Il suo nome non è Bond, James Bond ma Dagan, Meir Dagan. È l’ex capo dei servizi segreti israeliani, il deus ex machina dell’intelligence forse più potente al mondo. Dagan è l’ultima personalità in ordine cronologico ad entrare prepotentemente nella campagna elettorale 2015. Il soldato pluridecorato, eroe di guerra, leggenda dei corpi speciali, spia con licenza di uccidere e decidere chi eliminare, è salito sul palco della manifestazione di Tel Aviv e ha pubblicamente sparato a zero contro Netanyahu. La piazza Rabin gremita di sostenitori del “cambiamento” ha ascoltato in silenzio le parole dell’uomo che negli ultimi decenni ha protetto la loro sicurezza e quella del Paese. Calvo, sbarbato, abito scuro, occhiali squadrati e sguardo glaciale, piegato ma non spezzato da una terribile malattia che ha lasciato il segno e con la quale lotta da anni, uomo di cultura e appassionato d’arte, ha raccolto gli applausi della folla, lui abituato a stare in disparte, a muovere le pedine dietro le quinte, si è preso il suo spazio di notorietà e pubblicità. Ha parlato con voce flebile, senza retorica ma con semplicità: “Israele è circondato da nemici. Ma non sono loro che mi fanno paura. Io sono preoccupato della nostra leadership.” È apparso, in alcuni tratti del suo discorso, visibilmente emozionato, anche Bond almeno una volta ha pianto, per poco, ma ha versato lacrime vere. Piangere è umano. Quanto Dagan sia umano non è detto saperlo, la spia nata in Russia anzi in USSR (leggenda vuole che la madre abbia partorito sul treno mentre la famiglia scappava dalla Polonia occupata dai nazisti), ha dimostrato di essere un leader politico e carismatico o almeno non nasconde le potenzialità per poterlo, a breve, diventare. In Israele è cosa assai comune che un militare in carriera possa passare “in prestito” alla politica, non c’è da essere scandalizzati. Fatto sta che Dagan è divenuto un elemento chiave della campagna di discredito verso Netanyahu, le sue dichiarazioni affossano, giorno dopo giorno, la credibilità del premier. Suona strano che proprio lui così schivo ai sensazionalismi, ai riflettori, alla fama, sia diventato l’icona del centrosinistra israeliano e il front man che “sbugiarda” costantemente il capo del governo. Lui che certo non è mai stato uomo dichiaratamente di sinistra, nominato al vertice dell’Istituto da Sharon e poi in passato lodato dallo stesso Netanyahu. La rottura dei rapporti tra i due è legata alle recenti crisi di Gaza e al presunto dossier iraniano. L’ex capo dell’Agenzia è strenuamente critico sul pericolo nucleare paventato dal Primo Ministro israeliano: “Netanyahu ha causato ad Israele il peggior danno strategico.” E nel suo commento, alle parole pronunciate recentemente dal leader israeliano al congresso americano, pare sia stato colorito e caustico: “stronzate”. Ovviamente Netanyahu non ha risposto agli attacchi di Mr Mossad. Offendere, inimicarsi l’uomo che ha raccolto e spulciato nei segreti di tutti non è certo una bella mossa politica, a prescindere dagli scheletri che nascondiamo nell’armadio. Nel 2015 i servizi segreti israeliani sono ancora circondati da un alone di mistero e dalla fama d’infallibilità, al pari dei servizi di Sua Maestà, almeno di quelli cinematografici. “Vorrei ricordarti che questa operazione andava condotta con una certa discrezione…” Ammoniva M, capo del MI6, con queste parole l’agente Bond. Discrezione è sinonimo di servizi segreti. Dagan ha fatto cose che molti di noi ignorano, segreti coperti da un profondo silenzio tombale e dalla ragion di stato. La voce dell’ex 007 resta molto ascoltata e rispettata nella società israeliana. L’uomo che celava segreti oggi infiamma le piazze e guida il movimento per il cambiamento, vuole sconfiggere Netanyahu. L’operazione “abbattere il falco” è in atto. Parola di Dagan, Meir Dagan.
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Palestina: un conflitto dai molteplici approcci
La questione palestinese tra ginepraio e labirinto. Il conflitto che da anni incombe in Terra Santa si presta, per la sua natura, a molteplici approcci. Non aiuta il fatto di essere attenti spettatori esterni. Districarsi in un dedalo intricato e complesso, lastricato di odio e sangue, è pericolosamente sdrucciolevole per la politica e per il lettore. E così l’Italia ha deciso di andare avanti con proposte contraddittorie e ambivalenti, senza pestare troppo i piedi. È stato chiaro la scorsa settimana quando il Parlamento ha approvato due risoluzioni sul riconoscimento dello Stato palestinese discordanti. Con una mozione è stato votato il riconoscimento della Palestina, con un altra è stato posticipato a tempi migliori. Della serie vogliamo in Terra Santa due popoli due stati ma non oggi, forse domani ma solo quando ci sarà, se ci sarà, la pace. A dimostrazione che la politica italiana nei confronti del conflitto israelopalestinese naviga nella più totale confusione, in queste ultime settimane, ci sono stati molti esempi oltre lo “storico” voto di Montecitorio. La risoluzione sullo stato della Palestina è stato un passaggio votato a larga maggioranza. 300 i si alla Camera dei Deputati per una decisione non vincolante, puramente simbolica e con il contorno del pasticcio. Un pasticcio di diplomazia internazionale e politica interna. Dove a rischiare il danno peggiore era il governo che intenzionato a non dare un’indicazione chiara ha dovuto inventarsi una via d’uscita equilibrista: il riconoscimento ma anche no. Dovevamo accontentare tutti, palestinesi, israeliani, Parlamento Europeo, PD, Alfano e ci siamo “miracolosamente” riusciti. È bastato lasciare il bicchiere a metà, non troppo pieno e nemmeno mezzo vuoto. Insomma, una linea politica attendista che non disturbasse la sensibilità di nessuno. In generale ci pare che il problema delle due risoluzioni non è se conti più la prima o la seconda, oppure se la seconda smentisca la prima. Il doppio voto del Parlamento ha di fatto lasciato campo libero al ministro Gentiloni nel definire la prossima agenda per il Medioriente, indirizzo di cui oggi è arduo immaginare minimamente i risvolti e le complicanze. Comunque, i partiti in perfetto stile Ponzio Pilato si sono lavati le mani. E la coscienza. Vale per quelli di governo come per quelli dell’opposizione. Nemesi storica per la Lega Nord, che un tempo, nemmeno troppo lontano, rivendicava il diritto alle autonomie dei popoli dalla Padania alla Palestina, entrambe messe celermente nel dimenticatoio dalla nuova Lega di Salvini diventata paladina d’Israele e dell’Italia. L’ambiguità vale per il Movimento 5 stelle che a Livorno, città tradizionalmente legata alle proprie radici ebraiche, dallo spirito laico e aperto, ha deciso di gemellarsi con Gaza dove governa e “regna” Hamas. Al contrario in Forza Italia prevale ancora il pensiero di Silvio Berlusconi, grande amico di Netanyahu, e unico leader europeo che in visita ufficiale in quei luoghi martoriati non si accorse del muro di separazione, venendo, a suo dire, magicamente teletrasportato a Ramallah e Betlemme. Anche nel Partito Democratico è palesata una certa discontinuità d’intenti, con le anime provenienti dalla tradizione dei partiti della sinistra, per un pronto riconoscimento palestinese e quelle anime invece più di tradizione centrista, concilianti con NCD e soprattutto con le richieste del governo di Gerusalemme. In conclusione la sfera politica italiana in materia di conflitto in Medioriente è un grande labirinto e un ginepraio allo stesso tempo. Segno che in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo è irrealistico trovare l’uscita senza farsi del male.
Il “pinguino” che tradusse il Corano
La nota casa editrice britannica Penguin pubblicò nel 1954 una selezione di racconti tratti da Mille e una notte. La scelta di stampare le novelle della tradizione orientale cadde proprio al momento di rimarcare la pubblicazione numero 1001 della Penguin. Il libro ebbe al tempo un grande successo di pubblico. Tanto da essere ristampato a poca distanza dalla prima edizione e inserito nella collana dei classici della Penguin. Il volume in formato tascabile deve la notorietà anche all’impeccabile traduzione dall’arabo all’inglese. Pochi sanno che l’autore di quel meticoloso adattamento è scomparso recentemente all’età di 87 anni e che era ebreo. Nessim Joseph Dawood era nato in Iraq da famiglia israelita, giunse nel Regno Unito alla fine della Seconda Guerra Mondiale per frequentare l’Università di Londra. Tuttavia il riconoscimento internazionale all’opera di Dawood è legato alla traduzione del Corano, datata 1956. Sapere che il testo fondamentale della religione islamica è stato tradotto dall’arabo in inglese da un ebreo è una notizia che può far sorridere. Purtroppo scoprire che tantissimi palestinesi, molti in giovane età, che parlano perfettamente l’ebraico moderno l’hanno imparato in prigione rattrista.
Voto israeliano 2015: traguardo volante
Il voto israeliano del 2015 passerà alla storia per aver dato vita, almeno durante la campagna elettorale, alla creazione di grandi coalizioni e aver prodotto non trascurabili rotture interne ai principali partiti. Per la prima volta avversari storici hanno deciso di convogliare a nozze, mescolando i propri candidati in liste congiunte. In ordine cronologico i primi a siglare un accordo sono stati i laburisti dell’Avodà e i centristi di Hatnua. I due partiti insieme rappresentano nei sondaggi la più forte forza politica del paese. Il sodalizio tra laburisti e centristi è scaturito dalla ricerca di erigere un fronte comune alla candidatura di Netanyahu. La popolarità del Primo Ministro è ancora molto alta in Israele. Tuttavia il suo partito il Likud scricchiola. Messo sotto pressione dalle varie costole fuoriuscite in questi anni: a destra dall’ascesa dei nazionalisti di HaBayit HaYehudi, movimento guidato da Naftali Bennet giovane cresciuto politicamente nelle file del Likud, e a sinistra dalla recente scissione e conseguente formazione del partito Kulanu, espressione di Moshe Kahlon già ministro delle comunicazioni e del sociale per il Likud. Entrambi gli schieramenti andranno a pescare nel bacino di voti di Netanyahu. E sarà quindi interessante capire quali danni questa lenta erosione potrà causare alla struttura del partito del premier. Chi non pescherà tra i voti dei delusi del Likud è certamente l’altra unione originata in queste ore. Lo sfaccettato mondo dei partiti arabi, meglio dire dei partitini vista l’esigua entità numerica, ha scelto la via della coalizione. Partiti che storicamente sono stati in perenne lotta tra di loro, che si sono scontrati per una manciata di voti necessari a passare lo sbarramento, per una volta, hanno deciso di unirsi. Il neo listone o listino coagula i comunisti di Hadash, i riformisti di Ta’al, i panarabi di Balad e gli islamici del Ra’am. Atei, laici e religiosi con l’obiettivo di diventare il terzo blocco nella Knesset. Uniti sotto la bandiera dell’anti-sionismo i leader della nuova organizzazione politica hanno dato inizio alla campagna elettorale con una conferenza stampa a Nazareth: “Non riconosciamo l’approccio arabi contro ebrei o ebrei contro arabi. La nostra lista che include sia arabi che ebrei non è contro la società israeliana, ma lotta per la società israeliana.”
Free Kobane, oltre il fumetto
Kobane è stata liberata, l’Isis è stato respinto. Era una notizia attesa. E auspicata. È una di quelle notizie che andrebbero festeggiate stappando una bottiglia, la migliore della vostra cantina. Questa vittoria per onore della cronaca era stata annunciata su Internazionale in un fumetto, l’autore Zerocalcare. Il titolo del fumetto è Kobane Calling, una storia raccontata in presa diretta con disegni in bianco e nero che avevano premunito il finale positivo all’assedio alla città curda in Siria. Per chi ama il fumetto il parallelismo con il maestro Joe Sacco, che ha segnato e disegnato il mondo e le sue atrocità, è stato immediato. Fumetti politici e politicizzati, di denuncia quelli di Sacco. Zerocalcare invece deve la sua fama a tutt’altro approccio, è autore della striscia “demenziale” Neet Kidz, ma con questo fumetto Zerocalcare entra di diritto nella “scuola” degli inviati di guerra, in questo caso senza microfono e telecamera. Tuttavia la differenza di Zerocalcare con Sacco non è solo nel tratteggio ma nello schema generazionale, nella forma della ricerca e nella filosofia: “la realizzazione di questo fumetto ha richiesto alcuni esercizi di sintesi che ne alterano la fedeltà alla realtà, lo dico per sincerità”. È quanto tiene a sottolineare lo stesso Zerocalcare. In Kobane Calling non è rappresentata violenza, non c’è sangue, non è dipinta la carneficina del conflitto, ma è raccontata la lezione della guerra con i suoi suoni e parole. Intense quelle dei giovani, anziani, uomini e donne curdi: “sono quelli dell’Isis a non essere musulmani.” Zerocalcare è andato in guerra per poi narrare la sua guerra, quella di una persona estranea a quel contesto folle, all’orrore dell’odio. L’artista lentamente, pagina dopo pagina, ha preso una posizione: “Da qui non si passerà”. Nella sua guerra Zerocalcare ha saputo rappresentare le assurdità delle geometrie in gioco, dove non c’è pallone che rimbalza da una parte all’altra ma il fuoco delle armi: “a cucchiaio da sinistra a destra è Isis. Da destra a sinistra siamo noi. Basso-basso raso terra, è turchi.” In una guerra globale, talmente vicina che la distanza dalla pace alla guerra “saranno tre fermate di metro tipo Rebibbia – Santa Maria del Soccorso”. I disegni di Zerocalcare hanno lo splendore di un manifesto contro il male, un’opera che smuove la nostra coscienza. Dove le paure di Zerocalcare non possono essere eliminate ma solo affrontate e sconfitte.
Una telefonata non allunga la vita…
Una telefonata non allunga la vita. E non stiamo parlando dell’implicazioni connesse all’uso scorretto del cellulare quando siamo alla guida della nostra vettura, ma del fatto che le tecnologie attuali permettono di rintracciare il punto di provenienza di una chiamata e l’intelligence è in grado di spedire sul posto un paio di missili in pochi minuti, eliminando il possessore del telefonino e distruggendo ciò che lo circonda. Ovviamente la cosa non accade tutti i giorni e soprattutto non è così comune nelle nostre città. Mentre, è un evento che potremo definire tipicamente mediorientale. Sintomatico di un contesto di violenza esponenziale, non risparmia nessuno ovunque anche nel suo più sperduto angolo. Questa volta è successo sulle montagne del Golan in Siria. Dove i vertici militari iraniani e di Hezbollah che operano al fianco dei governativi nella guerra civile siriana sono stati decimati con un attacco aereo. La provenienza del bombardamento è inequivocabile, anche se ufficialmente Israele non ha rivendicato la paternità della missione. La cosa che ha fatto maggior scalpore è che nell’attacco abbia perso la vita un generale iraniano, Mohammed Ali Allahdadi era il comandante in capo delle forze militari di Teheran che combattono in Siria contro i ribelli. A Gerusalemme fonti non ufficiali hanno parlato di “malinteso”: il target sarebbe stato un’unità di combattimento che preparava un azione lungo la frontiera del Golan e non il generale pasdaran, questo secondo alcune voci di corridoio. Di tutt’altra idea la stampa libanese, per i quali il militare avrebbe inavvertitamente dimenticato il cellulare acceso in una zona monitorata dai servizi segreti israeliani pronti ad intervenire. Infine c’è chi ritiene che l’alto ufficiale fosse spiato nei movimenti da lungo tempo e che l’attacco fosse stato preparato ore prima. Tutti concordano nel dire che si è trattato di un messaggio a chiare lettere non per Beirut, non per Damasco, non per Teheran ma per Washington. Alla fine però la risposta armata è arrivata da Hezbollah. È piovuta lungo il confine che separa Libano e Israele. Un convoglio militare in perlustrazione è stato bombardato da Hezbollah. Due soldati israeliani morti. Una decina feriti. L’escalation dello scontro di frontiera ha provocato la morte di un soldato della missione internazionale UNIFIL, che vede impegnata anche l’Italia con un suo contingente di peacekeeping. Qualcuno dovrebbe ricordarsi che tra Hezbollah e Israele ci sono in mezzo soldati, di pace. Hanno un mandato preciso e una risoluzione delle Nazioni Unite la 1701. Le risoluzioni non andrebbero violate, intanto è tornata la calma lungo la frontiera di una guerra mai sopita.
Vignette che fanno imbestialire
Nel freddo gennaio del 2006 il giornale danese Jillands-Posten pubblicava le vignette “blasfeme” che innescarono la reazione del mondo islamico. In Cisgiordania per alcune ore si scatenò una vera e propria caccia all’uomo. Cuore della protesta la città di Hebron. La furia cieca della folla si rivolse contro la base della forza temporanea degli osservatori internazionali (TIPH), dove avevano trovato rifugio molti cooperanti europei. Gli assediati nell’edificio, tra cui il nucleo di carabinieri sotto il comando del colonnello Zubani, respinsero a mani nude o con l’ausilio di estintori gli aggressori che tentavano di entrare. Solo grazie all’intervento dei blindati israeliani fu possibile ristabilire la calma ed evitare uno spargimento di sangue. In queste settimane dell’inverno 2015 sfilano in migliaia contro Charlie Hebdo in Cecenia, Pakistan, a Gaza e anche a Ramallah e Hebron. Nelle principali città della West Bank, in quelle che erano un tempo le roccaforti di Fatah centinaia di cartelli inneggianti all’Islam, bandiere nere con scritte bianche. Le manifestazioni non sono state spontanee, ad indire la protesta è stato il Liberation Party, un gruppo islamico. Durante il lungo corteo la folla ha intonato cori che osannavano e incitavano al Califfato. È il segno dei tempi. L’Isis allarga la sua sfera d’azione, prende forma e spazio nella società palestinese. Per ora è solo propaganda contro un giornale satirico francese, ma domani cosa succederà?