osama Hamdan a dimostrarsi all’altezza degli eventi. Ha ricevuto onorificenze in mezzo mondo, inclusa quella di cavaliere della repubblica italiana. Ha collaborato con l’archeologo padre Michele Piccirillo, ha scritto e riformulato la storia dell’architettura e del restauro palestinese, grazie anche al vincolo di sodalizio con l’esperta Carla Benelli. Ha svolto lui teoricamente musulmano, ma totalmente agnostico, i lavori al Santo Sepolcro e alla Natività, mettendo quasi sempre tutti d’accordo, cosa non semplice nella fragile e complessa rete di rapporti per non alterare lo status quo. Vederlo passeggiare sotto le navate al seguito dei frati francescani che pendevano dalla sua infinita conoscenza è la foto che ho stampato nella memoria del nostro ultimo incontro, era una calda mattina di autunno del 2022. La sera prima avevamo cenato insieme. Appariva stanco e provato. La malattia lo stava lentamente prosciugando. Lui non si arrendeva. Terminata la cena uscimmo sul patio: “Mi offri una sigaretta? Mi va di fumare”. Sapevo che aveva smesso da tempo. La vista che avevamo difronte non era più quella del passato rivolta alle mura della città Vecchia, le cose e le case cambiano e adesso la nuova dimora degli Hamdan guarda verso il deserto. Mi raccontò delle cure in ospedale e della contentezza di essere diventato nonno. La figlia minore Alessia venne a sedersi accanto noi, con il suo narghilè alla mela. Quando l’aria incominciò ad essere pungente intervenne: “Baba ti porto una coperta?”. Osama scosse la testa: “Meglio rientrare”. Penso che avrei potuto resistere al freddo polare pur di continuare per ore quella conservazione.
Triste oggi ripensare a quel momento, a Gerusalemme senza il compagno Osama.

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MR NO

La mattina di Venerdì 19 gennaio 2023 alla Casa Bianca, Biden è seduto nel suo ufficio, alla cornetta del telefono. Il capo opposto del filo è a Gerusalemme. Dove intanto è sceso lo Shabbat. “Hello Bibi!”. Netanyahu risponde: “Shalom Joe”. Il motivo della chiamata è ovviamente la guerra a Gaza e le tensioni in Medio Oriente. La voce del presidente statunitense non è squillante e suona depressa. “È un po’ che non ci sentiamo. Ma mi pare che dall’ultima volta le cose non siano cambiate molto. Hai mica pensato hai suggerimenti che ti ho dato?”. Il premier israeliano si affretta a chiarire: “Guarda, ci ho riflettuto (bugia). E non mi pare che l’idea di uno stato palestinese sia una bella trovata. A mio avviso sa troppo di sinistra. Non vorrai mica che mi rimangi tutto quello che ho vomitato addosso a Rabin”. Biden ora è indispettito, quasi arrabbiato: “Allora, cosa proponi?”. Il falco della destra prende la parola: “Beh, ci sarebbero tre o quattro soluzioni che mi frullano in testa. Smotrich avrebbe un progetto per costruire a Gaza un centro residenziale, riportare i coloni a vivere nella Striscia e buttare fuori tutti i palestinesi (oltre due milioni di persone). Nel mio partito (il Likud) c’è invece chi pensa di dividere Gaza in tanti piccoli emirati (meglio se governati da clan che tra di loro non si sopportano). Poi ci sono i militari che propongono una fascia di sicurezza, che io indicativamente estenderei ad una ventina di chilometri (nel punto più ampio dal mare Gaza misura 12 km). Comunque, mi sembrano tutte alternative molto interessanti da sviluppare, che dici?”. Non c’è risposta, silenzio. “Hey Joe ti sarai mica addormentato? Pronto?”. Passano i minuti e si sente finalmente una voce: “Primo ministro di Israele mi spiace informarla che il nostro presidente è svenuto, lo stiamo rianimando”. Netanyahu è allarmato dalla notizia sulle condizioni del suo amico. “Mi dispiace. Facciamo così quando si è ripreso gli riferisca pure che la telefonata per me è andata bene, e che non si stia a preoccupare tanto finirò la conversazione con Trump”.
Dalla finzione alla realtà, 40 minuti di colloquio “cordiale”: “Il Presidente e il Primo Ministro hanno discusso degli sforzi in corso per ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi rimasti detenuti da Hamas… Il presidente ha anche presentato la sua visione di pace e sicurezza duratura per Israele, pienamente integrata nella regione, con la soluzione a due stati”. Il commento ottimistico di Biden ai giornalisti: “Ritengo che saremo in grado di trovare una quadra”. La precisazione non proprio diplomatica di Netanyahu sui social: “Non scenderò a compromessi sul pieno controllo della sicurezza israeliana su tutto il territorio a ovest del fiume Giordano, e ciò è contrario a uno stato palestinese”. Chiarissimo. D’altronde è lo stesso concetto espresso, in modo istituzionale, dal presidente Herzog al forum di Davos, pochi giorni fa: “Nessun israeliano sano di mente sta pensando al processo di pace in questo momento”.

Quello che attualmente pensano gli israeliani verte sulla questione degli ostaggi. Una parte di pubblico, scesa in migliaia nelle piazze, chiede l’avvio di una trattativa immediata con Hamas per il rilascio di tutti gli ostaggi. Con la disponibilità ad uno scambio di prigionieri e pronti ad accettare che Hamas partecipi al prossimo governo di Gaza. Nel polo opposto della società c’è chi è convinto che non sia il momento di scendere a patti. Il prezzo della liberazione degli ostaggi è troppo alto da pagare e l’operazione militare deve essere portata a termine. Infine, c’è una fetta degli israeliani che è favorevole al negoziato, ma con due condizioni: “Hamas fuori, sicurezza su Gaza a Israele”. Sulla strategia da tenere il gabinetto di governo rischia di spaccarsi. L’intransigenza di Bibi irrita Gantz e i suoi. Gadi Eisenkot è già in rottura completa. L’attuale maggioranza traballa, il filo che la tiene unita è sul punto di strapparsi. Può accadere ad ogni angolo. Per l’ex premier e pluridecorato generale Ehud Barak è giunto il tempo di indire elezioni anticipate: “prima che sia troppo tardi”. La campagna militare a Gaza corre ormai parallela con quella della propaganda, in modalità “elettorale”, di Bibi.

Mark Lowen corrispondente della BBC da Gerusalemme: “Il primo ministro israeliano sembra aver puntato la sua sopravvivenza in politica attestandosi su una posizione anti-palestinese intransigente. Non può più vendersi come “Mr Sicurezza”, dopo che il peggiore attacco nella storia di Israele è avvenuto nel suo mandato. E così oggi è il turno di presentarsi come “Mr No” allo stato palestinese: una posizione creduta in linea con l’umore generale della gente che, pur essendo disinammorata dal suo primo ministro, è ancora troppo traumatizzata per concepire uno stato palestinese nella porta accanto”. Il prossimo inganno del mago Bibi è convincere gli spettatori a restare pazienti. Ma il trucco non è credibile.

VIII FRONTE

In Israele corrono paralleli la campagna militare, in risposta agli eventi del 7 ottobre, e la lotta sulla riforma della giustizia avanzata dall’esecutivo di destra. Se al fronte di Gaza i soldati dell’IDF combattono Hamas casa per casa, a Gerusalemme Netanyahu incrocia la spada con la Corte Suprema, in uno scontro che da un anno investe il futuro del sistema democratico del paese. Al centro del contendere la delicata sfida sull’assetto del bilanciamento dei poteri, una partita giocata sul filo di lana tra giudici e parlamento, piazza e Bibi. Goffo picconatore e perdipiù entrato in una congiuntura astrale negativa. Di umore presumibilmente pessimo per la bocciatura delle politiche introdotte dalla sua maggioranza, che teoricamente avrebbero dovuto essere il suo paracadute in caso di evenienza. Ed invece si sono dimostrate un infelice castello di carte.
“La sentenza della Corte Suprema prova che la fortezza democratica di Israele non è caduta”, titolava Haaretz dopo che la Corte Suprema ha annullato l’emendamento che gli aboliva il diritto ad applicare lo standard di ragionevolezza, a carico delle decisioni del governo. Norma grazie alla quale pochi mesi prima i giudici avevano stabilito che il leader del partito Shas, ministro della Sanità e vice premier Arieh Deri, recidivo nel commettere reati penali, non era compatibile con la carica affidata da Netanyahu. La decisione di lasciare inalterato lo standard di ragionevolezza è un vero e proprio ceffone, politicamente parlando, rifilato a Netanyahu. La notizia ha ovviamente animato il dibattito politico, “congelato” in tempo di guerra. Torna a farsi sentire la voce di Yair Lapid, leader dell’opposizione: “Il pronunciamento dell’Alta Corte suggella un anno difficile di conflitto interno che ci ha dilaniati e ha portato al peggior disastro della nostra storia. La fonte della forza di Israele, la base dello stato, è il fatto che siamo un paese ebraico, democratico, liberale e rispettoso della legge. Oggi, la Corte Suprema ha adempiuto fedelmente al suo ruolo di protezione dei cittadini di Israele, e noi le diamo il nostro pieno appoggio. Se il governo israeliano rinnova la disputa alla Corte Suprema, allora non ha imparato proprio nulla”.
Di vittoria della democrazia parla anche la storica organizzazione HaTnu’a Lema’an Ekhut HaShilton BeYisrael (Movimento per la Qualità del Governo in Israele): “Questo è un verdetto storico. Il governo e i ministri che hanno cercato di escludersi dallo stato di diritto sono stati informati che a Gerusalemme ci sono i giudici. C’è la democrazia. C’è una separazione dei poteri. E la fortezza – come la definì Menachem Begin – è ancora in piedi”.
Nel campo delle truppe di Netanyahu non si sprecano le aspre critiche all’indirizzo delle toghe. Il primo a lanciarsi nella mischia, sentendosi direttamente chiamato in causa, è stato ovviamente il ministro della Giustizia Yariv Levin, che per nulla scoraggiato ha commentato: “La scelta dei giudici della Corte Suprema di pubblicare la sentenza in tempo di guerra è l’opposto dello spirito di unità richiesto in questi giorni. Con questo provvedimento i giudici stanno effettivamente prendendo nelle loro mani tutti i poteri”. All’architetto e promotore della contestata riforma ha fatto eco il collega e ministro delle Comunicazioni Shlomo Karai: “I giudici dell’Alta Corte insistono nel dimostrarci ancora una volta quanto siano disconnessi dal popolo e non rappresentino la sua maggioranza”. Sulla stessa linea il presidente della Knesset Amir Ohana: “Va da sé che la Corte Suprema non ha l’autorità di cancellare le leggi fondamentali. Ciò che è ancora più ovvio è che non possiamo impegnarci in questa discussione finché la guerra è in corso”.
Mentre l’alterco andava nel corso delle ore scemando ecco i giudici tornare a pronunciarsi di nuovo, con il secondo affondo in meno di una settimana. Stabilendo che la legge di ricusazione, che prevede di eliminare un eventuale ordine del tribunale di dimissione del primo ministro, debba entrare in vigore nella prossima legislatura. L’obiezione presentata alla norma, ribattezzata non a caso salva Netanyahu, è per la natura “chiaramente personale” del decreto, e quindi costituiva un uso improprio del potere della Knesset di approvare e modificare le leggi fondamentali. Le motivazioni presentate dalla Corte al nuovo testo del codice giuridico, per quanto possano apparire inopportune nella tempistica, sono tuttavia determinate dalla scadenza del 12 gennaio, limite entro il quale due giudici in pensione si sarebbero dovuti esprimere. Tutto qui. Nulla di orchestrato ad orologeria dalle “toghe rosse” nei confronti di Netanyahu.
Scrive il giornalista Amotz Asa-El, storica firma del Jerusalem Post: “Questa riforma ha diviso il popolo e ha lasciato che la maggioranza cancellasse la minoranza. Il principio costituzionale è sfuggito a Levin, il cui scopo non era quello di dare potere al popolo, come le costituzioni sono progettate per fare, ma di togliere potere ai tribunali”. Nella feroce battaglia al potere giudiziario Asa-El vede schierate tre “abominevoli” fazioni: “i monarchici, i separatisti e gli zeloti”. Coloro che nel Likud vorrebbero elevare re Bibi al di sopra della legge. Coloro che nei partiti religiosi vorrebbero violare il principio di uguaglianza davanti alla legge. E infine l’estrema destra che vorrebbe ignorare i diritti degli arabi. Fino ad oggi queste tre “divisioni” di armigeri si sono mosse compattamente verso il loro obiettivo. Che non è quello dei generali dell’IDF e tantomeno del ministro della Difesa Yoav Gallant. L’ottavo fronte di guerra, dopo Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen e Iran, è quello destinato a spaccare l’unità di Israele.

PAUSA

E venne la tregua. Concordata. Raggiunta grazie alla mediazione dall’alto. Via libera allo scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi. Oggi non si combatte, ma presto le ostilità riprenderanno da dove le abbiamo lasciate. Quando il conflitto israelopalestinese sarà tornato alla sua “assurda normalità”, e prima o poi accadrà, ci troveremo davanti ad un quadro ancora lontano dalla pace. Israele una volta vinta la guerra contro Hamas dovrà decidere che cosa fare di Gaza e che rapporti avere con l’Autorità nazionale palestinese. Al momento non è chiaro quale sia la soluzione “migliore” da adottare. Se da un lato la direttiva militare è incanalata a sradicare i terroristi (e il loro apparato), dall’altro è nebulosa la prospettiva di avere una controparte palestinese che amministri il territorio, un partner con cui dialogare e cooperare. Evitando in questo modo di finire impantanato in una occupazione, a tempo indeterminato, dell’intera Striscia di Gaza o di sue porzioni. Le tante, e forse troppe, idee che circolano (dalla frammentazione territoriale in stile emirati ad una forza di interposizione sul modello Libano) sono il segno dell’assenza di un progetto sostenibile, e ciò purtroppo fa gioco ad Hamas.

Alcuni paesi arabi e l’Occidente premono, da settimane, per un futuro ritorno dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza (da cui è fuggita a gambe levate nel 2007). Una scelta che di per sé verrebbe da dire naturale, se non fosse che la Muqata di Ramallah (il palazzo presidenziale e dimora di Abu Mazen) è invisa alla maggioranza dei palestinesi, percepita come organo di una dirigenza nepotistica e corrotta. Inalterata resta invece l’immagine di Arafat, che di questa deprimente deriva fu l’artefice principale e causa. Sua la firma sulla strategia terroristica dell’ala armata di Fatah nella Seconda Intifada. In sua vece a sporcarsi le mani di sangue di civili israeliani fu Marwan Barghouti. Della figura di Barghouti il rais se ne liberò quando il suo protetto era diventato troppo ingombrante. La divergenza con la corrente di Abu Mazen (punto di riferimento della potente nomenclatura dei funzionari dell’OLP di ritorno dall’esilio in Tunisia) era sfociata in una rottura interna, insanabile. Barghouti oggi è recluso in prigione in Israele, dove sconta cinque ergastoli. Di lui si parla come potenziale leader unificante. Innegabile che goda di diffusa popolarità e carisma. Un palestinese su tre dichiara che voterebbe per lui. La sua liberazione, che non crediamo sia imminente, avrebbe come primo scopo l’epurazione della stretta cerchia di Abu Mazen. Chiamatela pure vendetta ma è quanto Barghouti ha giurato a coloro che considera i suoi traditori. Che sia una personalità in grado di comandare sono in molti a crederlo. La sua scarcerazione è una patata bollente.

L’altro candidato alternativo all’establishment della Muqata per la futura gestione di Gaza, anche lui cresciuto sotto l’ala di Arafat e fuori dalle grazie di Abu Mazen, è Mohammed Dahlan. Un passato da esponente di spicco di Fatah. Uomo forte nella città di Khan Yunis. Capo indiscusso della sicurezza a Gaza fino a quando non ha perso il controllo della Striscia per l’insorgere di Hamas. Con la barca che affondava ha tolto le tende. Ritirandosi il più lontano possibile, vive nel lusso ad Abu Dhabi. Dietro la sua nomina (su cui aleggiano dubbi non solo alla Casa Bianca) ci potrebbe essere la convergenza tra Israele, Egitto ed Emirati. Non poco geopoliticamente ma non abbastanza per impiantarlo stabilmente al potere. Lui comunque non si nasconde. Prima di muoversi chiede però solide garanzie.

Un nome su cui si rumoreggia è Mustafa Barghouti, uomo di sinistra, noto medico e convinto fautore dell’azione non violenta. Non è una novità del panorama politico palestinese. Nel 2005 con l’appoggio del Fronte Popolare ha sfidato nelle urne per le presidenziali gli eredi di Arafat, superando la soglia del 20%. Fu un successo inaspettato, falsato dalla mancata partecipazione al voto di Hamas. Alle legislative dell’anno seguente il suo movimento crolla sotto il 3%. Nel corso degli anni ha perso smalto. Le competenze, la dialettica, la storia avrebbero potuto fare di lui un vero trascinatore, così non è stato. Pensare di recuperarlo per questa missione impossibile potrebbe essere una soluzione che accontenta tutti o quasi.

Se invece si volesse rompere completamente lo schema nella ricerca del potenziale leader e andare oltre, l’unica cosa che ci viene in mente è compiere un volo pindarico. Ovvero tirare fuori dal cilindro chi viene dalle fila dei palestinesi israeliani. A questo proposito ci vengono in mente due nomi di politici pragmatici, che potrebbero svolgere una funzione attiva. Ayman Odeh, parlamentare nella Knesset, marxista e guida di Hadash. E Mansour Abbas, deputato ed esponente della forza islamica Ra’am. Il primo è ideologicamente antisionista, il secondo incline al compromesso. Parlano ebraico e arabo, sono israeliani e si sentono palestinesi, hanno indubbia “familiarità” con il contesto. Su una cosa sono chiari, la necessità della coesistenza pacifica e la fine dell’occupazione.

L’ARCO POLITICO DI NETANYAHU FINIRA’ CON UNA COMMISSIONE

Benjamin Netanyahu è un politico sull’orlo di un abisso esistenziale. La sua “monarchia” trema. Nella storia è caduta la famiglia Ceausescu, in Romania, e prima ancora abbiamo assistito al crollo della dinastia Somoza, in Nicaragua. “Bibi” però non è un dittatore. È un populista di destra, propugnatore visionario di un nuovo sistema di democratura 2.0, e forse un corrotto, ma questo spetta chiarirlo al tribunale di Gerusalemme.

C’è chi pensa, e sono in molti, che la sua longeva carriera sia arrivata alla fine. E chi è convinto invece, e sono in pochi, che proclamandosi leader del mondo occidentale nella guerra al terrorismo possa ribaltare le sorti del suo destino, segnato per sempre da quel tragico 7 ottobre. “I due punti più bassi del Pianeta sono in Israele: il Mar Morto e il comportamento di Benjamin Netanyahu. Uno è una meraviglia della natura, l’altro un errore politico”. Così Alon Pinkas su Haaretz. “Bibi” negligente e arrogante. Altre, tante, le critiche che gli piovono addosso dal quotidiano progressista di Tel Aviv. Nehemia Shtrasler chiarisce: “Benjamin Netanyahu è in stato confusionale. È nel panico. Non è adeguato. Ma non a causa dell’orribile debacle di cui è responsabile. Non per le 1.400 persone che sono state massacrate nei modi più brutali. È in preda alla paura per le crescenti pressioni su di lui affinché si dimetta, subito”. E qui il dibattito prende svariate forme. L’entrata in scena di Gantz, e la nascita di un governo di emergenza, sono evidenti segnali di sbandamento dell’asse della Knesset sempre più spostato verso il centro. In questa delicata fase, più che depotenziato il falco del Likud pare essere stato messo sotto attenta osservazione, sia dall’esercito che dalla Casa Bianca. Dove si pensa, ma ancora non si dice, che rappresenti un serio ostacolo al processo di pace.

“Vorrei essere ricordato come il protettore di Israele. Mi basta questo”. L’epitaffio di Mr Sicurezza, che lo stesso Netanyahu ha scelto, è da riscrivere. Yair Rosenberg in The Atlantic scrive: “Quella promessa è stata irrimediabilmente infranta. Il mito che Netanyahu ha assiduamente coltivato riguardo alla sua leadership è stato smascherato”. Ha fallito miseramente, e badate bene il caso non è chiuso. Una volta terminata la guerra, per Israele ci sarà un’inchiesta approfondita, alla ricerca delle colpe. È avvenuto nel ’73, dopo il conflitto dello Yom Kippur. Quando la commissione Agranat rimproverò militari e intelligence, chiedendo rimozioni e allontanamenti. Esente da ogni valutazione fu la politica. Che pagò, tuttavia, il diffuso malessere pubblico, l’11 aprile 1974 Golda Meir rassegnava le dimissioni. È successo nuovamente nel 1982, in seguito agli eventi di Sabra e Shatila quando il governo Begin incaricò il presidente della Corte Suprema Yitzhak Kahan di svolgere indagini sul massacro in Libano. Il rapporto fu una mezza assoluzione per l’allora primo ministro e per il collega di partito e capo della diplomazia Shamir. Ariel Sharon, ministro della Difesa, venne lasciato sulla graticola a cuocere. Ancora una volta l’accusa di negligenza e responsabilità finì sulla testa dei generali. Similari le conclusioni raggiunte dalla Commissione Winograd sulla campagna in Libano del 2006: “Nel periodo esaminato nel Rapporto finale – dal 18 luglio al 14 agosto 2006 – sono emersi risultati preoccupanti: Abbiamo riscontrato gravi mancanze e carenze nell’interfaccia tra il livello politico e quello militare; gravi lacune nella qualità della preparazione, del processo decisionale e delle prestazioni dell’alto comando dell’IDF. Difetti nella pianificazione strategica, sia a livello politico che militare. Abbiamo riscontrato errori nella difesa della popolazione civile e nel far fronte all’attacco con i razzi. Queste debolezze risalgono a molto prima della seconda guerra del Libano”. Nel complesso a destare incredulità fu che un’organizzazione allora semi-militare (e terroristica) come Hezbollah, di poche migliaia di uomini seppe fronteggiare, per alcune settimane, l’esercito più forte del Medio Oriente, “che godeva della piena superiorità aerea e dei vantaggi in termini di dimensioni e tecnologia”. Tutti assolti, per una guerra totalmente inutile e mai terminata.

Anche la prossima commissione sui fatti del 7 ottobre verosimilmente arriverà a conclusioni non dissimili da quelle precedenti, fermandosi ai militari e alle forze dell’intellingence come capro espiatorio. La certezza è che Netanyahu sarà travolto con loro. Come afferma la prestigiosa firma di Haaretz e dell’Economist Anshel Pfeffer: “Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu”.

BIBI E L’EREDITA’ DEL LIKUD

Chutzpàh è una parola ebraica che racchiude in sé diversi concetti, non solo negativi, ma che viene spesso riferita ad un atteggiamento sfrontato, impudente. È un termine yiddish entrato a far parte del linguaggio comune. La prima menzione nelle fonti classiche ebraiche si trova nella Mishna, in Masechet Sota 9:15. La frase è: “Nel periodo messianico la chutzpàh prevarrà”. L’altro significato è quello della regalità senza corona. Infine, l’esempio più colorito, quello dell’uomo che uccide i propri genitori e al giudice chiede clemenza, perchè orfano.
Se si passa alla politica di apostrofati chutzpàh ce ne sono tanti, ma a uno più di tutti calza a pennello, Benjamin Netanyahu. Bibi inequivocabilmente è, per la stampa, per i detrattori e gli avversari, per i fan o gli amici, il re dei chutzpàh. Grazie a questa naturale dote di sfacciataggine è stato capace di restare al centro del dibattito degli ultimi trent’anni della storia di Israele. Ha saputo rialzarsi da sconfitte brucianti. Ha ribaltato la società israeliana dalle fondamenta e modellato il Likud, il suo partito, a propria immagine. Ha traghettato la destra verso nuovi mari, per approdare infine al lato oscuro del nazionalismo populista, con la formazione del governo più a destra di sempre. Elevando al rango di ministri impresentabili razzisti.
na cosa che non ha mai fatto e forse minimamente pensato è indicare il suo successore. Poco probabile che passi il testimone al figlio Yair, a cui manca il quid. Vantava delle pretese dinastiche Benny Begin, figlio dello storico leader Menachem, che invece si è fermato al palo. Ehud Olmert c’era riuscito ma è scivolato penalmente su una buccia di banana, eliminandosi da solo dalla corsa. È stata ad un passo dall’accantonarlo in soffitta Tzipi Livni, ma con una “magia” politica Netanyahu si è liberato di lei. In ordine sparso si sono rivoltati contro di lui interi apparati del partito e stretti consiglieri: Moshe Kahlon, Avigdor Lieberman, Gideon Sa’ar, Zvi Hauser, Zeev Elkin, Moshe Ya’alon, Ayelet Shaked e Naftali Bennett. Quest’ultimo ha fatto tremare il sogno di onnipotenza di Bibi, l’illusione è durata poco e il governo Bennett-Lapid è evaporato al vento. E così ancora una volta è tornato alla guida del paese.
L’ultimo capitolo della saga di Netanyahu, tuttavia, ha palesato criticità di fondo e responsabilità. La partecipata protesta della piazza del movimento pro-democrazia, iniziata a gennaio pochi giorni dopo il suo insediamento a Balfour street, e gli eventi tragici del 7 ottobre, hanno evidenziato un leader non all’altezza della situazione. Incapace di ascoltare il dissenso di massa che montava giorno dopo giorno. Tardivo nell’assicurare la sicurezza ai propri cittadini. Troppi errori. Pagati impietosamente nei sondaggi, gradimento crollato ai minimi (28%). Ha perso consenso e soprattutto la fiducia della gente.
Adesso, a chiedere le sue dimissioni c’è una larga fetta di Israele, che va ben oltre i lettori di Haaretz e che è trasversale alla composita società israeliana. Chi ha velleità di cimentarsi alle prossime elezioni politiche, una volta finita la guerra, e aspirare al ruolo di comando è Benny Gantz. L’ex capo di stato maggiore, oggi responsabilmente membro del Gabinetto di guerra, è una concreta alternativa, che non dispiace a Biden. Dai banchi dell’opposizione invece il più accreditato è sicuramente Yair Lapid, anche lui molto stimato dai democratici a Washington. Se invece l’operazione per rimuovere Netanyahu dovesse palesarsi a conflitto in corso, la soluzione più plausibile è che avvenga attraverso un terremoto politico nel Likud. Sia Gantz che Lapid non hanno i numeri nell’attuale Knesset per formare una maggioranza. E senza l’appoggio del Likud anche il sostegno dell’amministrazione statunitense non è sufficiente. Una scelta di continuità con Netanyahu sarebbe Yariv Levin, se non fosse che il suo nome è indissolubilmente legato alla contestata riforma della giustizia e inviso a tanti. Chi ha le spalle larghe abbastanza per reggere il confronto con il padre padrone della destra è Nir Barkat. L’ex sindaco di Gerusalemme è un imprenditore di successo, con elevata disponibilità economica: è il politico più ricco di Israele. Di poche parole, freddo come un iceberg, difficile da interpretare. Già in passato ha alzato la testa, prendendo apertamente le distanze da Netanyahu. In questo esecutivo è ministro di prima fascia, presiede l’Economia. Rispetto ad altri dirigenti del Likud non ha una corrente di riferimento, ed è, se vogliamo, avulso dal controllo della macchina (e delle tessere). Di voti, comunque, ne raccoglie parecchi. È stato tra i primi, e pochi, nel governo a rilasciare interviste dopo il 7 ottobre. Puntando il dito contro l’Iran. A fare di lui un potenziale leader a largo spettro è la lunga esperienza da primo cittadino di Gerusalemme, dove ha saputo governare con tutti: dalla sinistra sionista alla destra religiosa. Se c’è un politico con le credenziali, adatto ad una fase di unità nazionale, sembra proprio essere lui. Prima però deve sfilare la poltrona a Bibi.

HAMAS PORTA LA STRAGE NEI KIBBUTZIM

“Dov’è l’esercito?”. Domanda che si sono chiesti molti cittadini israeliani durante l’attacco di Hamas. La risposta è la stessa di 75 anni fa: la vostra difesa, e sicurezza, siete voi stessi. Prima linea del fronte di guerra. Dove l’alternativa è combattere o scappare.
La mattina del 7 ottobre 2023 prime ad essere investite dall’orda terroristica sono state le comunità che risiedono lungo il confine, a pochi metri dalla barriera che separa la Striscia di Gaza da Israele. Be’eri, Kfar Aza e Re’im, le più colpite dalla violenza assassina e dalla caccia all’ostaggio. Piccoli centri dediti da sempre al lavoro della terra, dove dalle finestre delle case si vede la periferia della città di Gaza e si respira aria di mare. Prima del ’48 erano insediamenti, strutturati nella forma di cooperative agricole secondo lo schema del kibbutz o del moshav. Furono fondati e difesi dai pionieri dello stato di Israele.
Il kibbutz in passato ha rappresentato lo specchio della società israeliana, lì sono cresciuti e si sono formati interi quadri, l’élite politica e militare del Paese. Quel modello di vita ha nel corso degli anni affrontato notevoli cambiamenti di assetto confrontandosi con la realtà dei tempi, cedendo ovviamente a ineludibili compromessi. L’esperimento cominciò nel 1909, quando sulle sponde del lago di Tiberiade il sogno del socialismo applicato veniva realizzato. Il primo esempio fu la piccola comune di ebrei marxisti di Degania Alef (anche se i suoi membri preferirono sempre chiamarlo Kvutzat Deagania ovvero “Il frumento di Dio”). Spinta ideologica incentrata sull’uguaglianza, sul lavoro a favore della comunità, sul rispetto di regole ben precise e condivise, sull’obbligatorietà di lavorare per gli altri.

Chi ha fatto quella scelta di vita ha preso, e prende, il nome di chaverim o kibbutznik. Oggi sono decine di migliaia di persone. Nel 2005 il Ministero del Lavoro israeliano ha classificato i kibbutzim (plurale di kibbutz) in tre tipologie: shitufi con sistema cooperativo, mitchadesh dove persistono, almeno nell’intenzione, minime forme di cooperativismo e urban kibbutz di fatto un agglomerato cittadino. Quando nel 2011 decidemmo di scrivere il libro “Kibbutz 3000” compleanno di un sogno, attualità di un’idea (edizione Ets), accompagnati dalla fotografa Nili Bassan, abbiamo intrapreso un viaggio alla scoperta di chi ci vive. Il nostro peregrinare dal Nord al Sud di Israele ci portò nel kibbutz Nir Am, due ore di macchina da Gerusalemme, non distante dal valico di Eretz. Nir Am per l’esattezza si trova a 457 metri dal confine con Gaza, letteralmente a un tiro di scoppio o a uno sputo dalla Striscia di Hamasland. Sabato scorso i suoi residenti hanno respinto l’assalto palestinese. “Sembra che i terroristi abbiano cercato di penetrare in un grande allevamento di polli vicino a Nir Am, probabilmente scambiando la sua recinzione per la recinzione del kibbutz”, ha dichiarato Ami Rabin. Sentiti i primi spari è scattata la difesa. “Siamo stati vigili, preparati ed efficaci, ma siamo stati anche molto fortunati”. Nessuno dei residenti è rimasto ferito, due attentatori sono stati uccisi. Fallito anche l’attacco al moshav (raggruppamento di fattorie di proprietà individuale con estensione fissa e uguale per i suoi membri) di Ein Habsor. Dove hanno respinto un numero soverchiante di terroristi: “Dobbiamo tutto alla sorveglianza, ed in parte al miracolo”.

Israeliani abituati a convivere con l’emergenza della violenza. Nel 2013 nel moshav di Netiv Ha’Asara, alla vigilia delle elezioni che consacrarono l’ascesa di Netanyahu, ci raccontarono che “non di rado prima senti il botto del razzo e poi la sirena”. Questi centri periferici, per lo più composti da villette familiari, lunghi viali alberati, bambini che scorrazzano in bicicletta e auto elettriche per muoversi al suo interno, non sono solo vulnerabili ai razzi, che ti possono piovere in salotto in qualunque istante del giorno e della notte, ma anche ai tunnel che partono da Gaza e sbucano nel giardino di casa. Tunnel che Hamas scava minuziosamente dal 2014, per far entrare i suoi uomini. A volte scoperti e fatti saltare dall’esercito israeliano prima di essere utilizzati, altre, come in questo caso, no.
Nonostante la minaccia che incombe su quelle terre – dal momento che scatta l’allarme missilistico ci sono circa 4 secondi per raggiungere un luogo protetto, stanza blindata o rifugio – molti giovani hanno optato per questo standard di vita. Una sorta di riscoperta delle radici del kibbutz di fronte alla crisi economica, ambientale e culturale, in risposta all’individualismo imperante nella nostra società. Siamo certi che il mito del kibbutz resisterà anche a questa dura prova.

IL DESTINO MANCANTE

Come spesso abbiamo scritto, se siamo arrivati a questo punto, purtroppo, è perché gli accordi di pace di Oslo del 1993 sono sepolti da tempo, fagocitati dalla storia e rimossi dalla memoria collettiva.
Dopo il vertice di Camp David del 2000, conclusosi con un nulla di fatto, e dopo la parentesi del disimpegno, unilaterale, di Sharon da Gaza nel 2005, di dialogo per raggiungere una soluzione di due stati limitrofi indipendenti ed in pace non c’è traccia concreta.
A prevalere, nel corso degli anni, è stato l’appiattimento ad un quadro politico dove tutto lascia pensare all’eterno conflitto del Medioriente come qualcosa che possa solo inasprirsi ed autoalimentarsi all’infinito.
Il ciclo della violenza, seppur inaspettato, è una costante di quel lembo di terra. Che si porta dietro il fallimento di due classi politiche, quella di Abu Mazen (e prima di Arafat) ormai screditato agli occhi dei palestinesi e quella di Benjamin Netanyahu, sul bilico della doppia catastrofe, strategica e di popolarità.
Mr Sicurezza, come si è presentato più volte nel corso delle tante campagna elettorali, è oggi un leader che rischia di perdere definitivamente consenso e fiducia, che sino a ieri sembrava scalfibile solo dalla contestata riforma della giustizia.
Con questo attacco terroristico Hamas ha dato prova di forza nei confronti di un nemico superiore in tutto, e allo stesso tempo ha definitivamente messo in secondo piano il ruolo e il potere dell’ANP, ergendosi ad unico paladino della causa. Ha così riportato al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica la “questione palestinese”, non nel suo insieme ma nella sua forma deleteria.
Quale è il calcolo di avere un numero di ostaggi in pugno? È una mossa per ridurre o frenare la reazione di Israele? Non ci pare proprio.
L’idea di Hamas è di aumentare il proprio peso in una futura trattativa? A questo punto ogni schema di compromesso con i terroristi è irrealistico.
Il messaggio che Hamas ha voluto dare nasconde la dimostrazione e la minaccia che Israele è e sarà sempre vulnerabile? Beh, è decisamente probabile.
E poi, Hamas ha voluto avvertire quella parte di mondo arabo che ha imboccato un percorso di “normalizzazione” dei rapporti con Israele, “invitandoli” a non proseguire nella strada aperta dagli accordi di Abramo? Nel teatro geopolitico ci sono tante strumentalizzazioni, troppe sfaccettature sia interne che esterne si mescolano e intrecciano.
Quello che appare evidente è che i palestinesi sono lo strumento di attori interni, Hamas in primis, ed esterni, che spesso nascondono altri fini, ad esempio la Turchia (con Erdogan che aspira ad essere riconosciuto simbolo dell’orgoglio musulmano) e l’Iran (che mira all’egemonia nella regione e alla distruzione di Israele).
Dall’altro lato del muro gli israeliani pagano il caos di un esecutivo con una forte componente di nazionalisti razzisti, incompetente e totalmente inefficiente.
Scrive Avi Mayer sul quotidiano israeliano Jerusalem Post: “La dottrina della sicurezza del Paese dovrà essere rivista e le sue capacità adeguate ad affrontare la minaccia rappresentata da Hamas e dalla rete dei gruppi terroristici. Allo stesso tempo, un riallineamento politico accelerato dalla formazione di un governo di unità di emergenza potrebbe avere un impatto sulla politica interna per gli anni a venire. L’effetto che questo avrà sulla nostra psiche collettiva e sulla nostra coscienza condivisa, sul nostro stesso senso di sicurezza e sulla nostra fiducia nella nostra capacità di vivere liberamente e in sicurezza in questa terra – sarà sentito per decenni se non generazioni. L’intera portata della catastrofe è, ancora, sconosciuta, ma una cosa è chiara: gli eventi del 7 ottobre 2023 – uno dei giorni più bui della storia del paese – cambieranno tutto. Questo è l’11/9 di Israele. Niente sarà più come prima”.
Ancora una volta alla base dell’infinita disputa israelo-palestinese c’è l’inganno del pretesto.

CULTURA SBAGLIATA

Nel conflitto israelopalestinese sono dibattute questioni “sociali” che, alimentate dalla politica e dall’ideologia, assumono aspetti culturali eticamente distorti. Uno dei tanti esempi è il Fondo dei Martiri dell’Autorità nazionale palestinese, il programma di sostegno economico ai palestinesi imprigionati, feriti o uccisi da Israele e destinato alle loro famiglie: stimato in 350 milioni di dollari l’anno. Ufficialmente introdotto dal governo di Ramallah nel 2004, in piena Seconda Intifada, questa tipologia di finanziamento era già in uso nei campi profughi del Libano tra i combattenti di Fatah, a partire dagli anni ’70. E poi successivamente riproposto nelle campagne politiche di assistenzialismo gestite da Hamas, nel nome della beneficenza islamica. E proprio su questo banco di prova con gli avversari politici che prima Arafat e dopo i suoi successori hanno deciso di alzare il piatto della bilancia della propaganda.
Con un provvedimento del 2013 il sistema di welfare palestinese garantisce ai prigionieri (attualmente nelle carceri israeliane sono quasi 5mila) l’automatico impiego negli apparati istituzionali al loro rilascio. Inoltre, l’Autorità palestinese stabilisce un sistema “proporzionato” di compenso, dove i prigionieri ricevono maggiori finanziamenti in base alla durata del periodo di detenzione, e quindi parallelamente alla gravità del crimine commesso. Più vittime fai e più soldi ricevi (l’accusa). Dal punto di vista palestinese tale misura viene legittimata, e motivata, nel dare pieno sostegno “alla lotta contro l’occupazione e l’ingiustizia israeliana”. In un contesto dove è noto che l’esercito israeliano effettua arresti arbitrari di palestinesi (non ultimo ed eclatante l’episodio dell’italopalestinese Khaled El Qaisi, da giorni recluso in cella), che sono soggetti alla legge militare israeliana e privati dei diritti garantiti da quella civile di Israele. Il contraltare palestinese è lo schema di sussidi previsto per i terroristi. I quali, pur macchiandosi di crimini contro civili inermi, possono beneficiare dell’assistenza sociale. Questo elemento, non di poco conto, si porta dietro il soprannome dato al programma: “pay-for-slay”. Ovvero, un incentivo, secondo i critici, ad ammazzare gli israeliani.
“Indipendentemente dal suo vero scopo, non è esatto caratterizzare il Fondo dei Martiri esclusivamente come un mezzo per incoraggiare il terrorismo contro Israele. Contrariamente a quanto potrebbe affermare il primo ministro Netanyahu, non tutti i beneficiari degli aiuti del Fondo dei Martiri sono terroristi”. Alex Lederman in un articolo pubblicato da Israel Policy Forum, sottolinea che: “Non tutti i palestinesi nelle carceri israeliane hanno o intendono avere le mani sporche di sangue israeliano”. Restano comunque i gravi errori commessi ripetutamente dall’Autorità palestinese e dal suo presidente. Non dimentichiamo che il budget del cosiddetto Fondo Martiri proviene oltre che dai regimi arabi anche dai poco informati e talvolta distratti contribuenti occidentali.
Sono invece qualche migliaia e molto convinti coloro che hanno donato oltre 1,2 milioni di shekel alla campagna di crowdfunding lanciata per chiedere la liberazione di Amiram Ben Uliel, estremista di destra e colono israeliano giudicato colpevole di aver compiuto nel 2015 un attentato terroristico incendiario nel villaggio di Duma, a sud della città di Nablus, costato la vita a tre palestinesi membri della famiglia Dawabsha (madre, padre e figlio di 18 mesi). Recentemente 14 parlamentari della maggioranza di governo, per lo più aderenti ai partiti Likud e Otzma, hanno fatto appello al capo dello Shin Bet Ronen Bar per far allentare le sue condizioni di detenzione all’ergastolo (per diritto di cronaca Ben Uliel si professa innocente e dichiara di aver confessato sotto tortura). In occasione delle festività di Rosh haShanah è stato approvato il temporaneo trasferimento di Ben Uliel dall’isolamento all’ala dedicata ai religiosi (Torah wing). Un piccolo trattamento di favore, che vista la composizione dell’attuale governo di Netanyahu potrebbe non essere l’unico.
Crowdfunding per un pericoloso eversivo israeliano o fondo per i martiri della jihad palestinese, non sono un bel segnale di pace. Del resto se Abu Mazen e Bibi Netanyahu, partecipando ai lavori dell’assemblea plenaria delle Nazioni Unite, hanno parlato dallo stesso microfono scambiandosi reciproche accuse, si sono seduti nella stessa aula e non si sono stretti la mano, quasi sfiorati e prudentemente evitati. È chiaro che sul tavolo non c’è nessuna reale intenzione di dialogo.