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BIDEN IN TOUR

Il viaggio in Europa del presidente Joe Biden segna il ritorno prepotente degli USA sullo scacchiere internazionale. Tre le tappe significative. Il G7 in Cornovaglia è stato forse il momento più rilassante per il presidente statunitense, tra vecchi amici e le rituali foto di gruppo. Molta allegria e tanta convergenza, almeno nel puntare il dito contro il grande pericolo che incombe: “il rafforzamento militare della Cina, la sua crescente influenza e il suo comportamento coercitivo pongono sfide alla nostra sicurezza”.
Il problema dell’impero del Dragone è stato posto senza sotterfugi al centro della discussione tra i capi di stato. In conclusione si è tracciata una marcata linea rossa per Pechino. Poi la risposta a questo nuovo confronto Biden l’ha delineata al summit NATO di Bruxelles, nel cuore dell’eurocentrismo, strigliando con tatto e diplomazia qualche “discolo” alleato, che ultimamente aveva dato segnali non proprio conformi allineamento del blocco atlantico: pace fatta, almeno così sembra, tra il sultano Erdogan e la Casa Bianca.
Con un patto che prevede il supporto logistico turco al ritiro statunitense dall’Afghanistan. E infine l’incontro a Ginevra con Putin, il faccia a faccia con il nemico numero due e un potenziale futuro partner. A differenza di quanto accadde nel 2018 a Trump, a Helsinki, Biden ha evitato di fare la figura del pupazzo manovrato dallo zar di Mosca. Uscendo indenne da un delicato confronto.
Nel complesso, questi tre eventi concatenati hanno certificato come proprio l’era Trump sia un capitolo chiuso della gestione della geopolitica internazionale. Fine delle pagliacciate, gli USA di Biden hanno rispetto per gli alleati. C’è tuttavia bisogno di ricomporre alleanze e imporre nuove strategie collettive. Il successo della NATO sull’Unione sovietica ha messo in evidenza la capacità dell’organizzazione di adattarsi su larga scala ai mutevoli cambiamenti che si sono susseguiti da Yalta ad oggi.
Fin dall’inizio la NATO è stata molto di più di una semplice alleanza militare, ha rappresentato uno spazio comune con una sua identità politica. E una forza in grado di operare in tutti i continenti. Il Medioriente, resta però il teatro più complesso. Il non intervento in Siria ha spalancato la porta alla Russia nella regione. Lo scontro tra Turchia ed Egitto è motivo di particolare allarme, perché ha assunto un livello che va ben oltre il controllo del suolo libico. Equilibri del mondo arabo che direttamente mettono in causa altri due attori cari a Washington, Arabia Saudita e Qatar.
Mentre, la questione israelo-palestinese è ancora un labirinto inestricabile. Infine, il dilemma Iran, la strada imboccata in questo caso è la riapertura delle trattative. L’esito, scontato nel risultato, delle elezioni presidenziali, pur segnando la vittoria dell’ultraconservatore Raisi, lascia un filo di speranza al processo di dialogo con gli Stati Uniti per il rilancio dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, che ha il sostegno della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Un dossier caldo sul tavolo di Biden.

CAMBIARE IN ISRAELE FORSE E’ POSSIBILE

In Israele è ora di cambiamenti, scelto il successore di Reuven Rivlin alla presidenza ed imboccata la strada di un nuovo esecutivo. Grandi manovre in parlamento, alla Knesset. Isaac Herzog, classe 1960, è stato eletto con plebiscito undicesimo capo di stato. In contemporanea, si sono trovate le fatidiche 61 firme per dar vita al primo governo anti-Netanyahu della storia. Operazione che sulla carta ha messo insieme 8 schieramenti, una mappa che copre destra, centro e sinistra. Dai nazionalisti israeliani agli islamici, estremismi inclusi. Un ventaglio con due figure apicali, il liberale Yair Lapid e il nazionalista Naftali Bennett, intenzionate a voler rivoluzionare l’arco politico, mettendo fine all’era Netanyahu. Intanto, non è andata bene a Miriam Peretz, che non è diventata la prima donna presidente. La Peretz, conosciuta come “Mamma Coraggio” (ha perso due figli in guerra), era la portatrice di un messaggio che mescolava patriottismo e solidarietà, punto di forza della sua candidatura. Soprattutto in epoca di pandemia e con il parlamento spostato a destra. A prevalere è stato l’abile Herzog. Discendente di quella che viene considerata la nobile aristocrazia sionista. Appartiene alla dinastia che ha rivestito i massimi vertici istituzionali e religiosi del giovane stato di Israele: il nonno HaLevi è stato primo capo rabbino di rito ashkenazita. Il padre Chaim ambasciatore all’ONU e poi sesto presidente della repubblica. Lo zio Abba Eban ascoltato ministro degli esteri di Golda Meir, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, tempi di guerra e delicata diplomazia. La tradizione politica è scritta a caratteri cubitali nel DNA di Herzog, anche se l’esperienza nelle file del partito laburista non è stata un successo. Alle elezioni del 2015 affronta Bibi Netanyahu. Sconfitto, cade ed è relegato in secondo piano. Nel 2018 la nomina a capo dell’Agenzia ebraica e la risalita. Da allora si tiene prudentemente fuori dalla scena politica dominata da Netanyahu. Preferisce apparire “imparziale”. Caratteristica che gli verrà utile quando i partiti non presentano un proprio candidato di bandiera, lasciando libertà di coscienza. In Israele il presidente della repubblica è una carica di garanzia, con due prerogative non indifferenti. Offre l’incarico del mandato esplorativo nella formazione di governo. E concede la grazia. Potere quest’ultimo che potrebbe tornare comodo all’attuale premier, in caso i suoi problemi con la giustizia dovessero complicarsi. Il tempo a disposizione di Netanyahu comunque stringe. Non gli resterà che un’unica labile chance di sopravvivenza, organizzare un’imboscata tra i banchi del parlamento proprio sul voto di fiducia al nascente esecutivo. Lapid e Bennett, hanno oramai giocato tutte le carte in loro possesso, adesso non hanno altra strategia da mettere in campo che trincerarsi e resistere all’attacco di Netanyahu. Se tutti, proprio tutti, mantengono la parola potrebbe bastare a fermarlo.

HERZOG, IL PRESCELTO

In Israele è ora di cambiamenti, scelto il successore di Reuven Rivlin alla presidenza ed imboccata la strada di un nuovo esecutivo. Grandi manovre in parlamento, alla Knesset. Isaac Herzog, classe 1960, è stato eletto con plebiscito undicesimo capo di stato. In contemporanea, si sono trovate le fatidiche 61 firme per dar vita al primo governo anti-Netanyahu della storia. Operazione che sulla carta ha messo insieme 8 schieramenti, una mappa che copre destra, centro e sinistra. Dai nazionalisti israeliani agli islamici, estremismi inclusi. Un ventaglio con due figure apicali, il liberale Yair Lapid e il nazionalista Naftali Bennett, intenzionate a voler rivoluzionare l’arco politico, mettendo fine all’era Netanyahu. Intanto, non è andata bene a Miriam Peretz, che non è diventata la prima donna presidente. La Peretz, conosciuta come “Mamma Coraggio” (ha perso due figli in guerra), era la portatrice di un messaggio che mescolava patriottismo e solidarietà, punto di forza della sua candidatura. Soprattutto in epoca di pandemia e con il parlamento spostato a destra. A prevalere è stato l’abile Herzog. Discendente di quella che viene considerata la nobile aristocrazia sionista. Appartiene alla dinastia che ha rivestito i massimi vertici istituzionali e religiosi del giovane stato di Israele: il nonno HaLevi è stato primo capo rabbino di rito ashkenazita. Il padre Chaim ambasciatore all’ONU e poi sesto presidente della repubblica. Lo zio Abba Eban ascoltato ministro degli esteri di Golda Meir, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, tempi di guerra e delicata diplomazia. La tradizione politica è scritta a caratteri cubitali nel DNA di Herzog, anche se l’esperienza nelle file del partito laburista non è stata un successo. Alle elezioni del 2015 affronta Bibi Netanyahu. Sconfitto, cade ed è relegato in secondo piano. Nel 2018 la nomina a capo dell’Agenzia ebraica e la risalita. Da allora si tiene prudentemente fuori dalla scena politica dominata da Netanyahu. Preferisce apparire “imparziale”. Caratteristica che gli verrà utile quando i partiti non presentano un proprio candidato di bandiera, lasciando libertà di coscienza. In Israele il presidente della repubblica è una carica di garanzia, con due prerogative non indifferenti. Offre l’incarico del mandato esplorativo nella formazione di governo. E concede la grazia. Potere quest’ultimo che potrebbe tornare comodo all’attuale premier, in caso i suoi problemi con la giustizia dovessero complicarsi. Il tempo a disposizione di Netanyahu comunque stringe. Se riuscirà alla Grande coalizione la sostituzione dello speaker della Knesset, fedelissimo di Bibi, non gli resterà che un’unica labile chance di sopravvivenza, organizzare un’imboscata tra i banchi del parlamento proprio sul voto di fiducia. Lapid e Bennett, hanno oramai giocato tutte le carte in loro possesso, adesso non hanno altra strategia da mettere in campo che trincerarsi e resistere all’attacco di Netanyahu. Se tutti, proprio tutti, mantengono la parola potrebbe bastare a fermarlo.

IN SIRIA LE ELEZIONI FACILI, TROPPO FACILI

Le immagini del dittatore siriano Bashar al-Assad mentre, sorridente davanti alle telecamere, ripone la scheda elettorale nell’urna, è la rappresentazione della farsa tragicomica andata in scena in Siria. Non stupisce che a fare da sfondo alla sua apparizione pubblica, come nella migliore tradizione dei regimi, il presidente abbia trovato una folla festante che lo ha accolto all’arrivo al seggio, dove si è recato guidando la sua auto privata. Nel tentativo di mostrarsi come un cittadino qualunque, un politico amato dal suo popolo e non un uomo cinico, che in questa ultima decade ha ordinato bombardamenti, arresti, torture e uccisioni.

Se queste elezioni – caldamente sconsigliate dalle Nazioni Unite ma “monitorate” da stati che non brillano certo per libertà, democrazia e diritti – dovevano mostrare il ritorno alla normalità beh scordiamocelo. La Siria è di fatto un paese diviso in tre zone: un’area, la più estesa, sotto il governo di Damasco, una enclave nel nord in mano ai ribelli e infine una porzione controllata dai curdi. Il recente processo elettorale ha ovviamente riguardato i lealisti a Damasco. E alla fine il risultato, non accettato da Europa e USA, è stato emblematico ed esaustivo: Assad ottiene il 95% dei voti scrutinati (nelle precedenti aveva preso “solo” l’88,7%). Un plebiscito, bulgaro. Alla cerchia di potere alawita, che non vuole perdere la propria rendita, piace vincere facile, e per sfidanti si sono scelti due figure minori, che non impensierissero troppo il partito Baath del presidente. Il candidato Abdullah Salloum Abdullah aveva già ricoperto ruoli ministeriali in passato e la sua formazione socialista è nella coalizione di governo. Abdullah ha ottenuto una manciata di voti, 1,5%. Poco meglio ha fatto l’altro sfidante Mahmoud Mar’i, raccogliendo il 3,3% delle schede a suo favore. L’avvocato Mar’i, membro dell’opposizione interna ad Assad, è delegato alla Commissione costituzionale per la Siria di Ginevra. Secondo quando annunciato ufficialmente l’affluenza è stata del 78% e i partecipanti 14 milioni. Numeri dubbi, per un voto che di giusto non ha niente.

Assad inizia così il suo quarto continuativo mandato e un nuovo settennato, con una guerra civile lunga e dolorosa non ancora completamente alle spalle. Si stima i deceduti dal 2011 ad oggi siano più di mezzo milione. 11 milioni sono gli sfollati, la metà rifugiata in Turchia, centinaia di migliaia un po’ in tutto il mondo. L’altra metà di coloro che hanno abbandonato la propria casa continua a vivere in territorio siriano, un terzo sono bambini. Quasi il 90% della popolazione è in condizioni di povertà cronica. Le speranze di ripresa economica per il 2021 non sono rosee, le sanzioni statunitensi e gli effetti della crisi finanziaria del Libano potrebbero incidere pesantemente. Inoltre, la pandemia ha colpito le rimesse dei siriani all’estero, e l’invio di aiuti si è ridotto. Assad avrà vinto le elezioni confezionate su misura per lui, ora però ci sono due creditori che aspettano alla porta, Russia ed Iran.

LA FAVOLA E LA GUERRA

Se c’è una favola della tradizione di Esopo che ben rappresenta il conflitto israelopalestinese, è sicuramente quella dell’aquila e della volpe. Una storia di convivenza infranta, nel peggiore dei modi. Con l’aquila che per nutrire i propri aquilotti irrompe nella tana e divora i cuccioli della volpe. E gli aquilotti che caduti a terra e vengono sbranati dalla volpe. Il senso del triste racconto è che chi tradisce l’amicizia, anche se per superiorità di potere e forza, sfugge alla vendetta delle vittime, deve alla fine fare i conti con il fato crudele. Israeliani e palestinesi, come la volpe e l’aquila, non hanno alternativa ad accettare di vivere l’uno accanto all’altro e finchè non avranno trovato un modo civile per farlo, le colpe del loro scriteriato agire ricadranno sui più deboli: gli indifesi cuccioli della volpe e gli aquilotti, gli innocenti bambini di Gaza come quelli delle città nel Sud di Israele. In questi decenni abbiamo purtroppo imparato che la diplomazia internazionale e le risoluzioni dell’Onu non ottengono il risultato prefissato. Frecce spuntate, che escono da una faretra vuota. Ciò che manca sono contenuti concreti da portare al tavolo della trattativa per fermare il ciclo vizioso della guerra. Non è servito tentare di imporla dall’alto (ci hanno provato in pompa magna tutti gli ultimi presidenti statunitensi ed oggi è arrivato il turno anche dell’amministrazione di Joe Biden) e non ha funzionato provare a svilupparla dal basso (il campo dei pacifisti è isolato e da ambo i lati si è ampiamente assottigliato). Non sono bastati nemmeno gli aiuti internazionali, attraverso la cooperazione, i piani d’emergenza e quelli per il dialogo, progetti che finiscono per avere un effetto palliativo e mai risolutivo. Non serve essere pessimisti per affermare che il conflitto israelopalestinese è sfuggito di mano da tempo, e non può essere ricondotto ad un piano logico di “normali” relazioni senza uno sforzo enorme e comune. Altrimenti varrà ancora la massima andreottiana: “Temo proprio che non vedrò la pace in Terra Santa in questa vita… Sospetto che non la vedrete neanche voi”. Chi non la vedrà è Adham al-Taani, un bambino di Gaza, aveva sei anni e viveva a Beit Lahiya. Adham è morto insieme ai suoi familiari. Sepolto sotto un cumulo di macerie. Quando è stato estratto dalle rovine della sua casa con il capo chino e il corpo coperto di polvere era irriconoscibile. Non potrà più giocare Ido Avigal, israeliano, che di anni ne aveva cinque. Quando le sirene di Sderot hanno iniziato a suonare la madre ha pensato di proteggerlo nascondendolo nella stanza blindata, che la scheggia di un razzo ha perforato. È deceduto poche ore dopo in ospedale. La madre e la sorellina sono rimaste ferite. Queste non sono favole ma storie di quotidiana normalità in Medioriente, è la cruda realtà sempre dietro l’angolo. In un conflitto dove il nodo resta e resterà per sempre intricato se non si riesce ad incanalare i contendenti sulla strada di una vera soluzione basata sul rispetto dei reciproci diritti.

CONTENERE L’INCONTENIBILE

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu fa orecchie da mercante al richiamo di Joe Biden e non ferma la rappresaglia su Gaza. Seconda settimana di guerra. Respinto l’appello al cessate il fuoco del successore di Trump, apparso tardivo nella tempistica. Puntuale invece la consuetudine della Casa Bianca nel calare sul tavolo internazionale il diritto di veto a risoluzioni marcatamente anti-israeliane. In una guerra regionale intrappolata nella spirale di ideologie disfunzionali, dove si mescolano dottrine rigide, farcite di nazionalismo, fondamentalismo ed antisionismo. Di cui è impregnata la propaganda di Erdogan, autoproclamatosi difensore dei palestinesi per evidente tornaconto personale: risalire di popolarità e difendere Hamas. Che di alleati nello scacchiere ne conta parecchi. A partire dal legame di appartenenza alla famiglia della “Fratellanza musulmana”, di cui Hamas stessa è figlia. Rete che permette rapporti politici stretti con la Turchia ed aiuti economici dal Qatar, che offre anche asilo sicuro ai suoi vertici. Chi cerca maggior spazio operativo nella Striscia è l’Iran, che fornisce al regime di Gaza e ai jihadisti tecnologia militare, in cambio vorrebbe imporre strategia e obiettivi da colpire. In Libano Hezbollah ha messo mano alle armi, infiammando il confine con Israele. Il patto tra il partito di Dio di Nasrallah e il movimento terroristico fondato dallo sceicco Yassin è saldato nel nome della umma musulmana, sintesi della congiuntura tra sunniti palestinesi e sciiti libanesi. Improntato alla moderazione l’approccio della Giordania, non basta un drone abbattuto sui cieli israeliani a far precipitare le ottime relazioni. Re Abdullah, volente o dolente, il piede dentro la questione israelo-palestinese deve tenerlo ben piantato. Non fosse altro perchè i palestinesi sono la maggioranza della popolazione del Regno. E la famiglia hascemita degli Hussein ha la custodia a Gerusalemme della Spianata delle Moschee. Generalmente, la corte anglofona di Amman non va oltre le proteste formali, mantenendo una stretta “cooperazione” col Mossad. Infine, l’Egitto che nella crisi di Gaza ha la funzione del mediatore certificato, a negoziare il cessate il fuoco sono le sue delegazioni. L’indirizzo diplomatico egiziano è improntato ad arginare influenze ostili, turche e iraniane, e promuovere il rafforzamento del blocco all’ombra degli Accordi di Abramo: monarchie del Golfo + Israele. Sulle sponde del Nilo prevale ancora la convinzione che un equilibrio tra palestinesi (riconciliati) ed israeliani possa essere trovato più facilmente responsabilizzando il “realista” Netanyahu ed accelerando il passaggio di potere da Abu Mazen a Mohammed Dahlan. Riuscire a far incastrare contemporaneamente questi due tetramini è però al momento assai complicato. Biden, al contrario, probabilmente preferirebbe non avere Netanyahu e mantenere Abu Mazen come interlocutore, ma dovrà attendere, il falco della destra è saldamente al comando delle operazioni e non pare intenzionato a cedere il posto.

RAZZI E MISSILI, GUERRA TRA GAZA E ISRAELE

Si incendia il conflitto israelo-palestinese. Il prologo pochi giorni fa a Gerusalemme. Quando alla Porta di Damasco scoppia la protesta dei gerosolimitani palestinesi per le limitazioni imposte dalle autorità israeliane durante il Ramadan, e poi revocate. Notti di scontri tra polizia e giovani palestinesi.
Arresti e feriti. L’aggressione, virale, di un ragazzo palestinese ad un religioso ebreo sulla metropolitana; gruppi di israeliani di estrema destra che scendono in strada al grido di morte agli arabi; bande di palestinesi che assalgono a sassate civili inermi.
Disordini che si propagano, ed infine investono la Spianata delle Moschee, simbolo sacro all’islam. E a quel punto tutto assume un altro significato. Le rimostranze della Giordania. La condanna della Lega araba. La comunità internazionale che invita alla calma. L’intensificarsi delle violenze nelle ultime ore cade in un momento cruciale per la politica israeliana.
Il duo Lapid-Bennett, il primo alla guida del partito di centro Yesh Atid, il secondo leader dei coloni con Yamina, il partito della destra nazional religiosa, appoggiato alla Knesset da un raggruppamento ampio e disomogeneo, e con l’incredibile partecipazione del partito islamista Ra’am, aveva appena annunciato di aver trovato, dopo due anni e quattro elezioni, la quadratura per uscire dallo stallo, formare un nuovo governo e mettere alla porta definitivamente Netanyahu.
Gli eventi hanno ribaltato la situazione a favore di un leader messo si politicamente all’angolo, ma che sul piano militare sa come e quando usare la forza. A sua eterna difesa Netanyahu potrà sempre dire che non è la prima volta che in quella porzione del mondo scoppia la guerra, fregiandosi di essere ancora il miglior vaccino sul mercato nella lotta al virus palestinese.
Insomma, nulla di nuovo in Medioriente. Per un conflitto che si alimenta di dispute quotidiane, per la terra, l’acqua e il diritto alla casa. Nel quartiere di Sheikh Jarrah, sempre a Gerusalemme, alcune famiglie palestinesi hanno ricevuto lo sfratto dalle loro abitazioni, edificate su terreno che legalmente non gli appartiene. Anche se in quelle case si erano lecitamente stabilite decenni prima.
Quella che potrebbe sembrare una pura controversia immobiliare assume invece aspetti non prettamente giuridici, ma di ordine politico e sociale. Ad esempio la gentrificazione dei quartieri arabi, che i palestinesi accusano essere una strategia di colonizzazione etnografica, mentre Israele motiva sulla base dell’imprescindibile indivisibilità di Gerusalemme.
Per legge lo Stato fondato da Ben Gurion riconosce nell’abbandono, “l’assenza”, la modalità di perdita di diritto di proprietà. Normativa che ha permesso a migliaia di israeliani di appropriarsi tacitamente di quanto i palestinesi lasciarono durante la prima guerra arabo-israeliana e in quella vent’anni dopo del ’67. Dramma di profughi pari a quello degli ebrei scacciati dagli Stati arabi negli stessi anni. E mai risarciti.

L’ARMENIA, IL NEMICO TURCO E L’AMICO AMERICANO

Armeni e Turchia ancora divisi da una guerra e dalla storia. Ferite lontane dall’essere ricucite se prima non si mette da parte l’ottusità, per l’indifendibile. Il castello di sabbia del negazionismo turco sul genocidio armeno, che per oltre un secolo ha imperversato, incomincia a franare, ormai messo sotto accusa da più lati. Le ripetute stoccate di papa Francesco, rasoiate diplomatiche al vetriolo, sono culminate con la lezione di moralità del richiamo al “grido soffocato dei cristiani”, non gradita da Erdogan.
Cade il velo della propaganda di stato, smentita dalla ricostruzione storica dell’intellettuale Taner Akçam, perseguitato in patria e rifugiato negli Stati Uniti, i cui studi portano alla luce particolari inediti, oggi di dominio pubblico. Prezioso e coraggioso lavoro alla scoperta dei veri colpevoli, prove del diretto coinvolgimento dei vertici al potere: messaggi del gran visir Talat Pasha – riconosciuto architetto del Metz Yeghern, il Grande Crimine – in cui ordina di massacrare. Telegrammi, che ovviamente Ankara bolla non autentici, dove ai funzionari delle province viene intimato di procedere allo sterminio di massa, in cambio della promessa di un rapido avanzamento di carriera: “Nessuno deve essere risparmiato, nemmeno i bambini nella culla”.
Appelli ai fanatici perchè sollevino la folla, spingendola al saccheggio. Testimonianze inequivocabili della premeditazione, fredda e organizzata, nell’eliminazione di circa 1,5 milioni di armeni. Mentre, a rompere il tabù internazionale sulla parola genocidio è stato il presidente Usa Joe Biden. Non è la prima volta che la Casa Bianca esprime un giudizio critico nei confronti della Turchia per quei fatti drammatici. Ma mai nessun presidente si era spinto a tanto. Nel 2008 Obama si impegnava pubblicamente a riconoscere l’olocausto armeno. Non lo fece. A prevalere allora fu invece la logica della realpolitik. Ad imporsi furono le ragioni espresse dal Dipartimento di Stato, che riteneva strategico il ruolo della Turchia, nel Medioriente e nella lotta all’Isis. Obama passò la mano e la questione venne “insabbiata” nel tempo, lasciando ad altri il gravoso compito di dire la verità su quegli eventi.
C’è voluto Biden a riaprire il fascicolo. La sua decisione sarà molto utile, anche sul piano giudiziario visto permetterà ai familiari delle vittime di chiedere risarcimenti. E adottando il termine genocidio non ha solo espresso un giudizio, ha ricambiato il favore agli elettori della lobby della diaspora armena che lo hanno votato, e allo stesso tempo presenta la candidatura a sostituire Putin quale protettore della cristianità nella crisi in Nagorno Karabakh, tra azeri (“fratello” che la Turchia sostiene con ogni mezzo militare) e armeni (“culturalmente” con un forte ascendente su Mosca). Il messaggio di Washington è un chiaro segnale di stanchezza nei confronti degli atteggiamenti di Erdogan, che avrebbe passato il limite acconsentito. Joe Biden sposa pienamente la linea espressa da Mario Draghi sul “dittatore necessario”. E pone così limiti invalicabili.

MAI O NON MAI!

Il mar Mediterraneo un cimitero silente. È questa l’immagine che ci compare davanti agli occhi dopo aver assistito all’ennesima sciagura nel Canale di Sicilia. Dove i corpi di 130 migranti non ricevono degna sepoltura. Non c’è bara e nome per le vittime di questa strage infinita. Disumana.
Vergognosa non solo per Italia, Malta, Cipro, Grecia o Spagna ma per tutti gli Stati. Colpevoli di non agire, di voltarsi dall’altra parte, di non comprendere la complessità di questi eventi e soprattutto di mostrare la faccia del lato peggiore dell’egoismo. Mescolando subdola meschinità e razzismo. Viene da chiedersi, dov’è la coscienza dell’Europa? Politiche europee concrete in fatto di migrazione non ce ne sono, e non per colpa della burocrazia.
La tendenza generale che prevale è a delegare. Salvo poi trovarsi come nell’operazione Mare Nostrum e in quella Triton difronte a fallimenti scritti. L’unico indubbio successo raggiunto in questi anni è stata la campagna di criminalizzazione nei confronti di chi spontaneamente prestava soccorso. Su cui è piovuto uno tsunami di fango. Ma di azioni alla radice del problema nulla. 
Nel suo recente rapporto annuale il centro studi gesuitico Astalli sottolinea che nel mondo ci sono 80milioni di persone in fuga da guerre, carestie, dittature e povertà. Suona tragicomico, ma per quelle persone il Covid è solo un problema in più, non il peggiore. La paura per la pandemia, i lockdown e l’introduzione di misure restrittive negli spostamenti non hanno frenato i migranti e la loro Odissea. Ininterrottamente hanno continuato il loro allucinante viaggio, sfiancati, schiavizzati e umiliati. Torturati e spediti a morte certa sulle carrette del mare. Flussi migratori che si sono mantenuti costanti lungo alcune rotte indipendentemente dall’evoluzione dei contagi.
Nell’anno horribilis verso l’Italia abbiamo avuto un aumento (34mila in più) di arrivi via mare. Nel 2020 sono stati oltre 10mila i migranti intercettati e consegnati alla Libia, per finire in detenzione, in condizioni “inaccettabili”. Nell’arco dello scorso anno le vittime accertate nella traversata tra le spiagge africane e le coste italiane sono state poco meno di 1500. Dal 2014 sarebbero “almeno” 23mila i morti. Circa 400 dall’inizio del 2021. Restare impassibili non è meno sconcertante di coloro che avevano solennemente promesso che non si sarebbero “mai più ripetute scene di migranti dispersi in mare”, giuramento che pronunciarono tanto l’allora presidente della Commissione europea e quello del Parlamento europeo, quanto illustri ministri del nostro governo.
Belle parole, solo parole. Oggi, l’interesse primario dell’Europa è giustamente rivolto alla ripresa sociale ed economica. C’è tuttavia qualcuno che non dobbiamo escludere dal programma di rinascita. Sono coloro che abbiamo dimenticato nell’inferno delle prigioni libiche, stipati nelle carovane nel deserto, nei campi profughi, smarriti in un Continente dalle mille criticità. E che riceve troppo poco aiuto. Esempio, anche questo, di un’epoca segnata dalla disuguaglianza.

IL SULTANO DELUDENTE

Il presidente turco Erdogan non gradisce il manifesto ambientalista firmato dagli ex ammiragli e li fa arrestare per golpismo. Un gruppo di ufficiali della marina in pensione ha criticato la realizzazione di un faraonico canale tra il Mar Nero e il Mar di Marmara e sono finiti con le manette ai polsi. Il mega progetto alternativo alla rotta del Bosforo è definito “ecocidio” da insigni accademici. E andrebbe, tra le tante ricadute dirette o indirette per la stessa Istanbul, a mettere in discussione la convenzione di Montreux del 1936, che prevede il libero passaggio attraverso il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli delle navi civili, anche in periodo di guerra. Un’imponente infrastruttura che liscia la grande cantieristica edile nazionale, ma vede l’alzata di scudi di ecologisti ed opposizione al governo.
Nell’aprile 2015 quando Bruxelles sollecita Ankara a riconoscere il genocidio armeno la risposta di Erdogan è: “Quello che dicono mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro”. Oggi, il problema del “sultano” a forza di non ascoltare nessuno è che le fila dei suoi estimatori si sono decisamente assottigliate. L’uomo forte dell’Anatolia ha perso carisma, iniziando il declino di popolarità. In Turchia l’onda di protesta cresce di giorno in giorno e guarda al voto del 2023. I timori che possano essere elezioni non libere trova conferma soprattutto nei continui proclami di Erdogan, che risuonano come pericolosi passi indietro per la fragile democrazia turca. Inoltre, il boom economico, cavallo di battaglia del leader del partito AKP, si è sgonfiato e l’inflazione galoppa al 16%. Mentre, i diritti civili sono costantemente umiliati e sfigurati. L’uscita dalla convenzione contro la violenza sulle donne – trattato di cui Istanbul era primo firmatario – è solo l’ultimo capitolo di un romanzo cinico.
Nell’anno della pandemia in Turchia sono stati commessi oltre 300 femminicidi. Alla base della decisione di Erdogan ci sarebbero sia calcoli politici che diplomatici: ennesimo caso di avvicinamento a Putin, a cui non è mai piaciuta, e allo stesso tempo un messaggio di propaganda interna per ingraziarsi l’elettorato islamico conservatore. In contemporanea al criminale abbandono di uno strumento giuridico particolarmente sensibile, il “sultano” mandava anche un altro segnale al popolo turco, licenziando in tronco il governatore della Banca centrale, Naci Agbal. Atto sbrigativo che non è piaciuto agli investitori, crollo dei titoli e sospensione delle negoziazioni in Borsa. Dubbi anche sulla tenuta delle riserve valutarie che sarebbero stimate «vicine allo zero». Erdogan, tuttavia, pare intenzionato a non voler desistere dalla campagna contro i tassi d’interesse elevati.
Sul fronte internazionale resta accesa invece la polemica con Macron, dopo le questioni nel mar Egeo e in Libia, il contenzioso si è spostato alla realizzazione della moschea di Eyyub Sultan a Strasburgo, ad opera di una controversa associazione filo-turca. Per l’Eliseo l’evidente richiamo neo ottomano che si propaga in Europa non è assolutamente da sottovalutare.