Osama Hamdan, non il noto terrorista ma il bravissimo architetto palestinese, era mio amico. Portare lo stesso nome e cognome, di uno dei leader storici di Hamas, comportava talvolta esilaranti equivoci. Ricordo benissimo la faccia dell’addetto alla sicurezza dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, mentre sfogliava le pagine del suo passaporto. Panico imbarazzante. In effetti se pensi di avere davanti a te uno dei primi della lista dei ricercati dai servizi segreti israeliani qualche effetto istintivo naturale lo provoca, a chiunque. Soprattutto quando solo pochi secondi prima gentilmente gli avevi augurato buon giorno e preso in mano il suo documento d’identità, in totale leggerezza e pronto a fargli fare la trafila di rito che tocca ai palestinesi gerosolimitani. Comunque, a spiegargli che non si trattava della stessa persona ma di un semplice caso di omonimia fu lo stesso Osama, molto divertito dall’episodio. Per piccolo e ridicolo che possa sembrare tutto ciò se sei palestinese lo devi mettere in conto, purtroppo è la normalità e ti ci devi abituare.
Una estate mi capitò di farmi ospitare a casa sua. Clara (sua moglie) con Marta e Alessia (le figlie allora bambine) erano in vacanza in Piemonte, dai nonni. Il mio arrivo portò cene e aperitivi. Negli anni a seguire Osama nel giustificarsi di quella mia allegra presenza amava dire a Clara: “Enrioo invitava un sacco di gente diversa”. Clara che ovviamente ci conosceva bene non si è mai arrabbiata, ne’ con me ne’ con lui. L’abituale appuntamento mattutino che ci eravamo prefissati era la sigaretta e il caffè. Quando non era troppo tardi lo prendevamo in veranda. Ricordo con dolcezza Osama fumare e guardare con una sorta di adorazione il panorama di Gerusalemme. In tutta onestà alcune volte non capivo a cosa pensasse, altre invece discutevamo di tutto. Succedeva che lo accompagnassi da Sebastia a Gerico, da Betlemme all’Ikea di Petah Tiqwa. Oppure a comprare il pesce a Jaffa, alla vigilia del Natale. Per più di 10 anni ho passato in quella casa le feste, in famiglia. Che prendevano il via con: “Ti va un Campari per aperitivo?”. La risposta era ovviamente: “Sì!”. Osama Hamdan era una persona solare. A cui piaceva la semplicità e la giustizia. Intellettuale di una sinistra palestinese andata svanendo nel tempo, ma che resta radicata nel dna di un popolo oppresso. Fagocitata tanto dal fondamentalismo quanto dall’ immoralità manifesta della congrega di Arafat. Un giorno si parlerà delle ingiustizie perpetrate da chi governa oggi i palestinesi, come del resto delle vessazioni imposte dall’occupazione israeliana, Osama lo raccontava da oltre vent’anni. E come il saggio che ascolta il vento non vedeva nulla di buono all’orizzonte. Forse la convinzione che la bottiglia del dolore non aveva fondo ha spinto Osama Hamdan a dimostrarsi all’altezza degli eventi. Ha ricevuto onorificenze in mezzo mondo, inclusa quella di cavaliere della repubblica italiana. Ha collaborato con l’archeologo padre Michele Piccirillo, ha scritto e riformulato la storia dell’architettura e del restauro palestinese, grazie anche al vincolo di sodalizio con l’esperta Carla Benelli. Ha svolto lui teoricamente musulmano, ma totalmente agnostico, i lavori al Santo Sepolcro e alla Natività, mettendo quasi sempre tutti d’accordo, cosa non semplice nella fragile e complessa rete di rapporti per non alterare lo status quo. Vederlo passeggiare sotto le navate al seguito dei frati francescani che pendevano dalla sua infinita conoscenza è la foto che ho stampato nella memoria del nostro ultimo incontro, era una calda mattina di autunno del 2022. La sera prima avevamo cenato insieme. Appariva stanco e provato. La malattia lo stava lentamente prosciugando. Lui non si arrendeva. Terminata la cena uscimmo sul patio: “Mi offri una sigaretta? Mi va di fumare”. Sapevo che aveva smesso da tempo. La vista che avevamo difronte non era più quella del passato rivolta alle mura della città Vecchia, le cose e le case cambiano e adesso la nuova dimora degli Hamdan guarda verso il deserto. Mi raccontò delle cure in ospedale e della contentezza di essere diventato nonno. La figlia minore Alessia venne a sedersi accanto noi, con il suo narghilè alla mela. Quando l’aria incominciò ad essere pungente intervenne: “Baba ti porto una coperta?”. Osama scosse la testa: “Meglio rientrare”. Penso che avrei potuto resistere al freddo polare pur di continuare per ore quella conservazione.
Triste oggi ripensare a quel momento, a Gerusalemme senza il compagno Osama.
ec