È quanto mai incerto l’esito delle prossime elezioni parlamentari e presidenziali in Turchia. Occhi puntati su cosa accadrà il 14 maggio. Manca veramente poco all’apertura delle urne e la partita elettorale è entrata nel vivo. La sfida tra Erdoğan e il leader del Partito Repubblicano del Popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu è aperta, lo scarto tra i due, secondo gli ultimi sondaggi, è minimo.
Molto potrebbe dipendere da due fattori, a chi andranno le preferenze dei giovani e per chi voteranno i curdi (circa il 20% della popolazione). Se i secondi da tempo non rappresentano una base di consenso da cui pesca il presidente, i primi invece sembrano fluidi nell’indicazione di voto. Comunque vada, per la prima volta le opposizioni hanno mostrato di avere una concreta possibilità di sconfiggere il Sultano di Istanbul e destabilizzare la sua immagine da eterno vincitore. Per l’opposizione l’aver sottoscritto un accordo di larghe intese e scelto quale candidato Kilicdaroglu, soprannominato il “Gandhi turco”, si è dimostrata una mossa competitiva, che ha mandato in tilt la macchina della propaganda di Erdoğan.
Il ventennio di potere ininterrotto, da parte del partito AKP e del suo padre padrone, rischia di essere al tramonto. Nessuna ombra di dubbio sul fatto che queste elezioni siano oramai un vero e proprio referendum nei confronti dell’attuale presidente. L’uomo forte del Bosforo è oggi probabilmente al livello più basso di popolarità. Disamore e disincanto da parte di una larga fetta del suo popolo, che gli rimprovera di non aver saputo affrontare la crisi economica e finanziaria, in cui è precipitato il paese nel 2018. E da cui non riesce a risollevarsi. In aggiunta alla lentezza nella gestione degli aiuti del recente tragico sisma, che a febbraio ha colpito Turchia e la vicina Siria, oggetto di diffuse critiche. Che hanno costretto sempre di più Erdoğan a rincorrere l’avversario nei sondaggi di gradimento, che lo danno in leggero svantaggio.
L’essersi buttato a capofitto nella campagna elettorale gli ha comportato un notevole stress. Il malore in diretta televisiva, seppure le immagini sono state tagliate dalla regia, hanno scatenato notizie sulle sue condizioni di salute. Convincendo il longevo politico turco a prendersi una breve pausa, prima di tornare in pista nel cruciale rush finale, al suono di allettanti promesse. Per farsi rieleggere punta tutto su: costruzione di 650.000 nuove case nella zona colpita del terremoto; sfruttamento del gas nel Mar Nero e transizione al nucleare con la centrale appena inaugurata; lotta all’inflazione e al terrorismo.
Con queste elezioni la Turchia è chiamata a decidere il suo futuro di potenza internazionale: partner di Bruxelles o tormento dell’Europa? Chi domani prenderà alloggio nel palazzo presidenziale di Ankara avrà il compito di chiarire definitivamente quale posizione tenere nella guerra ucraina. Il ruolo di mediazione diplomatica tra Kiev e Mosca fino ad oggi non ha prodotto molto. Se non un rafforzamento delle relazioni tra Russia, Turchia e Iran.
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DOMANI E SEMPRE E’ IL 25 APRILE
“In Europa, in questo momento, sono in corso, contemporaneamente, due guerre, su piani diversi ma strettamente connessi: quella che vede l’Ucraina aggredita dalla Federazione Russa nella sua integrità territoriale, e una guerra di valori, in cui sono in gioco tutti gli elementi che caratterizzano l’odierna esperienza occidentale, a partire dalla libertà”, sono le parole pronunciate pochi giorni fa all’Università di Cracovia da Mattarella, che suonano antitetiche alle dottrine sovraniste dilaganti.
La lunga ed intensa settimana dedicata alla Memoria e alla Liberazione del presidente della repubblica si snoda dai campi di sterminio in Polonia ai sentieri dei partigiani italiani nel cuneese. Ad Auschwitz si è recato insieme alle sorelle Tatiana e Andra Bucci, sopravvissute alla Shoah. Per la prima volta la massima carica dello stato ha aderito alla Marcia dei vivi, manifestazione istituita nel 1988 a cui partecipano migliaia di giovani da tutta Europa e dal mondo. Il viaggio nell’est di Mattarella avviene in un momento particolarmente cruciale per il Vecchio Continente. La guerra è alle sue porte e la Polonia è il suo ultimo confine. Ed è lì che il presidente ha voluto ribadire un doppio concetto: condannare l’invasione russa e ringraziare per aver accolto milioni di profughi in fuga dall’orrore della violenza. Solidarietà che in passato, nemmeno troppo lontano, la Polonia ha volutamente ignorato. Con il governo di estrema destra guidato da Mateusz Morawiecki che nel nome del nazionalismo ha abbracciato politiche di respingimento dei migranti.
Impossibile non dimenticare che esattamente 80 anni fa nel ghetto di Varsavia avvenne la prima ribellione contro l’occupazione nazista. Una lotta imparziale e impossibile. Che fu però l’inizio della rivolta ebraica, la più lunga e partecipata durante l’Olocausto. Si trattò di un’insurrezione popolare, che le SS e le milizie polacche repressero nel sangue. Per poi sterminare la restante comunità nei lager. Quella battaglia è oggi un simbolo profondo di civiltà. E le ultime parole del suo leader Mordecai Anielewicz un inno eroico: “Il sogno della mia vita è diventato realtà. L’autodifesa ebraica nel ghetto di Varsavia è diventata un dato di fatto. La resistenza armata ebraica e la rappresaglia sono diventate una realtà. Ho assistito alla magnifica lotta eroica dei combattenti ebrei”. Allora, anche in Italia i Comitati di Liberazione Nazionale fecero la giusta scelta di opporsi alle barbarie del nazifascimo. A luglio del 1943 solo pochi mesi dopo gli eventi di Varsavia, tra i torrenti Stura e Gesso, risuona l’appello alla resistenza del comandante partigiano Duccio Galimberti: “Siamo arrivati a questo punto per una guerra assurda imposta al paese da una dittatura che ha distrutto non solo la vita pubblica della nostra patria, ma anche la sua dignità e il suo onore”. L’antifascismo di Anielewicz e Galimberti, pagato da entrambi al prezzo della propria vita, sono capitoli della nostra storia che non possono essere negati, e tantomeno rivisitati. Né minimizzati a prescindere dal colore di chi governa.
IL DECLINO DEL BIBISMO
Perché nonostante Netanyahu abbia fatto un doppio passo indietro, concedendo una pausa all’iter legislativo della contestata riforma giudiziaria e aprendo ai negoziati, la protesta nelle strade di Israele continua? Alla domanda, facciamo nostre le parole di una delle firme più autorevoli di Haaretz, Anshel Pfeffer: “Perché nessuno si fida più di Netanyahu. Se il primo ministro pensava che la sua decisione di congelare la riforma della giustizia gli avrebbe concesso un momento di tregua, l’accordo siglato con l’estremista Itamar Ben-Gvir per creare una sua milizia privata ha fatto naufragare la situazione – e ha creato un altro problema a Bibi”.
Non sventolano il ramoscello d’ulivo i manifestanti che da mesi paralizzano il paese. È opinione diffusa, e plausibile, che in realtà l’obiettivo di indebolire il potere della Corte Suprema non sia stato assolutamente tolto dall’agenda dell’esecutivo. L’ha solamente riposto nel cassetto, per prendere tempo e aspettare giorni migliori. Allo stesso tempo, la strada della trattativa tra maggioranza ed opposizione, sponsorizzata dal presidente della Repubblica Isaac Herzog, è stretta. Difficile, per non dire impossibile, che si arrivi ad un punto di compromesso tra le parti. E assai complicato che il clima politico decanti velocemente. Per ora, Israele dovrà restare con il dubbio che la sua tenuta sociale è fragile, e a rischio implosione. Con Netanyahu sempre più in un angolo, stretto sotto la pressione di fattori esterni ed interni. C’è la piazza con il movimento pro democrazia che ha vinto la sua prima battaglia ed è intenzionata a non fermarsi, fino alla sua destituzione. C’è la sfida di Yoav Gallant (formalmente ancora ministro della Difesa seppur sfiduciato), colpevole di lesa maestà, che “coraggiosamente” ha scelto di patteggiare per la ragionevolezza invece dello scontro frontale. Ci sono i sondaggi con il “moderato” Benny Gantz e il suo partito in forte crescita, a danno del Likud. C’è Herzog in campo a fare da arbitro, e ispiratore di una fase costituente. Il presidente Biden a tifare, apertamente, per i manifestanti, creando non pochi imbarazzi diplomatici all’amico di vecchia data. E infine, gli alleati di governo ad alzare alle stelle il prezzo delle richieste.
Prendiamo ad esempio Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza e leader del partito di estrema destra Otzma, al quale Netanyahu ha dovuto concedere la creazione di una futura guardia nazionale in cambio dell’approvazione a rinviare la riforma della giustizia. Mettere nelle mani di Ben-Gvir, una milizia è potenzialmente un errore, e un pericolo. Varie associazioni israeliane per i diritti civili hanno espresso preoccupazione alla creazione di una tale forza privata ed armata. Fermamente contrari anche la Procura generale, i vertici della polizia e dei servizi segreti. Domenica 2 aprile, il Consiglio dei ministri ha comunque dato il via libera alla proposta di istituire la guardia nazionale, per il bene della tenuta della coalizione. Lasciando la “calda palla” a un comitato che dovrà entro 60 giorni presentare un piano organizzativo, se si dovesse giungere alla conclusione che questo corpo parallelo di polizia risponde unicamente all’autorità del ministro, e non agli organi preposti all’ordine pubblico, ci sarà tuttavia bisogno di introdurre una normativa ad hoc. In tal caso il governo avrà a disposizione altri 90 giorni per approvare la nuova legge. Non è detto che anche questa iniziativa (e promessa di Bibi) finisca per diventare irrealizzabile. E che passi nel dimenticatoio. In molti lo sperano. E vedono prossimo il crepuscolo politico di Netanyahu. Ben-Gvir ha trovato il tallone di Achille e attacca colpendo duro. C’è da credere che presenterà qualche altra delirante pretesa minacciando, in caso contrario, di far cadere il governo. Prima o poi re Bibi dovrà dirgli un secco no. E decidere se spostarsi fuori dal quadrato della sua coalizione in cui si è trincerato. L’alternativa è formare una diversa maggioranza o tornare al voto, senza però avere una copertura tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. La morsa si stringe intorno al falco della destra, per uscirne farebbe meglio a guardare alla costituzione, che manca da 75 anni.
BIBI IN PAUSA
Domenica 26 marzo, Netanyahu decide di silurare il ministro della Difesa Yoav Gallant, reo di aver dichiarato di essere favorevole alla sospensione della contestata riforma della giustizia, promossa dal governo. Il licenziamento provoca un vespaio di nuove proteste in Israele. Nell’arco di una notte, lunga e sofferta, tutto precipita. E al mattino la notizia è che: “Netanyahu congela la riforma giudiziaria”. Almeno, è quello che trapela e rimbalza sui siti. Intanto, ci si aspetta che parli alla nazione. L’annunciata conferenza stampa però si trasforma in una via di mezzo tra il giallo e la barzelletta. Cresce l’attesa. Parla o non parla? Ammette la sconfitta o chiama in piazza i suoi? Che intanto si sono dati appuntamento per una contro-manifestazione nel pomeriggio a Gerusalemme. Il più infervorato è il ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir che twitta «Oggi finisce il nostro silenzio. Oggi è il giorno in cui la destra si sveglia». Poco dopo anche l’altro leader dell’estrema destra razzista Bezalel Smotrich sentenzia: «Facciamo sentire la nostra voce». Sorge tuttavia spontanea una domanda: la vostra o quella di Bibi? Perchè quella del premier in tutto questo grande caos, un balagan gadol, mica si sente. Silenzio stridente, che lascia il dubbio che voglia veramente arrivare alla prova di forza. Altrimenti, perchè attendere così tanto? Ha già avuto modo di sentirsi personalmente con quasi tutti i leader che compongono la coalizione. Ha davanti a sé un quadro chiaro. Il blocco dei partiti religiosi gli ha dato conferma che sarà al suo fianco qualunque cosa decida di fare. Nel Likud la fronda è disposta a rientrare nei ranghi con l’annuncio dello stop alla riforma. Il problema è la componente nazionalista, che lo incita a proseguire e minaccia di sfasciare la coalizione in caso contrario. Numeri alla mano il governo di Bibi cessa di esistere nel momento in cui decide di pronunciarsi in pubblico, se non ricompone prima l’alleanza. Alla fine, il sacrificio è doppio, oltre al passo indietro ora deve subire anche le pretese di Ben-Gvir, al quale è costretto a promettere il comando di una futura “fantomatica” guardia nazionale. Un prezzo decisamente alto. Nonostante l’immagine di falco, Netanyahu è sempre stato considerato un politico cauto, avverso al rischio, attento a portarsi al limite senza superarlo, ideologicamente un populista conservatore. Questo era il vecchio Bibi che conoscevamo, e che qualcuno rimpiange persino a sinistra (non fosse altro per le poltrone che elargiva indistintamente). Quello di oggi, che si è incattivito con il sopraggiungere dei guai giudiziari, è completamente diverso. È diventato un populista sovranista. Ma soprattutto è un politico debole con gli alleati, che gli impongono lo spartito da suonare.
Bibi sin dall’inizio ha tentato di svicolare l’assedio montante sulla riforma della giustizia rassicurando che i diritti non erano in pericolo e la gente avrebbe dovuto fidarsi di lui, ma non tutti gli hanno creduto (anche tra quelli che l’hanno votato). E poi negli ultimi giorni vista la mala parata aveva “ammorbidito” il testo della riforma e allungato il brodo dell’approvazione. Parvenza di addolcire la pillola con qualche concessione che però non aveva avuto l’esito aspettato. La strategia comunque mirava in prima istanza a contenere le crepe nel Likud, che invece sono esplose, sbocciate come un fiore di primavera nel bel mezzo di una tempesta senza precedenti. Un grave errore di calcolo per un politico navigato, che si aggiunge ad altre cadute di stile.
Quando i sopravvissuti alla Shoah prendono carta e penna per scrivere una lettera al governo chiedendo di non partecipare alle cerimonie ufficiali nel giorno del ricordo dell’Olocausto (Yom HaShoah), non c’è nulla da aggiungere. Quando l’associazione delle famiglie che hanno perso i loro cari durante il servizio militare o per mano del terrorismo recapitano un “invito” ai rappresentanti della maggioranza a non intervenire alla giornata in memoria delle vittime (Yom HaZikaron), c’è solo da ascoltare in silenzio. Quando un ex direttore del Mossad afferma la necessità per il Paese di dotarsi di una costituzione, meglio obbedire. E quando il presidente della repubblica Isaac Herzog lancia un accorato appello chiedendo «di fermare immediatamente il processo legislativo, per il bene dell’unità del popolo di Israele e per amore del senso di responsabilità», andare avanti a testa bassa diventa un suicidio politico. Netanyahu ha perso il suo tocco magico e forse lucidità di analisi, ma può ancora evitare un folle disastro.
LA VOCE DI HERZOG, IL SILENZIO DI BIBI
Israele non avrà una costituzione ma ha un presidente, Isaac Herzog. Il quale in queste ore di crash test sulla tenuta della coesione sociale ha avanzato un articolato piano di mediazione (la “Direttiva della gente”), nel tentativo di abbassare i toni del confronto politico che è in atto nel Paese sulla proposta di riforma della giustizia: «Chi pensa che una vera guerra civile, con vite perse, sia una linea che non attraverseremo, sbaglia. Proprio ora, 75 anni dalla sua nascita, Israele è sull’orlo dell’abisso… Siamo ad un bivio: tra una crisi storica o un momento costituzionalmente decisivo». La mossa di Herzog, come lui stesso ha voluto sottolineare, «riflette un ampio, vasto comune denominatore e un enorme desiderio dei cittadini di concordare un compromesso». Secondo un recente sondaggio pubblicato dal Jerusalem Post il 42% degli intervistati ha dichiarato di sostenere la “direttiva” avanzata Herzog. Per la frastagliata opposizione in parlamento la proposta è sostanzialmente una strada praticabile ma non una soluzione ideale. Mentre, la coalizione di governo l’ha respinta al mittente giudicandola una “capitolazione”, perché disallineata dagli obiettivi che la riforma giudiziaria vuole apportare al sistema di bilanciamento dei poteri. Accusando l’atteggiamento del presidente di essere delegittimante del risultato elettorale. Purtroppo, per convincere l’esecutivo capitanato da Netanyahu a fermare l’iter della contestata riforma occorre molto di più del richiamo del capo dello stato, figura autorevole ma nel sistema istituzionale israeliano, puramente rappresentativa. Nulla ad oggi è valso a far desistere la coalizione di destra dal procedere a tappe spedite verso il depauperamento dell’autorità della Corte Suprema. Non ci sta riuscendo l’onda del movimento “pro-democrazia”, una marea umana che da settimane riempie le strade di Tel Aviv. Un buco nell’acqua hanno fatto gli appelli di finanza, imprenditori, banchieri, giudici, artisti, premi nobel e persino riservisti. Non è bastata nemmeno “l’insubordinazione” dell’IDF a portare a miti consigli Bibi & friends. L’unica cosa che può impedire l’introduzione del nuovo disegno di legge è, a questo punto, la crisi della maggioranza, scesa al limite di 61 voti a favore (su 120). Teoricamente ci sarebbero ancora margini per modifiche sostanziali del testo in seconda e terza lettura alla Knesset. Nessuno però pare particolarmente intenzionato a procedere in un tale labirinto. Un’eventuale, poco probabile ma non impossibile, scossone politico potrebbe venire invece da un cambio della maggioranza, con la formazione di un nuovo esecutivo spostato al centro oppure da una frattura interna del Likud, di cui Netanyahu è al momento indiscusso padre-padrone. Ciò non toglie che i malumori di dissenso al capo serpeggiano tra gli esclusi di corte, comunque la congiura non è sotto il tavolo. Quello che è ampiamente il primo partito in Israele già in passato è stato teatro di importanti defezioni, lotte intestine e scismi. Epica la rottura di Ariel Sharon quando fondò Kadima. Bibi di sfide ne sa qualcosa, fin dalla sua ascesa al vertice dei conservatori israeliani ha dovuto sfoggiare tutte le sue doti machiavelliche per respingere le insidie. La lista dei nemici che in questi anni il falco della destra si è fatto è lunga, quasi quanto un vecchio elenco telefonico. Solitamente però chi gli si è rivoltato contro si è amaramente pentito della scelta, uscendone politicamente ridimensionato. Bastonate che di per se invitano a riflettere cautamente prima di provare a fargli uno sgambetto. Anche se personalità del Likud del calibro di Yuli Edelstein o David Bitan si possono permettere quello che ad altri nel partito non sarebbe minimamente concesso, alzare la testa e contestare il re. Se Bibi continua a perdere pezzi si vedrà costretto ad inventarsi una strategia alternativa, compresa l’opzione meno gradita del ribaltone. Benny Gantz e il listone di Unità Nazionale aspettano alla porta, e non è detto che gli venga offerto di entrare al posto di qualcuno scomodo.
BIBI AGGIUNGE UN POSTO A TAVOLA, CHE C’E’ UNA AMICA IN PIU’
A scrivere un nuovo capitolo dei rapporti tra Israele e l’Italia non troppo tempo fa fu Mario Draghi, la controparte allora era il governo anti-Bibi di Bennett e Lapid. Ad avvicinare le due sponde del Mediterraneo gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sull’energia. L’obiettivo era, e resta, quello di ridurre la dipendenza dal gas di Putin, in tempi rapidi. Israele ed Egitto rappresentano una valida alternativa di approvvigionamento per le aziende italiane. La calda accoglienza romana a Netanyahu è la riprova che nulla è cambiato nella strategia energetica nazionale. Per una cooperazione che si muove all’interno di una strutturata cornice di relazioni bilaterali, spaziando in diversi campi: innovazione e start-up, infrastrutture e telecomunicazioni, mobilità sostenibile e biomedicina, aerospazio e sicurezza cibernetica, farmaceutica e bellica. Affari commerciali che nel 2021 hanno registrato un balzo dell’export made in Italy del +25,9% (per un valore pari a 3,1 miliardi di €), rispetto all’anno precedente.
Una idillica partnership, fatta comunque non solo di scambi commerciali. Mazal tov (Auguri). L’incontro tra Meloni e Netanyahu ha avuto toni informali, quasi si trattasse di una rimpatriata di amici di lunga data. Ma in fondo Bibi si è sempre scelto attentamente le amicizie italiche. Quella storica con Berlusconi e poi quella con Renzi quando era in auge, alquanto fredda invece con Salvini (il loro incontro a Gerusalemme durò pochi minuti, giusto il tempo di una stretta di mano e della foto di rito) e pessima con Prodi (non quanto però quella con Clinton e Obama). Il falco del Likud si è presentato a Roma con un sacco di buone intenzioni, che tradotto in politichese significa che ha offerto a Meloni il riconoscimento internazionale ad entrare nel Pantheon dei leader mondiali della nuova destra: “Non ho dubbi sul fatto che Meloni ed altri leader del suo partito abbiano imparato la lezione della Storia” (M. Molinari, Netanyahu, l’intervista: “Al popolo della protesta dico: la democrazia in Israele è solida”, la Repubblica). Dopo aver sdoganato l’estrema destra israeliana Bibi mette sotto la sua ala protettiva la leader di FdI, anche in questo caso però la “fiducia” deve essere ricambiata, ed il prezzo imposto è alto: “credo sia venuto il momento per Roma di riconoscere Gerusalemme come capitale ancestrale del popolo ebraico”, ha puntualizzato al direttore Molinari nella recente intervista rilasciata a la Repubblica. Commento che suona come una esplicita richiesta diplomatica dalla portata politica, figlia della sintesi tra bibismo e trumpismo. Un punto massimo a cui sia Palazzo Chigi che la Farnesina non possono spingersi, per varie ragioni. Non fosse altro perché a Washington adesso c’è Biden e non Trump.
La motivazione che ha portato invece il vicepremier Salvini a sposare l’iniziativa e spaccare il governo sulla questione ha una risposta “scacchista”: sacrificare la regina, esponendola a situazioni disagevoli, è al momento l’unica mossa del segretario leghista per prendersi la scena. Nulla di personale, è semplicemente la logica legge del mors tua vita mea. In questo Bibi è un maestro di machiavellismo, e Meloni deve fare attenzione alla prima lezione profetica che gli ha impartito: “La Storia è imparziale e non perdona. Non favorisce i virtuosi, chi ha una superiorità morale. Favorisce chi è forte. Se vogliamo proteggere i nostri valori, diritti, le nostre libertà, dobbiamo essere forti”. Risoluti e mai compassionevoli con il nemico, tanto che si tratti dell’Iran o della Siria, dei palestinesi o del movimento israeliano che vuole fermare la riforma giudiziaria. I leader politici israeliani sono storicamente poco inclini alla magnanimità, come scriveva qualche settimana fa Herb Keinon sul Jerusalem Post (Now is the time for Netanyahu, coalition to show magnanimity). Rabin non indietreggiò d’un passo sugli Accordi di Oslo, tantomeno Ariel Sharon quando sgomberò Gaza. Per non parlare di David Ben-Gurion che ordinò persino di far fuoco alla nave Altalena. Il padre fondatore mancò tuttavia di dare una costituzione allo stato, una fase costituente secondo il suo punto di vista avrebbe aumentato le divisioni politiche, in un momento di emergenza. Lasciò insoluta una questione a cui poi nessuno ha messo mano. Se Netanyahu decidesse di scrivere la costituzione, e mettere così fine al vulnus esistente, dovrebbe sedersi al tavolo con l’opposizione, mostrando disposizione all’ascolto. Francamente, pensiamo che non avverrà. E da questa partita sulla giustizia uscirà un solo vincitore, magari un po’ malconcio.
Nel 1948 il primo ministro Ben-Gurion non partecipò all’insediamento della prima Corte Suprema di Israele. C’è chi dice perché non avrebbe accettato l’ingerenza. E c’è chi pensa che con quel gesto volesse tracciare la linea di indipendenza dei giudici. L’unica democrazia del Medioriente si è portata dietro questo dubbio, che però le ha permesso di mantenere inalterato sino ad oggi il bilanciamento dei poteri istituzionali. Ambiguità che Bibi non rischia affatto di lasciare ai postumi.
LA PARTITA DEL MEDIORIENTE DI BIDEN
Il segretario di stato statunitense Antony Blinken in tre delicati giorni ha fatto la sponda tra il Cairo, Gerusalemme e Ramallah. Il tessitore della diplomazia della Casa Bianca si è fatto latore dell’invito alla calma di Biden difronte all’ennesima escalation di violenza tra israeliani e palestinesi. Missione se non impossibile altamente improbabile per Blinken. Infatti, a tenere banco nel faccia a faccia tra Blinken e il premier Netanyahu non è stata la questione israelo-palestinese, bensì altre criticità globali che si intrecciano. L’Iran arma la Russia nella campagna di invasione dell’Ucraina. E Mosca fa orecchie da mercante sulla brutale repressione al movimento di protesta da parte del regime sciita. Alla luce dello scenario attuale la Casa Bianca ritiene che lo spazio diplomatico per un accordo sul nucleare con Teheran sia da considerarsi morto e sepolto. Il messaggero di Biden ha confermato che gli USA concordano con Israele sull’importanza di prevenire un Iran militarmente nuclearizzato. Era quello che in fondo Bibi voleva sentirsi dire. E passi che Blinken gli abbia tirato le orecchie sulla riforma giudiziaria che l’esecutivo vorrebbe introdurre. Decisione che ha portato in piazza migliaia di israeliani in difesa del ruolo della Corte Suprema e della democrazia.
In sintesi, la politica estera di Biden in Medioriente è un mezzo buco nell’acqua, almeno ad oggi. Buoni propositi, tante parole ma pochi fatti. Perfettamente in linea con quanto ereditato dai suoi predecessori, nulla di più e niente di meno. Eppure, da uno statista di lungo corso e attento conoscitore della regione ci si sarebbe aspettato uno sforzo maggiore. Invece, l’approccio di fondo è stato quello di evitare di commettere imprudenze e farsi impantanare in qualche guerra logorante. Privilegiando, quando possibile, e sostenendo, a spada tratta, gli affari: nel rispetto della consolidata tradizione della centralità degli stati del Golfo. Nel caso dell’Egitto, nell’arco del mandato, la Casa Bianca ha rafforzato le relazioni, anche personali, tra i due presidenti. Al contrario di quanto si pensava inizialmente, quando lo stesso Biden, sia in campagna elettorale che nei primi mesi in carica, aveva dimostrato forti attriti nei confronti di Abdel Fattah el-Sisi. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la ragione che l’Egitto resta un partner geograficamente strategico: il canale di Suez è un punto nodale per spostare velocemente la flotta dal teatro del Mediterraneo a quello, sempre più caldo, del mare della Cina e il lavoro dei servizi segreti egiziani nella Striscia di Gaza è un utile strumento di mediazione. Elementi talmente indispensabili che le divergenze tra il Cairo e Washington sui diritti umani e democrazia sono state riposte nell’armadio, insieme ad altri scheletri. Tono conciliante, almeno a parole, persino con Netanyahu. Il quale dopo la formazione del governo di estrema destra è stato messo sotto osservazione da Biden. Seppure i due si conoscono da tempo, e siano amici, il presidente americano sa benissimo di non potersi fidare. Netanyahu è un principe di machiavellismo, difficile da contenere. Spregiudicato al punto da essersi contornato da un miscuglio di nazionalisti, ortodossi religiosi, razzisti e neofascisti, che rendono la sua nuova ricetta di governo imbarazzante e pericolosa. Comunque, se dovesse sopraggiungere la burrasca è chiaro che la Casa Bianca non arretrerà di un metro dal processo di “normalizzazione” degli stati arabi verso Israele, introdotto da Trump con gli Accordi di Abramo. Peccato, come abbiamo scritto altre volte, che in quello schema logico manchino ancora dei tasselli, non ultimo quello della presenza dei palestinesi. Ai quali gli USA hanno riaperto i rubinetti dei fondi, dopo l’interruzione degli aiuti della precedente amministrazione. Che considerò insolente il rifiuto di Abu Mazen a sedersi al tavolo delle trattative, e per questo l’ha punito in modo esemplare. Ora i rapporti sono decisamente migliorati, ma sussiste qualche latente frizione. Biden, ad esempio, non ha gradito il silenzio della Muqata sul recente attentato alla sinagoga di Neve Yaakov, quartiere della periferia di Gerusalemme. Condanna che Abu Mazen non avrebbe pronunciato trincerandosi dietro il “suicidio politico” per l’accresciuta rabbia palestinese dopo i fatti di Jenin. L’erede di Arafat avrebbe però confermato che l’Autorità palestinese è pronta a riprendere il coordinamento sulla sicurezza con Israele appena gli animi si saranno placati. Pare lampante che la debolezza di Abu Mazen nel mantenere ordine è un altro punto dolente e serio della questione.
Mentre, sul fronte opposto il governo di Netanyahu in risposta all’ondata terroristica che ha sconvolto il Paese ha approvato una serie di misure punitive, dal dubbio effetto. In un sondaggio condotto da iPanel lo scorso novembre la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di non credere che Netanyahu sia in grado di combattere il terrorismo. Pessimisti? No, è semplicemente la realtà.
PASSEGGIATA IRRESPONSABILE
Il ritorno di Netanyahu al potere e la passeggiata del neo-ministro Itamar Ben-Gvir (in occasione del giorno di digiuno ebraico per il lutto degli eventi che hanno portato alla distruzione del Tempio) hanno riacceso i timori del regno hashemita sul futuro della custodia della Spianata delle Moschee (o Monte del Tempio nella toponomastica ebraica) a Gerusalemme. Sito gestito da una fondazione (Waqf) facente capo proprio alla famiglia reale giordana. I giordani, come del resto i palestinesi, sono convinti che l’attuale esecutivo israeliano abbia l’intenzione di cambiare lo status quo del terzo luogo sacro per l’islam, dopo la Mecca e Medina. In quel rettangolo all’estremità nord della Città Vecchia, dove in passato si ergeva il luogo di culto più importante per l’ebraismo, la tradizione musulmana narra sia avvenuto il viaggio notturno del profeta Maometto in cielo: «Gloria a Colui Che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota, di cui benediciamo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui Che tutto ascolta e tutto osserva» (Corano, Sura Al-Isrâ’). Da anni quel lembo di terra è oggetto di contesa, tensioni e violenze.
Le aspre condanne che in queste ore sono state espresse a Ramallah, Gaza, Amman e Beirut in risposta alla visita di Ben-Gvir sono un chiaro avvertimento a non sovvertire i delicati equilibri che regolano la Città Santa (al-Quds in arabo). La sottile linea rossa che porterebbe ad una inevitabile “guerra santa” è il caso in cui Israele travalicasse, facendo crollare la moschea di al-Aqsà per ricostruire il terzo Tempio. Di questo si parla e straparla da tempo, la nostra convinzione è che ci siano delle evidenti strumentalizzazioni propagandistiche (strettamente politiche e poi religiose), che continuano ad autoalimentare falsità e fomentano l’odio. La verità storica che risale al conflitto dei Sei Giorni, come scriveva Benny Morris, è che «I Luoghi Santi di Gerusalemme sarebbero stati governati in base agli accordi pre 1967, ma con libertà di accesso per tutti. Appena, raggiunto, il 7 giugno, il Sacro recinto (il Haram al-Sharif), Dayan ordinò ai paracadutisti di togliere una bandiera frettolosamente issata sulla Cupola della Roccia. L’amministrazione e la sicurezza del sito fu lasciata in sostanza al Wafk, il fondo religioso musulmano, anche se l’IDF ebbe il controllo di una Porta per vegliare sul viavai civile e turistico nell’Haram». Di pari passo con l’approccio del generale Moshe Dayan è andata tuttavia prendendo forma la strategia di Yigal Allon, che architettava la trasformazione di Gerusalemme quale capitale inalienabile dello stato ebraico. Ripopolando il quartiere ebraico tra le mura e circondando la parte “araba” con un anello di nuovi sobborghi israeliani: «Se non cominciamo entro un giorno o due, non cominceremo mai». Nel corso degli anni le “passeggiate” dei politici (ed estremisti nazionalisti) israeliani nel complesso della Spianata sono state simboliche e provocatorie. Come avvenne con Sharon nel 2002 trasformandosi in accesa conflagrazione, esplosa in Intifada.
Il gesto della camminata del capo del partito razzista Oztma non è una novità del personaggio. Nel 2006, Ben Gvir venne fermato dalla polizia mentre organizzava il sacrificio di Pesach. Nel 2017, l’allora avvocato sostenne legalmente il movimento di destra radicale denominato Chozrim Lehar (Ritorno al Monte): «È inimmaginabile che le persone vengano arrestate nel cuore della notte perché vogliono eseguire un comandamento religioso ebraico», la difesa di Ben Gvir. Diventato assiduo scorrazzatore tra le pietre del “sagrato” prima della sua ultima “bravata”, circa tre mesi fa, si era recato nella Spianata per celebrare il capodanno ebraico di Rosh Hashanah. Nonostante la retorica Ben Gvir ha formalmente siglato accordi di governo che negano alterazioni dello status quo di Gerusalemme. I fatti indicherebbero il contrario di quanto stipulato con Netanyahu. Il quale il giorno precedente ha avuto un inatteso colloquio proprio con Ben-Gvir riguardo alla sua intenzione di recarsi all’Haram. Poco si è saputo di quanto discusso tra i due alleati. Ancora meno del tono del confronto e della reazione di Bibi alle pretese del suo ministro della Sicurezza nazionale. Comunque, se re Netanyahu avesse effettivamente messo un veto è palese che il suo ordine sia stato sbeffeggiato. Così, non pare. Bibi non ha perso la faccia e tantomeno le briglie. Ma la sua abilità di alchimista, con questo esperimento politico, genera profonde preoccupazioni alla Casa Bianca.
FLOP ELEZIONI TUNISINE
Le elezioni tunisine per il rinnovo del parlamento, che avrebbero dovuto sancire il compimento del programma politico di cambiamento del presidente Kais Saied, si sono invece rivelate un vero e proprio buco nell’acqua. Anche se i pronostici della vigilia lasciavano pensare ad un forte astensionismo nessuno avrebbe immaginato che la partecipazione al voto sarebbe stata inferiore al 9%. Le ragioni alla base di tale esito hanno una doppia motivazione: il boicottaggio elettorale delle principali forze di opposizione e il diffuso scarso interesse per la politica. Protesta, delusione e paura per il futuro hanno prevalso.
La lista dei problemi di questo piccolo stato africano è lunga e seria. Su tutto pesa la crisi economica, con l’inflazione che a novembre sfiorava il 10%. Intanto, la febbrile trattativa in corso con il Fondo monetario internazionale diventa indispensabile per evitare la bancarotta. Mentre, disoccupazione cronica, povertà e aumento delle disuguaglianze si amplificano. I flussi di migranti verso l’Italia sono in crescita. Carenza di cibo, medicine e carburante sono la quotidianità: scaffali vuoti nei supermercati. I bar che hanno difficoltà a reperire il tradizionale caffè, introvabile il latte. Pescherie e macellerie che vendono solo prodotti a basso costo. Storie e cronache di un paese praticamente alla deriva.
Nel 2021 Saied, costituzionalista di fama internazionale al suo secondo anno in carica, aveva impresso un’accelerazione al sistema presidenzialista: sospeso il parlamento e licenziato il primo ministro Hichem Mechichi. Pochi mesi dopo era toccato al Consiglio superiore della magistratura e a seguire ci fu lo scioglimento dell’organo legislativo. A luglio 2022, il referendum che approva la nuova costituzione. E a settembre la legge elettorale è modificata, riducendo a 161 (erano 217) il numero dei seggi. Fino a quel momento la svolta autocratica di Saied ha proceduto senza troppi intoppi. In realtà il malcontento generale non è mai stato nascosto (al referendum costituzionale si erano recati al voto solo il 30% degli aventi diritto). Tuttavia, la popolarità del presidente supera di gran lunga quella dei suoi avversari politici. Ed è per questo che sono in molti a ritenere che queste elezioni non avranno comunque conseguenze sul quadro politico. Il regime di Saied ha di fatto già depotenziato il parlamento, dandogli un ruolo tendenzialmente consultivo.
Della Tunisia che apriva la strada alle rivolte della primavera araba non è rimasta traccia. Tranne il dato storico di aver decretato la fine della dittatura di Ben Ali, figlia di quella di Bourguiba. Il movimento che aveva portato alla nascita di un parlamento costituente post-rivoluzionario, negoziato dai partiti e dalla società civile, è rapidamente imploso tra profonde divisioni ideologiche, e per l’impatto con la burocrazia della corruzione. Il crescente contesto di antipolitica e la frammentazione interna hanno favorito l’ascesa di Saied, ma questi stessi fattori ora rischiano di riflettersi contro di lui ed aumentare l’instabilità.
IL RE E’ TORNATO
In Israele Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni politiche della XXV legislatura alla Knesset. Il falco della destra e il blocco che lo sosteneva hanno ottenuto la maggioranza qualificata dei seggi, numeri utili a formare in tempi brevi un esecutivo.
Dopo la parentesi che lo aveva visto relegato all’opposizione del governo di Naftali Bennett, prima, e Yair Lapid, poi, il ritorno di Netanyahu sul trono di Gerusalemme avviene per effetto dello spostamento decisamente a destra dell’asse politico. Il suo partito, i conservatori del Likud, è risultato ancora una volta di gran lunga la prima forza.
Ma il vero vincitore di questa tornata elettorale (la quinta in tre anni) è la lista nazionalista di estrema destra Sionismo religioso, di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Figure fino a ieri marginali nell’agone politico ed oggi balzati alla ribalta assestandosi come il terzo raggruppamento del parlamento, indispensabili alla nascita del Netanyahu ter. Il prossimo esecutivo oltre alla formazione citata avrà il sostegno dei due partiti dei religiosi ultra-ortodossi, Shas e United Torah Judaism.
Al momento, l’intenzione di Netanyahu è quella di accelerare il passaggio delle consegne dal rivale Lapid. Agenda alla mano, e nel rispetto delle procedure istituzionali, il presidente Herzog potrebbe dare presumibilmente l’incarico al leader del Likud già la prossima settimana, o al massimo entro il 16 Novembre se le consultazioni dovessero slittare. A quel punto rimarrebbero a Netanyahu i fatidici 28 giorni per chiudere la formalità della squadra di governo (e delle poltrone da assegnare).
Ben-Gvir e Bezalel Smotrich forti del risultato di consenso reclamano il diritto ad avere portafogli di prima fascia: sicurezza e giustizia. Lasciare a queste due “esuberanti” personalità campo libero sia nel controllo della polizia che dell’amministrazione giudiziaria (civile e penale) potrebbe tuttavia essere un azzardo, che mette a serio rischio la tenuta del sistema democratico israeliano. Il garante di questa operazione che a vario titolo riguarda i futuri rapporti tra religione e stato, arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi, è il navigato, e pratico, Netanyahu. A cui non mancano capacità ed esperienza. A preoccupare è che in linea con il trend del voto il rafforzamento del carattere ebraico di Israele venga manipolato per restringere diritti e libertà. Ad esempio, sulla questione della giustizia si parla con insistenza di stravolgere l’impianto esistente, depotenziando la Corte Suprema e riducendo l’autonomia dei magistrati.
Un altro fattore da non sottovalutare è il disagio statunitense nei confronti di questa tipologia di ministri. La Casa Bianca non pare avere intenzioni dialoganti, se non arretrano nelle posizioni. Intanto, Biden ha impartito il diktat che non si cambia di una virgola sia il trattato marittimo con il Libano che gli Accordi di Abramo con le monarchie del Golfo. Altrimenti, l’alleanza si incrina rovinosamente. Infine, se vi chiedete cos’è stato del polo anti-Netanyahu, beh è finito ancora prima di cominciare, sepolto nelle urne.